giovedì 30 aprile 2020

Qui e adesso









El objeto que tienes en las manos no es un libro, sino una grieta en la realidad. Personas de un lado y otro la cruzan sin saber adónde llegan, per con la certeza de que ya es tarde para regresar. Distopías, fenómenos paranormale, ciencia ficción e incluso la cotidaneidad del siglo XXI son el escenario perfecto para sacar a luz lo más escondido del ser humano.

(L’oggetto che tieni tra le mani non è un libro, ma una crepa nella realtà. Persone da un lato all’altro l’attraversano senza sapere dove arrivano, ma con la certezza che è ormai tardi per ritornare. Distopie, fenomeni paranormali, fiction scientifica e compresa la quotidianità del secolo XXI sono lo scenario perfetto per portare alla luce ciò che c’è di più nascosto nell’essere umano).

Risvolto di copertina di Demasiado tarde para volver, Barcelona, RIL editores, 2919, raccolta di brevi racconti, folgorazioni, Baudelaire avrebbe detto fusées, dello scrittore spagnolo Miguel Ángel Hernández.

FUTURO
Estamos llegando. Ya sabes lo que hay que hacer. Cierra los ojos y no hagas caso a nadie. Y, sobre todo, oiga lo que oigas, no pares de correr.
Miguel Ángel Hernández, Demasiado tarde para volver, pag. 108
(Stiamo arrivando. Sai già ciò che c'è da fare. Chiudi gli occhi e non badare a niente. E, soprattutto, qualunque cosa tu ascolti, non smettere di correre.
Miguel Ángel Hernández, Troppo tardi per tornare, pag. 108

Miguel Ángel Hernández insegna storia dell’arte nell’Università di Murcia, interessante e bella città a sud di Valencia e al confine con l’Andalusia. Ha già scritto tre romanzi, Intento de escapada, 2013, El instante de peligro, 2015, El dolor de los demás, 2018. Il primo è stato tradotto in italiano da Elisa Tramontin per le edizioni e/o nel 2015, con il titolo Tentativi di fuga (non si capisce perché il singolare, intento, del titolo spagnolo sia diventato in italiano un plurale, tentativi). Ha aperto un blog, No (ha) lugar, visitatelo, è stimolante, e ha scritto diversi saggi sia d’arte sia di letteratura. Parallelo al suo terzo romanzo è un diario che ne registra la nascita e il percorso, Aquí y ahora, Madrid. Fórcola ediciones, 2019.

Aquí y ahora. Qui e ora, hic et nunc. “Se il senso del romanzo era la trasformazione della letteratura in realtà, il diario intraprese il cammino contrario: la conversione della vita quotidiana in letteratura”, scrive Hernández nell’introduzione (prólogo). Accomuna i due testi, il romanzo e il diario, e in fondo l’intera produzione del giovane scrittore spagnolo, ciò che si dice nel risvolto di copertina della plaquette: la scrittura usata come uno scalpello che apre “crepe nella realtà”. Scavare, estrarre ciò che non si vede, che non si può, ma che spesso anche non si vuole vedere. In una pagina del diario lo scrittore denuncia aspramente la tentazione alla quale induce l’industria culturale odierna e alla quale cedono facilmente gli scrittori, soprattutto quelli delle scuole di scrittura: di attirare il consenso dei lettori assecondandone i gusti, le predilezioni, il bisogno di conforto, di rassicurazione, di trovare nel libro una conferma al proprio desiderio di superamento di ciò che dispiace, addolora, disgusta. Lo scrittore, invece, deve fare proprio questo: dispiacere, addolorare, e se si vuole perfino disgustare il lettore, demolirne le illusioni, gli accomodamenti, e mostrare invece la vera faccia della realtà, anche se ributtante, anche se mostrarla toglie tutte le certezze, le comode e rassicuranti abitudini. Ma questa operazione di svelamento, di denudamento della realtà non va condotto, si badi, per spaventare il lettore, per eccitarne magari i gusti malsani, bensì per incitarlo a guardare in faccia le cose, a guardarle, finalmente, senza l’edulcoramento di un facile e convenzionale ottimismo, di un occultamento ipocrita e menzognero del male che vi si annida. Ecco quindi che nei brevi racconti l’incubo non è scansato, ma guardato, narrato. 

 

Sognò che si svegliava. E in quel sogno non poté mai più tornare a dormire (Intrappolato)”.

L’aereo si schiantò con centoquindici passeggeri a bordo. Quando vide la notizia alla TV, sospirò sollevato. La notte prima qualcosa gli aveva detto che non doveva salire su quell’aereo. La notte dopo quello stesso qualcosa si presentò nella sua stanza. Lo accompagnavano centoquattordici. Ed erano venuti per restare (Premonizione)”.

Dopo un lungo periodo, oggi sono tornato a vedere la mia faccia in uno specchio. E’ stato fugace, appena un secondo, il tempo che ha impiegato la stecca ad attraversarmi il cuore (Rincontro)”.

Ha sempre avuto paura degli specchi, soprattutto quando compare il signore calvo senz’occhi che imita tutti i suoi movimenti (Rincontro II)”.

Talora si rasenta la bestemmia: in un paese cattolico come la Spagna, avrà un senso.

“ ‘E se nel fondo tutto questo non fosse nient’altro che una farsa?’ chiese disperato a suo Padre.
Non ottenne nessuna risposta.
Fu allora quando, dopo avere guardato verso il cielo, disse: ‘Si è compiuto’ (Profezia)”.

Dopo avere bruciato la croce, il pescatore trovò tra le ceneri lo scheletro di una piccola colomba. Dell’altro corpo non restava niente (Risurrezione)”.

