mercoledì 8 aprile 2020

Mario Quattrucci, Quel delitto del '56







La verità su quei fatti, su quel delitto, in realtà dal mondo non fu mai conosciuta … Ovvero: non fu mai rivelata.
Del morto il mondo non ha saputo mai niente: due righe di giornale, un trafiletto in cronaca, e quindi l’oblio. L’uomo, il suo destino, il fatto …, come uno dei tanti dei cento misteri italiani …, tutto inghiottito nella nebbia e dal polverone di menzogne che avvolge l’Italia da oltre settant’anni. Uno dei minori, in verità, ma non il primo né l’ultimo …” (pag.22)

Credo che stia qui il nodo di tutto il romanzo. Il più politico di quanti scritti da Mario Quattrucci. Non che negli altri la politica non c’entrasse, e c’entra sempre in ogni caso la narrazione di una società, ma in questo è proprio il soggetto principale del racconto. Non rivelerò, certo, né l’identità dell’assassinato né quella dei suoi assassini, perché sarebbe rovinare a chi vi si accingesse a farlo la lettura del poliziesco. Ma che tipo di poliziesco sia questo nuovo romanzo di Quattrucci, questo, sì, posso tentare di definirlo.

Intanto il contesto storico: 1956. XX Congresso del Partito Comunista dell’Unione Sovietica. Invasione dei carri armati sovietici a Budapest (ma di ciò il romanzo non ne parla). Stretta conservatrice dei governi italiani, nel clima della guerra fredda e delle pressioni politiche degli USA, oltre che delle imposizioni (eh sì, ci furono!) del Vaticano. Epurazione degli antifascisti e dei “resistenti” all’interno delle forze armate e della polizia. L’epurazione dei fascisti, complice in qualche modo perfino Togliatti che sollecitava una riconciliazione nazionale, invece non ci fu. In questo l’Italia seguì una via diversa e opposta a quella della Germania, che invece volle sgombrare dall’amministrazione e dalla politica del paese ogni eredità nazista. Ma anche di questo il romanzo non parla. E proprio in quegli anni comunque cominciarono a formarsi strani servizi segreti, deviati, uffici di Affari Riservati, associazioni sovversive che avrebbero segnato dolorosamente la vita politica dell’Italia fino a tutti gli anni ‘70. In questo senso il romanzo è un utile memorandum per chi abbia la memoria corta, per chi ancora parla di pericolo comunista, quando invece il pericolo veniva se mai dall’altra parte, e se non abbiamo fatto la fine di certe repubbliche sudamericane è solo perché l’Italia si trova in Europa : e questo va a chi ancora pensa che l’Europa costituisca per l’”Itagliano” un ostacolo, un impedimento, una minaccia allo sviluppo delle sue vere risorse politiche; a chi sostiene, e lo va gridando, che l’Europa ci soffoca.

Il quadro che ne esce non è consolante. Il delitto verrà conosciuto, rivelato, solo per l’ostinazione di un ex-commissario antifascista e di un gruppo di giovani comunisti. Ma la rivelazione sarà più dolorosa di un colpo di Stato, di un tentativo di sovversione (che pure ci furono) sventato, perché il crimine non andava cercato dove ragionevolmente lo si poteva sospettare, bensì altrove. Ma mi fermo qui, per non rivelare di più. Il romanzo è scritto nella solita, e bellissima, prosa colloquiale di Quattrucci, infarcita di punti sospensivi, di espressioni romane e di altre regioni – c’è perfino un “burdel” (ragazzo) ch’è vocabolo romagnolo – e non mancano allusioni dotte, sono anzi l’aspetto costante, che ritorna, in tutti i romanzi di Quattrucci, a indicare la complementarietà di cultura e società, la non divisibilità di un livello alto, chiuso nelle torri d’avorio, e di uno basso che si occupa solo delle miserie umane. Un romanzo non può, non deve farlo. Potrà delimitare i suoi campi semiologici un saggio, uno studio scientifico, ma non un romanzo: come già c’insegna Manzoni, e ancora più, il maestro sempre sottinteso di queste pagine: Gadda.

Due, di queste allusioni, sono una chicca, una vera goduria per chi le riconosce: si trovano a pagina 25: “continuiamo a credere che se la storia non è maestra di niente che ci riguardi pure senza conoscerla non possiamo comprendere niente nemmeno noi”. L’allusione è a una poesia di Montale, in Satura. Montale, a dire il vero, scrive ironicamente “magistra”, alludendo al proverbio latino che la poesia smentisce: historia magistra vitae. La seconda, qualche rigo più sotto, al paragrafo seguente: “E dunque narriamola questa storia. Anche se essa non fu che un fattaccio, un fatterello, un inciso minuscolo nella vicenda del mondo, un brufolo sulla pelle del tempo”. Quel “brufolo” è tratto dallo Zibaldone di Leopardi. Veramente Leopardi parla di “bruscolo”: “Il tutto esistente; il complesso dei tanti mondi che esistono; l'universo; non è che un neo, un bruscolo in metafisica” (pag. 4174, Bologna, 17 aprile 1826). E con questo pensiero consolante – in tempo di segregazione antiepidemica – consoliamoci ricordando le malefatte degli italiani che gli italiani così presto dimenticano. Oggi più che mai, sembra consigliarci Quattrucci, vanno invece tenute presenti: perché Dio – o chi per lui – non voglia che si ritorni a perpetrarle, da parte dei soliti noti. Gli indizi non mancano. Sta solo a noi che restino soltanto indizi.



Mario Quattrucci, Quel delitto del ‘56. La verità su quei fatti, su quel delitto non fu mai conosciuta … Ovvero non fu mai rivelata, Sestri Levante, Oltre Edizioni, “Letture del mondo”, 2020, pagg. 134, € 14,00

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