El objeto que tienes en las
manos no es un libro, sino una grieta en la realidad. Personas de un
lado y otro la cruzan sin saber adónde llegan,
per con la certeza de que ya es tarde para regresar. Distopías,
fenómenos paranormale, ciencia ficción e incluso la cotidaneidad
del siglo XXI son el escenario perfecto para sacar a luz lo más
escondido del ser humano.
(L’oggetto
che tieni tra le mani non è un libro, ma una crepa nella realtà.
Persone da un lato all’altro l’attraversano senza sapere dove
arrivano, ma con la certezza che è ormai tardi per ritornare.
Distopie, fenomeni paranormali, fiction scientifica e compresa la
quotidianità del secolo XXI sono lo scenario perfetto per portare
alla luce ciò che c’è di più nascosto nell’essere umano).
Risvolto
di copertina di Demasiado tarde para volver, Barcelona, RIL
editores, 2919, raccolta di brevi racconti, folgorazioni, Baudelaire
avrebbe detto fusées, dello scrittore spagnolo Miguel Ángel
Hernández.
Estamos llegando. Ya sabes lo que hay que hacer. Cierra los ojos y no hagas caso a nadie. Y, sobre todo, oiga lo que oigas, no pares de correr.
Miguel Ángel Hernández, Demasiado tarde para volver, pag. 108
(Stiamo arrivando. Sai già ciò che c'è da fare. Chiudi gli occhi e non badare a niente. E, soprattutto, qualunque cosa tu ascolti, non smettere di correre.
Miguel Ángel Hernández, Troppo tardi per tornare, pag. 108
Miguel
Ángel Hernández insegna storia dell’arte nell’Università
di Murcia, interessante e bella città
a sud di Valencia e al confine con l’Andalusia. Ha già scritto tre
romanzi, Intento de escapada,
2013, El instante de peligro,
2015, El dolor de los demás,
2018. Il primo è stato tradotto in
italiano da Elisa
Tramontin per le edizioni e/o nel
2015, con il titolo Tentativi di fuga
(non si capisce perché il singolare,
intento, del titolo spagnolo sia diventato in italiano un plurale,
tentativi). Ha aperto un blog, No
(ha) lugar, visitatelo,
è stimolante, e ha
scritto diversi saggi sia d’arte sia di letteratura. Parallelo al
suo terzo romanzo è un diario che ne registra la nascita e il
percorso, Aquí y ahora, Madrid. Fórcola ediciones,
2019.
Aquí
y ahora. Qui e ora, hic et nunc. “Se
il senso del romanzo era la trasformazione della letteratura in
realtà, il diario intraprese il cammino contrario: la conversione
della vita quotidiana in letteratura”, scrive Hernández
nell’introduzione (prólogo).
Accomuna i due testi, il romanzo e il
diario, e in fondo l’intera produzione del giovane scrittore
spagnolo, ciò
che si dice nel
risvolto di copertina della
plaquette: la scrittura usata come uno
scalpello che apre “crepe nella realtà”.
Scavare, estrarre ciò che non si vede, che
non si può, ma che
spesso anche non si vuole vedere. In una pagina del diario lo
scrittore denuncia aspramente la tentazione alla quale induce
l’industria culturale odierna e alla quale cedono facilmente
gli scrittori, soprattutto quelli delle
scuole di scrittura: di attirare il
consenso dei lettori assecondandone i gusti, le predilezioni, il
bisogno di conforto, di
rassicurazione, di trovare nel libro una conferma al proprio
desiderio di superamento di ciò che dispiace, addolora, disgusta. Lo
scrittore, invece, deve fare proprio questo: dispiacere, addolorare,
e se si vuole perfino
disgustare il lettore,
demolirne le
illusioni, gli accomodamenti, e mostrare invece
la vera faccia della realtà, anche se ributtante, anche
se mostrarla toglie tutte le certezze, le
comode e rassicuranti abitudini. Ma questa
operazione di svelamento, di denudamento della realtà non va
condotto, si badi,
per spaventare il lettore, per eccitarne
magari i gusti malsani, bensì per
incitarlo a guardare in faccia le
cose, a guardarle, finalmente, senza l’edulcoramento di un facile
e convenzionale ottimismo, di
un occultamento ipocrita e menzognero del
male che vi si annida. Ecco quindi che nei
brevi racconti l’incubo
non è scansato, ma guardato, narrato.