Infine l’incubo di un delitto inspiegabile:

Tutte le notti la stessa storia. Il marito entra in cucina, la butta per terra e l’accoltella più volte. Poi, come se non fosse successo niente, lei si alza, mette in ordine laca e pulisce le tracce di sangue. Non sa perché continua a succedere. L’unica cosa che gli è chiara è che deve pulire con cura. I bambini non devono accorgersi di nulla (Destino)”. C’è il racconto da cui è tratto il titolo del libro: “Uscì per alcuni minuti a fare una passeggiata. Dopo un po’ guardò l’orologio. Il tempo era volato. /Troppo tardi per tornare (Tempus fugit)”.

Si può pensare a Bunñuel, a Miró, ma anche a Kafka. O al Bartleby di Melville, citato in qualche punto. E tuttavia sarebbe fuorviante. Questi brevi racconti, o piuttosto visioni, sono, appunto, crepe, un passaggio non già dal reale al sogno o all’incubo, bensì dal reale al reale, dal reale dell’esperienza quotidiana, al reale che supponiamo, temiamo, immaginiamo, che ci attraversa improvvisamente il cervello, un reale vero, tangibile, evidente quanto l’altro, quanto quello che chiamiamo e riteniamo reale. Chi sa quanti si saranno sorpresi almeno una volta, o più di una volta, a immaginare con terrificante evidenza il proprio salto dall’alto di una torre o di un ponte, il petto dell’amato o dell’amata squarciato da una coltellata, o mentre si sta alla guida dell’auto vedersi spalancare alla fantasia la scena di un incidente, l’auto fracassata, il proprio corpo maciullato. Di solito ci si ritrae immediatamente da queste folgoranti e raccapriccianti visioni. Spaventati, ci si consola che è solo immaginazione. Ma se ne scrivo, se le racconto, queste immaginazioni, ecco che si distaccano da me, si fanno realtà e realtà separata sulla quale ho le stesso potere che ho sulla realtà quotidiana che vivo, cioè nessuno: è una realtà autonoma, indipendente dalla mia volontà, non posso modificarla, devo accettarla com’è. La scrittura, infatti, ha il potere di rendere realtà tutto ciò di cui parla. Perché essa stessa è realtà. Lo è a tal punto che lo scrittore è quasi guidato da essa, non è lui a decidere che cosa debba compiere il personaggio, ma il personaggio a suggerirgli, anzi comandargli di compiere ciò che vuole compiere: fammi fare questo, fammi fare quello. E non c’è modo che lo scrittore possa intervenire. Goethe avrebbe forse preferito di non condurre Werther fino al suicidio. Ma Werther glielo ha imposto: mi ammazzerò. C’è un bellissimo romanzo di Miguel de Unamuno, Niebla, nebbia, nel quale alla fine il personaggio va a trovare lo scrittore nel suo studio per dirgli che si rifiuta di morire. Ma Augusto Pérez muore lo stesso. Lo scrittore è come Dio, può decidere la morte dei suoi personaggi, ma non può resuscitarli, ma soprattutto non può decidere di non farli morire se il personaggio deve morire. Così anche riguardo alla morte, una volta che l’uomo di carne e ossa (il personaggio è carne e ossa di finzione) viene al mondo, Dio non può impedirne la morte, proprio come lo scrittore non può impedirla all’uomo della finzione. Il romanzo fu scritto nel 1907 e pubblicato nel 1914. I Sei personaggi in cerca di autore di Pirandello sono del 1921. Parallelamente si può fare riferimento alla silloge poetica El Cristo de Velázquez. Anche Unamuno trascorre, attraverso la scrittura, da un piano all’altro della rappresentazione del reale, dalla pittura alla poesia. Se Dio è Parola, la poesia è la rivelazione della parola. Scrivere poesia non è tendere alla bellezza, ma esplorazione del reale: e il reale è parola, scrittura. Almeno per l’uomo. Da questo punto di vista si può capire la solo apparente blasfemia dei due racconti brevi che Hernández inserisce nella plaquette: Profezia e Risurrezione.



Le folgorazioni di questi raccontini, di queste fantasie si fanno, infatti, riflessione, meditazione nell’altro libro, Aqui y ahora, qui e adesso (la realtà dell’ente per Heidegger). Un diario, dunque, non un romanzo o una raccolta di racconti, ma un diario che nella mani dello scrittore diventa esso stesso un esercizio di scrittura. La scrittura dell’immediatezza, della registrazione istantanea di avvenimenti, pensieri, associazioni, ricordi contrapposta alla scrittura della mediazione, della riflessione, della distanza, ch’è la scrittura del romanzo. Ma pur sempre scrittura. Hernández afferma, a un certo punto, parlando della mostra di un pittore, dove ha condotto a visitarla i propri allievi, che “l’arte pensa”. Figuriamoci, allora, la scrittura. L’errore per il quale ancora oggi, dopo tanta riflessione sulla natura dell’arte e soprattutto dopo tanti studi di neurobiologia sul cervello umano, ancora oggi da più parti si tende a dividere il lavoro della scienza, della filosofia, della critica, dal lavoro dell’arte, della musica, della scrittura, nasce da un’idea restrittiva di che cosa sia il pensiero. Ssi attribuisce il carattere di pensiero solo al concetto, e solo il concetto sarebbe razionale, il resto sono emozioni, sentimenti, immaginazioni, ma non pensiero. E’ questa un’idea molto ristretta del pensiero. Già Aristotele ci avrebbe a che ridire, lui che trova la tragedia “più filosofica” della storia. Ma sappiamo bene, invece, oggi, che le regioni del cervello preposte all’emozione e quelle preposte all’elaborazione razionale sono contigue, e comunicanti, e il cattivo funzionamento di una fa funzionare male anche l’altra. In realtà qualunque rappresentazione che noi ci facciamo della realtà è pensiero, anche quella che sembra nascere da un’emozione. Ciò significa che non pensiamo la realtà sempre allo stesso modo e non la guardiamo, non la raccontiamo, non la rappresentiamo sempre dalla stessa visuale e con gli stessi strumenti di rappresentazione. Lo scrittore la rappresenta, la racconta, la pensa con il linguaggio. Il pittore con il disegno e con i colori. Ma si rifletta anche che l’arte moderna ha superato queste distinzioni, questi confini; un’installazione, per esempio, si pone come rappresentazione e insieme come riflessione sulla rappresentazione o con la rappresentazione. Chi afferma che questa non è arte ha un’idea restrittiva di che cosa sia l’arte allo stesso modo di chi ritiene che il pensiero sia espresso solo da concetti. I confini, i limiti, invece, non sono netti, nette sono le distinzioni degli strumenti con cui si pensa la realtà, ma qualunque sia lo strumento resta che la realtà è pensata. Come se, del resto, ci fosse poco pensiero, che so, in un ritratto di Velázquez o in un autoritratto di Rembrandt. Lo strumento dello scrittore, si è detto, è la scrittura. Aristotele – è stato il primo a capire come ci si debba orientare in questo ambito – sostiene che senza il linguaggio noi non conosceremmo la realtà. E lo scrittore lavora proprio con il linguaggio. La letteratura è l’arte del linguaggio. La realtà rappresentata, conosciuta attraverso il linguaggio. Il diario procede parallelo alla scrittura del romanzo El dolor de los demás, il dolore degli altri (Anagrama). Ne ho scritto sul mio blog: 
 

