Qualche chiarimento sul
recitar cantando
Claudio Monteverdi, prima
ancora di essere un sommo compositore è un grande drammaturgo. La
genialità della sua impostazione drammaturgica sta nella perfetta
interazione di parola e musica, l’espressione citata spesso a
sproposito che la musica debba essere “serva dell’orazione” non
significa che la musica debba ubbidire al testo e seguirlo
pedissequamente, ma che la struttura del testo è già la struttura
musicale del canto e il canto assolve non già una funzione musicale,
o non solo una funzione musicale, ma soprattutto la funzione di
attuare la rappresentazione del dramma. Bisognerà aspettare
Musorsgskij e Debussy perché sia riproposta in teatro una tale
assimilazione paritetica di parola e musica per costruire una
drammaturgia in cui la distinzione tra musica e parola scompaia.
Sotto questo aspetto il teatro di Monteverdi – e in qualche modo
sono teatro anche i madrigali, almeno dal Settimo Libro in poi, si
pensi al Lamento della ninfa o al Combattimento di Tancredi e
Clorinda – è un’opera aperta, nel senso che, come quello di
Wagner (ma anche di Verdi), acquista tutto il suo peso, tutto il suo
senso, solo sulla scena: il puro ascolto non basta, in qualche modo
lo mutila di un elemento fondamentale: la rappresentazione.
Ma su questa equiparazione di
parola e musica vanno chiariti molti punti. Perché c’è molta
confusione, soprattutto tra i musicisti. Tanto per cominciare, siamo
talmente abituati a considerare la musica come elemento predominante
del teatro musicale, anzi del teatro d’opera, che ci pare naturale
prestare maggiore attenzione all’impostazione vocale che alla
recitazione del testo, anzi spesso per recitazione non s’intende
nemmeno la dizione corretta della parte, ma il gesto del cantante,
l’azione visiva sulla scena. Su questo punto va fatta chiarezza.
Intanto, quando si parla di
teatro musicale, va precisato, sempre, di che tipo di teatro musicale
stiamo parlando. Il melodramma fiorentino non è quello poi che attua
a Mantova Monteverdi con l’Orfeo, e lo stesso Monteverdi a Venezia
imposta un nuovo tipo di melodramma: gli strumenti vi hanno una parte
quasi secondaria, ed è invece accentuata l’importanza della
recitazione. Questo prevalere della recitazione sul canto, o, più
esattamente, intendere il canto come un modo di recitare, si radica
presto nel costume teatrale italiano. La direzione è già
chiaramente indicata da Monteverdi quando per la prima
rappresentazione dell’Arianna, morta a soli 18 anni, durante le
prove, il 7 marzo 1608, la Romanina, Caterina Martinelli, che
Monteverdi si era allevata in casa fin da bambina, quando aveva 13
anni, scelse per la prima rappresentazione non una cantante, ma
un’attrice, la milanese Virginia Ramponi, moglie di Giovan Battista
Andreini. Proprio l’esito grandissimo della sua prestazione come
attrice cantante nell’Arianna, le fece poi condurre una duplice
carriera di attrice e di cantante. Il Bronzino le fece un ritratto,
oggi perduto.
Per la morte della sua diletta
allieva, Monteverdi compose una sublime collana di sei madrigali (il
testo, di Scipione Agnelli, è una sestina) dal titolo Lagrime
d’amante al sepolcro dell’amata. L’attacco è indimenticabile
sia per la bellezza dei versi che per la violenza espressiva del
canto:
Incenerite spoglie, avara tomba
Fatta del mio bel sol terreno Cielo,
Ahi lasso! i' vegno ad inchinarvi in terra,
Con voi chius’è 'l mio cor a’ marmi in seno,
E notte e giorno vive in pianto in foco
In duol'in ira il tormentato Glauco.
Il miracolo è una polifonia
costruita non su melodie, ma sulla recitazione del testo. Si ascolti
il grido del Ahi lasso!, nella trascrizione moderna di Malipiero,
alla 12a battuta: una quinta discendente seguita da un
semitono, l’attacco dell’Alto, mi-la-sol diesis, e subito vi si
sovrappone una terza e semitono del Quinto, la-fa-mi, omoritmico col
tenore che intona mi-do-si, ma subito ripropone la quinta, mi-la, che
scende al mi. Su questo disegno l’Alto intona una sorta di
lamento, propone una terza che si adagia su una sorta di melisma
intorno al do: do-la-si-do-si. Ma subito entra e chiude il Canto con
una terza seguita dal semitono: mi-do-si. Le altre voci vi si
sovrappongo continuando la recitazione del verso.