“Sognò
che si svegliava. E in quel sogno non poté mai più tornare a
dormire (Intrappolato)”.
“L’aereo
si schiantò con centoquindici passeggeri a bordo. Quando vide la
notizia alla TV, sospirò sollevato. La notte prima qualcosa gli
aveva detto che non doveva salire su quell’aereo. La notte dopo
quello stesso qualcosa si presentò nella sua stanza. Lo
accompagnavano centoquattordici. Ed erano venuti per restare
(Premonizione)”.
“Dopo
un lungo periodo, oggi sono tornato a vedere la mia faccia in uno
specchio. E’ stato fugace, appena un secondo, il tempo che ha
impiegato la stecca ad attraversarmi il cuore (Rincontro)”.
“Ha
sempre avuto paura degli specchi, soprattutto quando compare il
signore calvo senz’occhi che imita tutti i suoi movimenti
(Rincontro II)”.
Talora
si rasenta la bestemmia: in un paese cattolico come la Spagna, avrà
un senso.
“ ‘E
se nel fondo tutto questo non fosse nient’altro che una farsa?’
chiese disperato a suo Padre.
Non
ottenne nessuna risposta.
Fu
allora quando, dopo avere guardato verso il cielo, disse: ‘Si è
compiuto’ (Profezia)”.
“Dopo
avere bruciato la croce, il pescatore trovò tra le ceneri lo
scheletro di una piccola colomba. Dell’altro corpo non restava
niente (Risurrezione)”.
Infine
l’incubo di un delitto inspiegabile:
“Tutte
le notti la stessa storia. Il marito entra in cucina, la butta per
terra e l’accoltella più volte. Poi, come se non fosse successo
niente, lei si alza, mette in ordine laca e pulisce le tracce di
sangue. Non sa perché continua a succedere. L’unica cosa che gli è
chiara è che deve pulire con cura. I bambini non devono accorgersi
di nulla (Destino)”. C’è il racconto da cui è tratto il titolo
del libro: “Uscì per alcuni minuti a fare una passeggiata. Dopo un
po’ guardò l’orologio. Il tempo era volato. /Troppo tardi per
tornare (Tempus fugit)”.
Si
può pensare a Bunñuel, a Miró, ma anche
a Kafka. O al Bartleby di Melville, citato
in qualche punto. E tuttavia sarebbe
fuorviante. Questi brevi racconti, o piuttosto visioni, sono,
appunto, crepe, un passaggio non già dal
reale al sogno o
all’incubo, bensì
dal reale al reale, dal reale
dell’esperienza quotidiana, al reale che supponiamo, temiamo,
immaginiamo, che ci attraversa improvvisamente il cervello, un reale
vero, tangibile, evidente quanto l’altro, quanto quello che
chiamiamo e riteniamo reale. Chi sa quanti si saranno sorpresi almeno
una volta, o più di una volta, a immaginare con terrificante
evidenza il proprio salto dall’alto di una torre o di un ponte, il
petto dell’amato o dell’amata squarciato da una coltellata, o
mentre si sta alla guida dell’auto vedersi
spalancare alla
fantasia la scena di un incidente, l’auto fracassata, il proprio
corpo maciullato. Di solito ci si ritrae immediatamente
da queste folgoranti e raccapriccianti
visioni. Spaventati, ci si consola che è solo immaginazione. Ma se
ne scrivo, se le racconto, queste immaginazioni, ecco che si
distaccano da me, si fanno realtà e
realtà separata sulla quale ho le stesso potere che ho sulla realtà
quotidiana che vivo, cioè nessuno: è una realtà autonoma,
indipendente dalla mia volontà, non posso modificarla, devo
accettarla com’è. La
scrittura, infatti,
ha il potere di rendere realtà tutto ciò di cui parla. Perché
essa stessa è
realtà. Lo è a tal punto che lo scrittore
è quasi guidato da essa, non è lui a decidere che cosa debba
compiere il personaggio, ma il personaggio a suggerirgli, anzi