e su Gli Stati Generali nel giugno del 2018. E’ la storia di un omicidio, un giovane uccide sua sorella e si ammazza gettandosi in un burrone. Il giovane era amico dello scrittore. Raccontare la vicenda, dopo venti anni, è affrontare fantasmi, mostri, che non si erano voluti vedere ed erano stati sommersi. “Il crimine autentico sul quale scrivevo era quello che avevo commesso con il mio passato, con quell’io che era rimasto sepolto nel tempo” dichiara lo scrittore in un’intervista. Il diario, oltre a essere di gradevolissima lettura, si legge d’un fiato, è una miniera di osservazioni sull’arte, sulla letteratura, sugli scrittori spagnoli contemporanei, molti dei quali amici di Hernández, sulle realtà contemporanee, compresa la rete, descritta come cortile scolastico degli adulti (patio de colegio de los adultos). Riflessioni sulla morte che spezzano il cuore e fanno riflettere: “la vita se ne va in un secondo”. Proprio investigando, guardando nella rete si rinnova, un giorno, il dolore della perdita di sua madre. “Ieri è morta mia madre. Ancora non ho cominciato ad assimilarlo. Sono perduto nelle parole. Ho appena la forza di scrivere. Il linguaggio è sterile per tradurre l’esperienza della morte. Dopo nove anni le parole continuano a non riempire il vuoto di senso. Il dolore non è finito. Non c’è modo di trovare logica nel nonsenso.” Ecco, se si entra in quest’idea, in questa materialità del linguaggio che rappresenta la realtà, anche questo diario acquista la concretezza di un romanzo, senza essere romanzo. E’ scrittura, la registrazione del quotidiano, che resterebbe inespresso, forse sconosciuto, se la scrittura non lo portasse alla luce. Una lezione formidabile di che cosa sia, e anzi debba essere, la scrittura. Faticoso esercizio di estrarre il senso della realtà, trasferendolo nelle parole. Vuoto esercizio di esteta se manca la realtà, inutile catalogo di banalità se non c’è il lavoro della scrittura. Miguel Ángel Hernández è un maestro formidabile nell’equilibrare appunto il rapporto che c’è, quando si scrive, tra la realtà e le parole che la raccontano.






mercoledì 29 aprile 2020

Musica e poesia








Musica e poesia

Riflessioni provvisorie sulla pratica del madrigale italiano rinascimentale e corollario sul rapporto tra poesia e musica e sulla musica di oggi

Colgo l’occasione di uno scambio di vedute, sulla mia bacheca di Facebook, sull’interpretazione di un madrigale di Cipriano de Rore, per allargare e approfondire la discussione sul rapporto tra un testo e la sua intonazione musicale. La prendo da lontano. Con due esempi che escono dal contesto rinascimentale. Una delle più belle e famose poesie di Goethe è il Wanderers Nachtlied, canto notturno del viandante (en passant, il famoso canto leopardiano, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, è anch’esso in qualche modo ispirato da questa sublime piccola poesia goethiana. Ecco la poesia di Goethe:

Über allen Gipfeln
Ist Ruh;
In allen Wipfeln
Spürest du
Kaum einen Hauch;
Die Vögelein schweigen im Walde.
Warte nur, balde
Ruhest du auch1.

Alcuni compositori si sono lasciati tentare dal metterla in musica. Tra questi, Schubert, Liszt. La poesia affida l’efficacia del suo messaggio anche a un uso sapiente delle rime. Ruh, pace, fa rima con du, tu. Hauch, respiro, fa rima con auch, anche. Le altre rime alludono all’altezza, all’inaccessibilità del luogo: Gipfeln, vette, Wipfeln, cime degl alberi. Il basco è evocato al terzo verso che segue, Walde, e fa rima con balde, presto. Il bosco è il luogo della distanza, del silenzio, dove “presto” riposerà anche il poeta. E qui si coglie l’abisso della rima Walde-balde: il bosco è il luogo dei morti dove presto andrà anche il poeta. Sia Schubert sia Liszt colgono lo spartiacque della poesia: Hauch, respiro, il Lied ha in quel punto una sosta. Ma mentre Schubert introduce fin dall’inizio il senso della morte, scandendo il ritmo della marcia funebre, dattilo più spondeo, già nell’introduzione pianistica, Liszt vuole invece introdurci nel senso di calma offerto dal silenzio del bosco. Abbiamo un seguito di accordi di minima che scandiscono un ritmo lento, regolare. Dopo che la voce intona la parola Hauch, respiro, il Lied si anima, il silenzio del bosco sembra terrificante, e solo quando il poeta si incita all’attesa del riposo, balde ruhest du auch, presto riposerai anche tu, che la voce ripete più volte, dapprima in maniera concitata e via via sempre più calma, si torna alla quiete iniziale degli accordi di minima. Ora, se il cantante non fa percepire distintamente quel Ruh, pace, che fa rima con du, tu, quella sosta su Hauch, respiro, che fa rima con l’ultima parola della poesia, auch, anche, come potrà l’ascoltatore capire l’interpretazione diversa dei due compositori? Il senso di morte, anzi quasi il desiderio della morte, in Schubert; la paura della morte in Liszt. Come percepirà il senso dell’ansito lisztiano, della sua frenesia, se non sente distintamente che la frase balde ruhest du auch, presto riposerai anche tu, si ripete più volte? E veniamo al secondo esempio, mozartiano. E’ l’aria di Elettra, nel terzo atto dell’Idomeneo, in cui ella sfoga tutto il suo furore di amante respinta. L’aria è preceduta da un lungo, drammatico recitativo. Ecco il testo:

Oh smania! oh furie! oh disperata Elettra! ...
Addio amor, addio speme!
Ah, il cor nel seno già m'ardono
l'Eumenidi spietate
Misera a che m'arresto?
Sarò in queste contrade
della gioia e trionfi
spettatrice dolente?
Vedrò Idamante alla rivale in braccio?
e dell'uno e dell'altra
mostrarmi a dito? ... Ah no, il germano Oreste
ne' cupi abissi io vuò
seguir. Ombra infelice!
lo spirto mio accogli, or or compagna
m'avrai là dell'inferno,
a sempiterni guai, al pianto eterno.

D'Oreste, d'Aiace
ho in seno i tormenti,
d'Aletto la face
già morte mi dà.

Squarciatemi il core,
ceraste, serpenti,
o un ferro il dolore
in me finirà.

Mozart già immette la tempesta nell’orchestra. Ma sia il recitativo accompagnato che l’aria sono una riassunzione totalmente stravolta, reinventata, sinfonicizzata – e qui Gluck avrò avuto il suo peso – del modello d’aria d’ira. Certo, la musica è già teatro, l’orchestra fa già capire l’esplosione di rabbia di una donna disperata (chi sa che perfino Verdi non abbia tenuto presente quest’aria per certe sue furiose cabalette). Ma la comprensione del testo non è indifferente alla comprensione della situazione drammatica e del carattere del personaggio. Certo, bisogna anche conoscere che Elettra è sorella di Oreste e che Oreste dopo il matricidio impazzisce. Ma ci sono dei punti in cui Elettra dice cose importanti, manda messaggi chiari allo spettatore. “Vedrò Idamante alla rivale in braccio?” Se la cantante non dice chiaramente queste parole come capisce il pubblico che sta assistendo a uno scoppio di gelosia? E dopo: “compagna / m’avrai là dell’inferno, / a sempiterni guai, al pianto eterno”. E così, l’attacco dell’aria, in cui Elettra rievoca i “tormenti” del fratello e di Aiace, se non ne percepiamo il nome, come facciamo a sapere che si sente impazzire come il fratello e che è tentata di suicidarsi come Aiace ( e qualche regista, infatti, le fa trafiggersi il seno con un pugnale o addirittura spararsi un colpo di pistola alla tempia)? E non si dimentichi che proprio mentre stava lavorando all’Idomeneo Mozart, in una lettera al padre, dice che il musicista drammaturgo deve stare attento alla “forza della parola”, e usa proprio l’espressione italiana. D’altra parte il pubblico dei teatri europei, nel Settecento, conosceva l’italiano. Confesso che in nessuna delle interpretazioni che ho trovato su You Tube, l’interprete soddisfa queste esigenze, nemmeno la pur bravissima Harteros. E veniamo adesso alla musica rinascimentale, dalla quale è partita la discussione.

 Cipriano de Rore


Cipriano de Rore è un grandissimo compositore fiammingo che ha imparato così bene la lingua italiana da padroneggiarla come fosse la sua lingua madre, non solo, ma ha ugualmente approfondito la conoscenza della tradizione poetica italiana, da Petrarca fino al proprio tempo, al punto di riuscire perfino a rinnovare la tradizione del madrigale. Si può infatti far partire da lui l’inizio della cosiddetta seconda pratica, quella cioè che costruisce la forma musicale non già seguendo le regole del movimento contrappuntistico delle parti ma, lui fiammingo! modellando la forma musicale sulle figure retoriche del testo e le sollecitazioni delle immagini e dei significati in esso contenuti. Sta in poche parole costruendo una nuova retorica musicale destinata a imprevedibili sviluppi. Ora, per cantare siffatta musica bisogna fare il percorso inverso a quello che di solito intraprendono i cantanti, bisogna cioè partire non dall’intonazione della melodia, ma arrivare alla melodia attraverso la dizione chiara, percepibile e distinta del testo. Che sia possibile lo dimostra lo stesso Cipriano de Rore, che riesce appunto a possedere così bene la lingua italiana, da penetrarne come nessuno prima di lui i più segreti recessi espressivi. Perché non basta conoscere bene la lingua italiana, ma bisogna avere assimilato anche la sua tradizione poetica, almeno da Cavalcanti a Tasso e Guarino. Il verso italiano non è facile. La sua musica si affida a molte componenti. La scansione metrica, naturalmente, prima di tutto. Ma non solo. Un verso esteso come l’endecasillabo ha molti accenti, alcuni principali altri secondari e altri che si scontrano in sillabe attigue. “Baciò la sua petrosa Itaca Ulisse”, è l’ultimo verso di un bellissimo e famoso sonetto di Foscolo (siamo nell’Ottocento, ma Foscolo riassume bene tutta una tradizione). Colpisce l’urto tra sesta e settima sillaba di “petrós(a)Ítaca” (la “a” finale di “petrosa” e la “i” inziale di “Itaca” si assimilano). Il musicista farà sentire qui un brusco cambiamento ritmico. O si leggano questi due versi che chiudono un’ottava della Gerusalemme Liberata di Tasso: “In che picciol cerchio e tra che nude / solitudini è chiuso il vostro fasto”. L’enjambement “nude/solitudini” ostacola lo scorrere dei versi, perché la voce non può fermarsi a “nude”, che chiude un verso, ma deve continuare dicendo il sostantivo di cui nude è l’attributo, “solitudini”, che apre il verso seguente. Il musicista prolungherà l’effetto forse con una dissonanza o con una strana legatura che unisca la conclusione di una frase e l’inizio della seguente. L’attacco di una famosa canzone di Dante colloca l’accento sulla settima sillaba dell’endecasillabo, invece che sulla sesta: “Donne che avete intelletto d’amore”. Non era insolito nella poesia del due-trecento, ma piuttosto raro nel primo verso di una canzone. In questo modo Dante dà rilievo a un concetto insolito – com’è insolita l’accentazione – che le donne abbiano non sentimento, bensì conoscenza, “intelletto”, dell’amore. E in un periodo in cui la conoscenza di solito veniva attribuita all’uomo (e chi sa, in Italia forse è ancora così) Dante ci sta dicendo che la donna ha conoscenza razionale della realtà più dell’uomo. Il musicista che volesse rendere musicalmente l’inconsueto accento dovrà trovare un accento della frase insolito (che so, sul tempo debole) o evidenziarlo con una dissonanza.