Ma anche nel teatro parlato,
per recitazione s’intendeva soprattutto la dizione dell’attore.
Certo, nel teatro barocco, e già nel Rinascimento, la scenografia,
la sontuosità dei costumi, avevano la loro parte. Ma l’interesse
principale dello spettatore andava alla recitazione dell’attore,
all’azione del dramma, tragedia o commedia che fosse. E perfino
quando, nel melodramma settecentesco, furoreggiarono i divi del
canto, soprattutto i castrati, ma anche le donne, i virtuosismi
vocali non erano accolti in sé, come elemento autonomo della
rappresentazione, bensì giudicati in base all’adeguatezza della
situazione, o, come si diceva, all’affetto che il personaggio in
quel momento dell’azione era tenuto a rappresentare. Un affetto di
tenerezza, d’amore richiedeva figurazioni melodiche diverse da uno
scatto d’ira, da un moto di vendetta. Ciò significa che anche il
virtuosismo vocale ubbidiva a una logica drammaturgica, il pubblico
fischiava l’interprete che avesse sfoggiato fioriture inadeguate
alla situazione drammatica, per quanto straordinarie ed eccellenti
potessero essere.
Ma nel primo secolo XVII non
siamo ancora a queste esibizioni di virtuosismo vocale, o meglio il
virtuosismo non si prefiggeva di mostrare le abilità strabilianti
dell’interprete, bensì la sua capacità di rappresentare con la
recitazione e con i gesti la situazione drammatica del momento. Il
virtuosismo interpretativo, insomma, non riguardava tanto l’abilità
e l’agilità delle fioriture vocali, quanto l’intelligenza di
servirsi di quelle adatte alla situazione drammatica. E che il teatro
fosse la preoccupazione principale di poeti, musicisti, attori,
cantanti e pubblico, è indirettamente mostrato anche dall’uso
linguistico in teatro. La cantante e i cantanti di melodramma, e
soprattutto, nel Settecento, di opera buffa, non venivano chiamati
cantanti, ma “comici”, attori di commedia. Ortensia e Deianira,
le due ridicole teatranti della Locandiera di Goldoni, sono due
cantanti d’opera, ma vengono chiamate “comiche”. La cosiddetta
riforma di Calzabigi e di Gluck non è una riforma musicale, ma
teatrale. E quando Alfieri scrive i “giudizi” delle sue tragedie,
che pubblica in coda al testo teatrale, disquisisce di azione, di
coerenza drammaturgica, e di effetto della recitazione, insistendo
molto sulla dizione dei versi.
Ma scendiamo ora nei
particolari del recitar cantando.
Monteverdi
preferiva, da parte sua, chiamarlo parlar cantando. E questo la dice
lunga sulla sua voglia di “naturalezza”, di evitare cioè
l’enfasi, anche nel proporre metafore ardite, come nella Lettera
amorosa. Il tono deve essere discorsivo, deve appunto discorrere.
Come quando si legge – si legge, non si recita, si legge! - una
poesia. Monteverdi lavorava a Mantova. Poco lontano, qualche decennio
prima, un poeta, il Tasso, scriveva e teorizzava, in due bellissimi
dialoghi, questa che lui chiama “sprezzatura”, vale a dire
apparente semplicità, naturalezza del dettato, che, soggiunge, è
più difficile da scrivere e da dire che un discorso alto, retorico,
ampolloso. Esempio mirabile di questa discorsività, o nel linguaggio
dell’epoca, sprezzatura, è quel capolavoro insuperato che è
l’Aminta. Non a caso un testo privilegiato dai madrigalisti. Come
dopo il Pastor Fido del Guarini. La preziosità delle immagini, delle
metafore, riguarda il pensiero, non il discorso, che resta
scorrevole, “naturale”. I versi del Tasso e del Guarini sono tra
i più fluidi della poesia italiana. Bisogna aspettare Leopardi per
ritrovare qualcosa di analogo, anzi di ancora più discorsivo, più
fluido. L’impostazione monteverdiana non cambia quando si
trasferisce a Venezia.