comandargli di compiere ciò che vuole compiere: fammi fare questo,
fammi fare quello. E non c’è modo che lo scrittore possa
intervenire. Goethe avrebbe forse preferito di non condurre Werther
fino al suicidio. Ma Werther glielo ha imposto: mi ammazzerò. C’è
un bellissimo romanzo di Miguel de Unamuno, Niebla,
nebbia, nel quale alla fine il personaggio va a trovare lo scrittore
nel suo studio per dirgli che si rifiuta di morire. Ma
Augusto Pérez muore lo stesso. Lo scrittore è come Dio, può
decidere la morte dei suoi personaggi, ma non può resuscitarli, ma
soprattutto non può decidere di non farli morire se il personaggio
deve morire. Così
anche riguardo alla morte, una volta che l’uomo di carne e ossa (il
personaggio è carne e ossa di finzione) viene
al mondo, Dio non può impedirne la morte, proprio
come lo scrittore non può impedirla
all’uomo della
finzione. Il romanzo fu scritto nel 1907 e pubblicato nel 1914. I
Sei personaggi in cerca di autore
di Pirandello sono del 1921. Parallelamente
si può fare riferimento alla silloge poetica El
Cristo de Velázquez.
Anche Unamuno trascorre, attraverso la scrittura, da un piano
all’altro della rappresentazione del reale, dalla pittura alla
poesia. Se Dio è
Parola, la poesia
è la rivelazione della parola. Scrivere poesia non è tendere alla
bellezza, ma esplorazione del reale: e il reale è parola, scrittura.
Almeno per l’uomo. Da questo punto di vista si può capire la solo
apparente blasfemia dei due racconti brevi che Hernández
inserisce nella plaquette: Profezia
e Risurrezione.
Le
folgorazioni di questi raccontini, di queste fantasie si fanno,
infatti, riflessione, meditazione nell’altro libro, Aqui y ahora,
qui e adesso (la realtà dell’ente per Heidegger). Un diario,
dunque, non un romanzo o una raccolta di racconti, ma un diario che
nella mani dello scrittore diventa esso stesso un esercizio di
scrittura. La scrittura dell’immediatezza, della registrazione
istantanea di avvenimenti, pensieri, associazioni, ricordi
contrapposta alla scrittura della mediazione, della riflessione,
della distanza, ch’è la scrittura del romanzo. Ma pur sempre
scrittura. Hernández afferma,
a un certo punto, parlando della mostra di un pittore, dove
ha condotto a visitarla i propri allievi, che
“l’arte pensa”. Figuriamoci, allora,
la scrittura. L’errore per il quale ancora
oggi, dopo tanta
riflessione sulla natura dell’arte e soprattutto dopo tanti studi
di neurobiologia sul cervello umano,
ancora oggi da
più parti si tende a dividere il lavoro della scienza, della
filosofia, della critica, dal lavoro dell’arte, della musica, della
scrittura, nasce da un’idea restrittiva di che cosa sia il
pensiero. Ssi
attribuisce il carattere di pensiero solo al concetto, e solo il
concetto sarebbe razionale, il resto sono emozioni, sentimenti,
immaginazioni, ma non pensiero. E’ questa
un’idea molto ristretta del pensiero. Già
Aristotele ci avrebbe a che ridire, lui che trova la tragedia “più
filosofica” della storia. Ma sappiamo
bene, invece, oggi, che le regioni del cervello preposte all’emozione
e quelle preposte all’elaborazione razionale sono contigue, e
comunicanti, e il cattivo funzionamento di una fa funzionare male
anche l’altra. In
realtà qualunque rappresentazione che noi ci facciamo della realtà
è pensiero, anche quella che sembra
nascere da un’emozione. Ciò significa
che non pensiamo la realtà sempre allo stesso modo e non la
guardiamo, non la raccontiamo, non la rappresentiamo sempre dalla