Ecco la novità introdotta da Cipriano: è il poeta a guidare l’invenzione musicale del compositore. La musica diventa così non tanto una formulazione analogica del testo, tuttavia indifferente alla costruzione del testo, la musica s’impone bensì anzi come quasi un calco musicale delle immagini e delle soluzioni ritmiche del testo stesso. In altre parole il musicista costruisce un edificio musicale che reinventa musicalmente le strutture retoriche del testo, e fonda così una vera e propria retorica musicale. Che arriva fino a noi. Questo e non altro significa “serva dell’orazione”. Quindi non un pedestre attenersi al testo – come di solito si spiega – ma un dare ascolto alla musica già insita nel testo, al movimento dei significati e delle immagini per costruire una retorica musicale equivalente a quella con cui è stato redatto il testo. Ma questo è un altro discorso. En passant, Debussy e Musorgskij non si comportano troppo diversamente da Cipriano. Ma nemmeno Britten o Berg.

Ora, i cantanti che invece si preoccupano solo d’intonare precisamente le note scritte, e le intonano attenti solo alla loro precisione d’intonazione e bellezza di suono senza curarsi dell’accento che la parola ha nel corpo del testo, travisano e stravolgo l’intera costruzione musicale del compositore. Tanto per cominciare, per meglio intonare la nota emettono la sola vocale e trascurano, attenuano o addirittura omettono la dizione delle consonanti. Se io canto a-o-e, invece di amore, l’ascoltatore non capisce niente, e, anzi, peggio, è lo stesso cantante a non dare rilievo alla parola e al senso musicale che la parola ha nella frase. A-o invece di “aspro” non solo non fa intendere la parola, ma toglie alla musica, che magari in quel punto colloca una dissonanza, l’urto delle tre consonanti spr: à-spr-o. Sono solo due esempi per dimostrare quanto ciò che per il cantate puro è trascurabile, la dizione della parola, sia invece fondamentale anche per la resa musicale del brano. L’attenzione a ogni componente del testo, vocali e consonanti, obbliga il cantante a impostare differentemente la voce, la propria vocalità. Lo costringe soprattutto a buttare alle ortiche ogni idea di belcanto, che qui non c’entra per niente. Perché la bellezza di questo canto si affida ad altri parametri. Questo tipo di canto, infatti, e non sembri troppo audace o improprio il confronto, assomiglia di più allo Sprechgesang di uno Schoenberg che all’effusione melodica. Non siamo ancora alla lettera amorosa monteverdiana, ma già sulla buona strada per arrivare a quella. E si badi, mentre il melodramma italiano s’incamminerà appunto per la strada dell’effusione melodica. in cui è compreso anche il gioco delle agilità e dei virtuosismi vocali, l’idea di una più intima compartecipazione di testo e musica, di dizione e canto, si trasferisce di sana pianta nel teatro francese, nella Tragédie Lyrique, non a caso fondata da un fiorentino, Gian Battista Lulli, diventato Jean-Baptiste Lully. E da lì si può arrivare Gluck, a noi, oggi. Svilupperemo, forse, in seguito, questo tema. Ma mi fa andare in bestia la sufficienza, la superficialità, e – diciamolo pure – l’arroganza con cui, soprattutto dai non italiani, si continua ad affrontare questo repertorio. A goderne, bearsene, con colpevole ed epidermico estetismo, solo per i suoi supposti allettamenti sonori, come se la poesia che ne è all’origine non significasse più niente per noi, ma soprattutto non avesse avuto significato per il compositore, che invece si è profuso anima e corpo a reinventarne musicalmente il senso. Allora, o i cantanti, anche italiani, ma soprattutto non italiani, si decidono a impadronirsi perfettamente della lingua della tradizione poetica italiana – lo hanno fatto compositori fiamminghi come Willaert, Arcadelt, Lasso, Cipriano de Rore, non vedo perché non debbano farlo i cantanti - o lascino perdere, e non ci torturino le orecchie con i loro inespressivi, insignificanti – alla lettera: che non significano niente – borbotti sonori. O nei loro sonni udranno le voci dei compositori che hanno strapazzato assordargli le orecchie con impronunciabili improperi: il linguaggio dei musicisti e dei teatranti, allora come oggi, è assai ricco d’imprecazioni coprofile e d’insulti da bordello.