Veniamo
ora all’intonazione di questi versi. Premettendo che una musica c’è
già nel solo dirli. La lingua italiana, insieme alla lingua
spagnola, e catalana, è la sola, tra le lingue neolatine, che abbia
conservato la dizione chiara e univoca delle vocali. In italiano sono
sette, solo sette: a, e chiusa, e aperta, i, o chiusa, o aperta, u.
Le pronunce regionali non sempre conservano la distinzione tra le due
e e le due o. Ma per dire bene questa poesia, vanno assimilate,
introiettate, pronunciate, perché fanno parte della musica del
verso, una e chiusa non è una e aperta e così pure per la o. E’
quanto è rimasto in italiano della distinzione latina di vocali
lunghe e vocali brevi. Ciò riesce spesso difficile ad attori e
cantanti italiani, figuriamoci a chi non possiede l’italiano come
sua lingua madre. Ma questo è solo un aspetto della dizione
italiana. Le vocali non sono tutto in una lingua, anche se pur troppo
molte scuole di canto, soprattutto in Italia, tendono a pensarlo e,
pur troppo, a imporlo. Amore, sapore, odore, colore, sono parole
molto simili, ma per individuarle devo far sentire, e distintamente
anche le consonanti: a-o-e, o-o-e, come si sente dire da molti
cantanti non solo non fa capire ciò che stanno cantando, ma deforma
anche la musica del verso, del discorso. La m e la r di amore, la s,
la p e la r di sapore si devono sentire, e sentire distintamente,
così come si devono sentire la d e la r di odore, la c, la l e la r
di colore. Una lingua è fatta di vocali e di consonanti e le
consonanti sono importanti quanto le vocali. Il fatto che la lingua
italiana richieda una pronuncia distinta delle vocali non significa
che si debbano trascurare le consonanti.
Infine, e qui tocchiamo il
nodo della questione, quest’arte si chiama recitar cantando, parlar
cantando, non recitativo (e anche qui però si dovrebbe aprire un
discorso), non cantare recitando. L’incidenza, il fatto essenziale
cade sul recitare, non sul cantare. E’ teatro, non musica: o
meglio, è teatro che piega la musica a farsi recitazione, teatro,
questo vuol dire che la musica deve farsi serva dell’orazione. Se
manca la recitazione, manca infatti anche la musica. Non è bel
canto, è recitazione attuata con il canto. La musica non sta nella
melodia sovrapposta a un testo, ma in un testo che si fa canto,
melodia, perché la melodia è già contenuta nel verso, Aristotele
direbbe che nel verso la melodia è in potenza, e il canto la pone in
atto. Non sembri astrusa quest’interferenza aristotelica, perché
la cultura da cui nasce il recitar cantando è aristotelica,
pregalileiana. E Tasso, Monteverdi proprio questo volevano dire
quando dicevano che la musica c’è già nel verso. Anzi, per il
Tasso, una musica c’è anche nella prosa. Se sviluppassimo il
discorso si andrebbe lontano, forse a Debussy.
Ma fermiamoci. Non senza
insistere sul fatto che quando si affronta questo repertorio o si
parte dalla dizione del testo o si va fuori strada. L’apparente
melodia che sembra risultarne, infatti, non ha nessun senso senza la
melodia implicita del testo, perché è il testo stesso a generarlo,
e non l’intonazione musicale. Tutto sommato, per paradosso, ma poi
non tanto, è una musica che assomiglia più allo Sprechgesang che
un’aria o perfino a un recitativo del melodramma che poi ne nacque.
Spero di avere dissipati qualche equivoco. I non italiani che si
accostano a questo repertorio o decidono di apprendere la lingua
italiana come fosse la loro lingua nativa o lascino perdere. Quanto
agli italiani, la smettano di pensare non dico a Turiddu e Santuzza,
ma nemmeno a Cimarosa e Paisiello, perché quello è tutto un altro
mondo. L’impostazione vocale, non sembri assurdo, è un problema
secondario di questo canto. Primario, invece, la corretta dizione del
testo. E non pensino, perché italiani, di dirlo bene il testo, ma si
decidano finalmente a far sentire, anche in italiano, tutte, nessuna
esclusa, e distintamente, le consonanti del testo. E a distinguere
bene l’apertura e la chiusura delle vocali che la richiedono. Il
resto, vedranno, verrà da sé.
Fiano Romano, 28 febbraio 2019