stessa visuale e con gli stessi strumenti di rappresentazione. Lo
scrittore la rappresenta, la racconta, la pensa con il linguaggio. Il
pittore con il disegno e con i colori. Ma si
rifletta anche che l’arte moderna ha
superato queste distinzioni, questi confini; un’installazione, per
esempio, si pone come rappresentazione e insieme come riflessione
sulla rappresentazione o con la rappresentazione. Chi afferma che
questa non è arte ha un’idea restrittiva di che cosa sia l’arte
allo stesso modo di chi ritiene che il pensiero sia espresso solo da
concetti. I confini, i limiti, invece, non sono netti, nette
sono le distinzioni degli strumenti con cui si pensa la realtà, ma
qualunque sia lo strumento resta che la realtà è pensata. Come
se, del resto, ci fosse poco pensiero, che so, in un ritratto di
Velázquez
o in un autoritratto di Rembrandt. Lo
strumento dello scrittore, si è detto, è la scrittura. Aristotele –
è stato il primo a capire come ci si debba orientare in questo
ambito – sostiene che senza il linguaggio noi
non conosceremmo la realtà.
E lo scrittore lavora proprio con il
linguaggio. La letteratura è l’arte del linguaggio. La realtà
rappresentata, conosciuta attraverso il linguaggio. Il diario procede
parallelo alla scrittura del romanzo El
dolor de los demás,
il dolore degli altri (Anagrama). Ne ho scritto sul mio blog:
e
su Gli Stati Generali nel giugno del 2018. E’
la storia di un omicidio, un giovane uccide sua sorella e si
ammazza gettandosi in un burrone. Il giovane era amico dello
scrittore. Raccontare la vicenda, dopo venti anni, è affrontare
fantasmi, mostri, che non si erano voluti vedere ed erano stati
sommersi. “Il
crimine autentico sul quale scrivevo era quello che avevo commesso
con il mio passato, con quell’io che era rimasto sepolto nel tempo”
dichiara
lo scrittore in un’intervista.
Il
diario, oltre a essere di gradevolissima lettura, si legge d’un
fiato, è una miniera di osservazioni sull’arte, sulla letteratura,
sugli scrittori spagnoli contemporanei, molti dei quali amici di
Hernández,
sulle realtà contemporanee, compresa la rete, descritta come cortile
scolastico degli adulti (patio de colegio de los adultos).
Riflessioni sulla morte che spezzano il cuore e fanno riflettere: “la
vita se ne va in un secondo”. Proprio investigando,
guardando nella
rete si rinnova, un
giorno,
il dolore della perdita di sua madre. “Ieri è morta mia madre.
Ancora non ho cominciato ad assimilarlo. Sono perduto nelle parole.
Ho appena la forza di scrivere. Il linguaggio è sterile per tradurre
l’esperienza della morte. Dopo nove anni le parole continuano a non
riempire il vuoto di senso. Il dolore non è finito. Non c’è modo
di trovare logica nel nonsenso.” Ecco, se si entra in quest’idea,
in questa materialità del linguaggio che rappresenta la realtà,
anche questo diario acquista la concretezza di un romanzo, senza
essere romanzo. E’ scrittura, la registrazione del quotidiano, che
resterebbe inespresso, forse sconosciuto, se la scrittura non lo
portasse alla luce. Una lezione formidabile di che cosa sia, e anzi
debba essere, la scrittura. Faticoso esercizio di estrarre il senso
della realtà, trasferendolo nelle parole. Vuoto esercizio di esteta
se manca la realtà, inutile catalogo di banalità se non c’è il
lavoro della scrittura. Miguel
Ángel
Hernández
è
un maestro formidabile nell’equilibrare appunto il rapporto che
c’è, quando si scrive, tra la realtà e le parole che
la raccontano.