Pierre Boulez


Queste riflessioni hanno un corollario. Che vuole rispondere all’obiezione che certo mi verrà fatta da molti sull’incomprensibilità del testo in molta musica moderna, soprattutto delle neoavanguardie dell’ultimo dopoguerra. Mi limito a due soli compositori: Pierre Boulez e Luigi Nono. Nel Pli selon pli Boulez inserisce tre Improvisantions sur Mallarmé, tre sonetti, e l’ultimo verso di Tombeau. Le poesie sono tutte di Mallarmé. Tutta la composizione vuole essere, infatti, un ritratto di Mallarmé, che si risolve di fatto in uno splendido autoritratto dello stesso Boulez. Anche il titolo viene da Mallarmé. Ora, Mallarmé è poeta tra i più difficili che si possano leggere, il senso delle sue poesie rinvia sempre a una rete di sottotesti, allusioni, campi semantici sia lessicali sia grammaticali sia sintattici talmente complessi da richiedere da parte del lettore un grande sforzo di penetrazione intuitiva e culturale, di memoria poetica (si può dire dai trovatori alle avanguardie di fin de siècle, da Arnaut Daniel a Rimbaud). Lo stesso accade per la musica, sorta di sintesi da Machaut a Debussy, Messiaën e Webern. In genere Boulez ci tiene alla comprensibilità del testo, ma interpreta questa intellegibilità in maniera assai lata, dall’effetto sonoro della singola sillaba (e il francese ha molte parole monosillabiche) alla comprensione esplicita di un verso. Poiché, però, come Mallarmé, anche Boulez ama la molteplicità delle sovrapposizioni strutturali, non rifugge né dalla costruzione analogica di strutture musicali che corrispondano alle strutture poetiche, né dall’allusione madrigalistica al senso delle parole. Il sonetto è una struttura poetica che si presta male a una traduzione musicale strofica: due quartine e due terzine sono strutture asimmetriche. Allora Boulez sceglie la soluzione che fu già di Monteverdi, per esempio nel madrigale “Or ch’el ciel e la terra e il vento tace”, dall’VIII Libro dei Madrigali. Divide il sonetto in due sezioni separate, le due quartine, la prima, le due terzine, la seconda. In più, rispetto a Monteverdi, accentua la distinzione tra le quartine e tra le terzine inserendovi un intermezzo strumentale. L’ultimo brano di Pli selon pli, Tombeau, della poesia di Mallarmé intona solo l’ultimo verso: “Un peu profond ruisseau calomnié la mort”, un poco profondo ruscello calunniato la morte. “Mort” è l’ultima parola del verso, e dunque l’ultima parola anche intonata dal soprano prima che il brano - lo ricordo: si chiama Tombeau, tomba - si chiuda. A quel punto Boulez decide di restituire il senso della parola con un madrigalismo. Che cos’è la morte, se non la cessazione di qualcosa che c’era prima? Il problema se l’era già posto Debussy nel Pelléas et Mélisande. E non è escluso che Boulez rimandi proprio all’esempio di Debussy. Nell’ultimo atto Mélisande muore e nessuno se ne accorge. Se ne accorge però l’orchestra. Debussy segna un corona sulla stanghetta divisoria della battuta nel momento in cui Mélisande muore. Il silenzio contrapposto alla musica come rappresentazione simbolica della morte. Ma una pausa non sarebbe stata ancora silenzio, morte, perché la pausa fa parte del flusso musicale. Debussy chiede la cessazione della musica, arresta la musica nel momento in cui Mélisande muore. La corona sulla stanghetta è questa sospensione, questa interruzione, questo arresto. Boulez fa qualcosa di analogo. La morte è la fine del canto. In quel punto il soprano, arrivato alla parola “mort”, non la canta: la dice, a voce nuda, parlata.

Tutt’altro è il comportamento di Luigi Nono. Il senso del testo c’è già nel fatto che il musicista lo assuma come base per la sua costruzione musicale. Nono disintegra la parola fino a farne percepire isolate sillabe. Il testo, dunque, apparentemente, non è percepito, risulta incomprensibile. Fino all’estrema, quasi astratta sillabazione del Prometeo. Ma la parola c’è. Per esempio, l’attacco del Prometeo ha un testo greco, tratto dalla Teogonia di Esiodo: “Γαῖα ἐγείνατο”, Gea generò. Che l’ascoltatore senta solo gai da Γαῖα - oppure e o na da ἐγείνατο – non sono semplici gai, e, na, ma le sillabe contenute nelle parole da cui sono tratte e a dare loro senso sono quelle parole, che vengano o no percepite per intero. In altri termini il senso non è dato dalla percepibilità del testo bensì dalla memoria del testo di cui si percepiscono solo alcune sillabe. Se poi considero che quelle sillabe sono sillabe di parole di un verso di Esiodo, la comprensione si allarga, e ancora più se rifletto che Esiodo è chiamato in causa come poeta di miti greci in un’opera musicale che ruota intorno al mito di Prometeo.

Il cerchio qui si chiude. Come si vede, il rapporto tra testo e musica è assai complesso, di epoca in epoca e di compositore in compositore. Ma ciò che l’interprete non dovrà mai dimenticare, né tanto meno trascurare, è quale tipo di rapporto il compositore stabilisca di volta in volta tra testo e musica. Non esiste, infatti, un unico modo d’interpretare un canto perché non esiste un solo tipo di rapporto tra testo e musica nei canti. La libertà d’interpretazione finisce quando l’interpretazione travalica o snatura il rapporto voluto dal compositore. In genere, ciò che dà fastidio, in molti interpreti di oggi, è la prospettiva quasi unicamente musicale con cui leggono una partitura in cui venga intonato un testo. Come se qualsiasi canto possa essere cantato nello stesso modo e come se il rapporto tra testo e msuica sia sempre lo stesso e sia sempre la musica a guidare la voce. Ora, il prevalere di una lettura puramente musicale può essere sopportabile in certa musica vocale in cui la musica travolge davvero il testo, per esempio in certe arie di Handel o di Rossini. Ma fino a un certo punto, anche in Handel e Rossini, perché anche lì il tipo di elaborazione musicale nasce proprio dal testo, dalle immagini del testo. Ma la libertà d’interpretazione diventa un tradimento, un travisamento quando si affronta il madrigale italiano, soprattutto da Cipriano in poi, o il recitar cantando monteverdiano, e venendo vicini a noi quando ci si confronta con un Debussy. In realtà, anche Verdi o Puccini.

E anche qui, non si fraintenda l’impostazione che il musicista pretende da parte dell’interprete. Non si tratta di far capire le parole all’ascoltatore. O non solo di questo. Si tratta, e ciò riguarda la struttura stessa della pagina, prima ancora che la sua interpretazione, si tratta da parte dell’interprete di farsi carico dell’intenzione del compositore. E’ l’interprete che deve capire quale rapporto ci sia tra la parola e il canto, proprio perché canti la parte come il compositore l’ha pensata, e ciò vale per Cipriano o Monteverdi, come per un Lied di Schubert o di Schumann o una chanson di Debussy. Il cantante non deve dimenticare mai che questi musicisti erano appassionati lettori di poesia e che una poesia la intonano proprio per cavarne fuori il suo messaggio più segreto. Petrarca per Monteverdi, Goethe per Schubert, Verlaine per Debussy non sono pretesti per intonare una qualsiasi canzone, ma testi, poesie, di cui mettere in risalto le qualità musicali che una semplice lettura non rileva. Ma sia per Monteverdi, sia per Schubert, sia per Debussy, le poesie di Petrarca, Goethe, Verlaine sono già musica, e non parole inerti che abbiano bisogno di trovare il canto. Il canto, la musica non è un’aggiunta sovrapposta a una materia senza musica, ma la rivelazione musicale di una musica già insita nel testo della poesia. Se non si compie quest’analisi, se non si affronta questo percorso, meglio non affrontare questo repertorio. Anzi, forse, meglio proprio non cantare affatto. I cantanti della musica cosiddetta “seria”, “colta” (come se l’altra fosse incolta!) apprendano dai cantati della musica cosiddetta leggera, o pop, o rock, o folk, i quali verrebbero fischiati, subissati d’insulti se ai loro fans cantassero incomprensibili scioglilingua. Chi voglia e possa, l’ascolto di qualche canzone di Mina insegnerebbe molto di più su Monteverdi e Debussy, di quanto si pensi di sapere quando ci si pongono inutili e insolubili questioni d’impostazione della voce, di apertura o chiusura del diaframma, della bocca, dove appoggiare la lingua, di vibrato e non vibrato e cose simili. Non perché non si debbano affrontare, ma perché una volta risolte, si è ancora solo al principio. L’interpretazione deve ancora cominciare. Anzi, deve ancora cominciare la lettura e comprensione della pagina che si vuole interpretare. La via della conoscenza, ci dice Eraclito, non è mai quella che appare a prima vista.

1Su tutte le cime / è pace; / in tutte le chiome / non trasenti tu / nemmeno un respiro; / gli uccellini tacciono nel bosco. / Aspetta, soltanto, presto / riposerai anche tu.

mercoledì 8 aprile 2020

Mario Quattrucci, Quel delitto del '56







La verità su quei fatti, su quel delitto, in realtà dal mondo non fu mai conosciuta … Ovvero: non fu mai rivelata.
Del morto il mondo non ha saputo mai niente: due righe di giornale, un trafiletto in cronaca, e quindi l’oblio. L’uomo, il suo destino, il fatto …, come uno dei tanti dei cento misteri italiani …, tutto inghiottito nella nebbia e dal polverone di menzogne che avvolge l’Italia da oltre settant’anni. Uno dei minori, in verità, ma non il primo né l’ultimo …” (pag.22)

Credo che stia qui il nodo di tutto il romanzo. Il più politico di quanti scritti da Mario Quattrucci. Non che negli altri la politica non c’entrasse, e c’entra sempre in ogni caso la narrazione di una società, ma in questo è proprio il soggetto principale del racconto. Non rivelerò, certo, né l’identità dell’assassinato né quella dei suoi assassini, perché sarebbe rovinare a chi vi si accingesse a farlo la lettura del poliziesco. Ma che tipo di poliziesco sia questo nuovo romanzo di Quattrucci, questo, sì, posso tentare di definirlo.

Intanto il contesto storico: 1956. XX Congresso del Partito Comunista dell’Unione Sovietica. Invasione dei carri armati sovietici a Budapest (ma di ciò il romanzo non ne parla). Stretta conservatrice dei governi italiani, nel clima della guerra fredda e delle pressioni politiche degli USA, oltre che delle imposizioni (eh sì, ci furono!) del Vaticano. Epurazione degli antifascisti e dei “resistenti” all’interno delle forze armate e della polizia. L’epurazione dei fascisti, complice in qualche modo perfino Togliatti che sollecitava una riconciliazione nazionale, invece non ci fu. In questo l’Italia seguì una via diversa e opposta a quella della Germania, che invece volle sgombrare dall’amministrazione e dalla politica del paese ogni eredità nazista. Ma anche di questo il romanzo non parla. E proprio in quegli anni comunque cominciarono a formarsi strani servizi segreti, deviati, uffici di Affari Riservati, associazioni sovversive che avrebbero segnato dolorosamente la vita politica dell’Italia fino a tutti gli anni ‘70. In questo senso il romanzo è un utile memorandum per chi abbia la memoria corta, per chi ancora parla di pericolo comunista, quando invece il pericolo veniva se mai dall’altra parte, e se non abbiamo fatto la fine di certe repubbliche sudamericane è solo perché l’Italia si trova in Europa : e questo va a chi ancora pensa che l’Europa costituisca per l’”Itagliano” un ostacolo, un impedimento, una minaccia allo sviluppo delle sue vere risorse politiche; a chi sostiene, e lo va gridando, che l’Europa ci soffoca.

Il quadro che ne esce non è consolante. Il delitto verrà conosciuto, rivelato, solo per l’ostinazione di un ex-commissario antifascista e di un gruppo di giovani comunisti. Ma la rivelazione sarà più dolorosa di un colpo di Stato, di un tentativo di sovversione (che pure ci furono) sventato, perché il crimine non andava cercato dove ragionevolmente lo si poteva sospettare, bensì altrove. Ma mi fermo qui, per non rivelare di più. Il romanzo è scritto nella solita, e bellissima, prosa colloquiale di Quattrucci, infarcita di punti sospensivi, di espressioni romane e di altre regioni – c’è perfino un “burdel” (ragazzo) ch’è vocabolo romagnolo – e non mancano allusioni dotte, sono anzi l’aspetto costante, che ritorna, in tutti i romanzi di Quattrucci, a indicare la complementarietà di cultura e società, la non divisibilità di un livello alto, chiuso nelle torri d’avorio, e di uno basso che si occupa solo delle miserie umane. Un romanzo non può, non deve farlo. Potrà delimitare i suoi campi semiologici un saggio, uno studio scientifico, ma non un romanzo: come già c’insegna Manzoni, e ancora più, il maestro sempre sottinteso di queste pagine: Gadda.

Due, di queste allusioni, sono una chicca, una vera goduria per chi le riconosce: si trovano a pagina 25: “continuiamo a credere che se la storia non è maestra di niente che ci riguardi pure senza conoscerla non possiamo comprendere niente nemmeno noi”. L’allusione è a una poesia di Montale, in Satura. Montale, a dire il vero, scrive ironicamente “magistra”, alludendo al proverbio latino che la poesia smentisce: historia magistra vitae. La seconda, qualche rigo più sotto, al paragrafo seguente: “E dunque narriamola questa storia. Anche se essa non fu che un fattaccio, un fatterello, un inciso minuscolo nella vicenda del mondo, un brufolo sulla pelle del tempo”. Quel “brufolo” è tratto dallo Zibaldone di Leopardi. Veramente Leopardi parla di “bruscolo”: “Il tutto esistente; il complesso dei tanti mondi che esistono; l'universo; non è che un neo, un bruscolo in metafisica” (pag. 4174, Bologna, 17 aprile 1826). E con questo pensiero consolante – in tempo di segregazione antiepidemica – consoliamoci ricordando le malefatte degli italiani che gli italiani così presto dimenticano. Oggi più che mai, sembra consigliarci Quattrucci, vanno invece tenute presenti: perché Dio – o chi per lui – non voglia che si ritorni a perpetrarle, da parte dei soliti noti. Gli indizi non mancano. Sta solo a noi che restino soltanto indizi.



Mario Quattrucci, Quel delitto del ‘56. La verità su quei fatti, su quel delitto non fu mai conosciuta … Ovvero non fu mai rivelata, Sestri Levante, Oltre Edizioni, “Letture del mondo”, 2020, pagg. 134, € 14,00

domenica 5 aprile 2020

Non cadono così anche le aquile?







Sul Robinson di oggi si chiariscono molte cose che avevo già capito da tempo, e che mi hanno spinto a lasciare la collaborazione, ma esse non si erano mai manifestate in maniera così esplicita, come appaiono oggi sfogliando Robinson. Mi confermano, pur troppo, nella giustezza della ferma decisione di declinare qualunque tipo di collaborazione con un foglio che, per inseguire consensi di basso profilo, calpesta così platealmente qualunque ragionevole impostazione di un discorso che pretenda di essere decentemente anche discorso culturale.

Ho criticato, tempo fa, il Bach di Ramin Bahrami, e non sto qui a ripeterne le ragioni, ma ecco, a conferma che la mia critica fosse risultata sgradita alla direzione del giornale, che esce sul Robinson un’intervista di Leonetta Bentivoglio che copre due intere pagine, con una gigantografia del pianista tra le due. L’idolo pop non si tocca. Anzi ha una “verità sulla malinconia” da rivelare, come recita il titolo. E diventato anche un guru. E, poche pagine dopo, Beethoven diretto da Currentzis diventa “punk”, un’offesa sia a Beethoven sia all’intelligenza interpretativa di Currentzis.

Ma il tonfo perfetto è lo sbracamento del torneo letterario: “Che pasticciaccio! Gadda eliminato!” Gadda? Liquidato da quattro lettori imbranati? Sarebbe come dire che Manzoni è uno scrittorucolo, Pirandello un ciurmadore, Svevo un rompiscatole. Eliminati, viene da dire, siete voi, che ormai vi tirate fuori da qualsiasi proposta che appaia quanto meno passabile di comunicazione letteraria.

Da una parte dovrei mostrarmi lieto di riscontrare una conferma della discesa nel baratro populistico anche di un giornale che era nato come foglio di riflessione culturale e politica, ma dall’altro questo impudico sfasciarsi di ogni controllo di dignità culturale – e dunque anche politica – mi addolora, perché potrei vedervi uno specchio dell’Italia di oggi e mi rifiuto di crederlo. Spero anzi che sia solo la sbandata di sbandati che non sanno come riconquistare le vendite perdute.

Ma se pensano di riguadagnarsele in questo modo, credo che facciano male i conti. Oggi la notizia strillata (“Candeggina social club” non è male!), la scoperta irrinunciabile, il linguaggio speciosamente scioccante dilaga nel web, che arriverà sempre almeno un minuto prima della carta stampata. E allora o i giornali cartacei si decidono a essere lo spazio della riflessione o sono destinati a scomparire. Qualcuno fuori d’Italia, ma anche in Italia, sembra averlo capito. “La Repubblica” di Verdelli, no.