giovedì 28 febbraio 2019

Recitar cantando









Qualche chiarimento sul recitar cantando


Claudio Monteverdi, prima ancora di essere un sommo compositore è un grande drammaturgo. La genialità della sua impostazione drammaturgica sta nella perfetta interazione di parola e musica, l’espressione citata spesso a sproposito che la musica debba essere “serva dell’orazione” non significa che la musica debba ubbidire al testo e seguirlo pedissequamente, ma che la struttura del testo è già la struttura musicale del canto e il canto assolve non già una funzione musicale, o non solo una funzione musicale, ma soprattutto la funzione di attuare la rappresentazione del dramma. Bisognerà aspettare Musorsgskij e Debussy perché sia riproposta in teatro una tale assimilazione paritetica di parola e musica per costruire una drammaturgia in cui la distinzione tra musica e parola scompaia. Sotto questo aspetto il teatro di Monteverdi – e in qualche modo sono teatro anche i madrigali, almeno dal Settimo Libro in poi, si pensi al Lamento della ninfa o al Combattimento di Tancredi e Clorinda – è un’opera aperta, nel senso che, come quello di Wagner (ma anche di Verdi), acquista tutto il suo peso, tutto il suo senso, solo sulla scena: il puro ascolto non basta, in qualche modo lo mutila di un elemento fondamentale: la rappresentazione.

Ma su questa equiparazione di parola e musica vanno chiariti molti punti. Perché c’è molta confusione, soprattutto tra i musicisti. Tanto per cominciare, siamo talmente abituati a considerare la musica come elemento predominante del teatro musicale, anzi del teatro d’opera, che ci pare naturale prestare maggiore attenzione all’impostazione vocale che alla recitazione del testo, anzi spesso per recitazione non s’intende nemmeno la dizione corretta della parte, ma il gesto del cantante, l’azione visiva sulla scena. Su questo punto va fatta chiarezza.

Intanto, quando si parla di teatro musicale, va precisato, sempre, di che tipo di teatro musicale stiamo parlando. Il melodramma fiorentino non è quello poi che attua a Mantova Monteverdi con l’Orfeo, e lo stesso Monteverdi a Venezia imposta un nuovo tipo di melodramma: gli strumenti vi hanno una parte quasi secondaria, ed è invece accentuata l’importanza della recitazione. Questo prevalere della recitazione sul canto, o, più esattamente, intendere il canto come un modo di recitare, si radica presto nel costume teatrale italiano. La direzione è già chiaramente indicata da Monteverdi quando per la prima rappresentazione dell’Arianna, morta a soli 18 anni, durante le prove, il 7 marzo 1608, la Romanina, Caterina Martinelli, che Monteverdi si era allevata in casa fin da bambina, quando aveva 13 anni, scelse per la prima rappresentazione non una cantante, ma un’attrice, la milanese Virginia Ramponi, moglie di Giovan Battista Andreini. Proprio l’esito grandissimo della sua prestazione come attrice cantante nell’Arianna, le fece poi condurre una duplice carriera di attrice e di cantante. Il Bronzino le fece un ritratto, oggi perduto.

Per la morte della sua diletta allieva, Monteverdi compose una sublime collana di sei madrigali (il testo, di Scipione Agnelli, è una sestina) dal titolo Lagrime d’amante al sepolcro dell’amata. L’attacco è indimenticabile sia per la bellezza dei versi che per la violenza espressiva del canto:

Incenerite spoglie, avara tomba
Fatta del mio bel sol terreno Cielo,
Ahi lasso! i' vegno ad inchinarvi in terra,
Con voi chius’è 'l mio cor a’ marmi in seno,
E notte e giorno vive in pianto in foco
In duol'in ira il tormentato Glauco.

Il miracolo è una polifonia costruita non su melodie, ma sulla recitazione del testo. Si ascolti il grido del Ahi lasso!, nella trascrizione moderna di Malipiero, alla 12a battuta: una quinta discendente seguita da un semitono, l’attacco dell’Alto, mi-la-sol diesis, e subito vi si sovrappone una terza e semitono del Quinto, la-fa-mi, omoritmico col tenore che intona mi-do-si, ma subito ripropone la quinta, mi-la, che scende al mi. Su questo disegno l’Alto intona una sorta di lamento, propone una terza che si adagia su una sorta di melisma intorno al do: do-la-si-do-si. Ma subito entra e chiude il Canto con una terza seguita dal semitono: mi-do-si. Le altre voci vi si sovrappongo continuando la recitazione del verso.



Ma anche nel teatro parlato, per recitazione s’intendeva soprattutto la dizione dell’attore. Certo, nel teatro barocco, e già nel Rinascimento, la scenografia, la sontuosità dei costumi, avevano la loro parte. Ma l’interesse principale dello spettatore andava alla recitazione dell’attore, all’azione del dramma, tragedia o commedia che fosse. E perfino quando, nel melodramma settecentesco, furoreggiarono i divi del canto, soprattutto i castrati, ma anche le donne, i virtuosismi vocali non erano accolti in sé, come elemento autonomo della rappresentazione, bensì giudicati in base all’adeguatezza della situazione, o, come si diceva, all’affetto che il personaggio in quel momento dell’azione era tenuto a rappresentare. Un affetto di tenerezza, d’amore richiedeva figurazioni melodiche diverse da uno scatto d’ira, da un moto di vendetta. Ciò significa che anche il virtuosismo vocale ubbidiva a una logica drammaturgica, il pubblico fischiava l’interprete che avesse sfoggiato fioriture inadeguate alla situazione drammatica, per quanto straordinarie ed eccellenti potessero essere.

Ma nel primo secolo XVII non siamo ancora a queste esibizioni di virtuosismo vocale, o meglio il virtuosismo non si prefiggeva di mostrare le abilità strabilianti dell’interprete, bensì la sua capacità di rappresentare con la recitazione e con i gesti la situazione drammatica del momento. Il virtuosismo interpretativo, insomma, non riguardava tanto l’abilità e l’agilità delle fioriture vocali, quanto l’intelligenza di servirsi di quelle adatte alla situazione drammatica. E che il teatro fosse la preoccupazione principale di poeti, musicisti, attori, cantanti e pubblico, è indirettamente mostrato anche dall’uso linguistico in teatro. La cantante e i cantanti di melodramma, e soprattutto, nel Settecento, di opera buffa, non venivano chiamati cantanti, ma “comici”, attori di commedia. Ortensia e Deianira, le due ridicole teatranti della Locandiera di Goldoni, sono due cantanti d’opera, ma vengono chiamate “comiche”. La cosiddetta riforma di Calzabigi e di Gluck non è una riforma musicale, ma teatrale. E quando Alfieri scrive i “giudizi” delle sue tragedie, che pubblica in coda al testo teatrale, disquisisce di azione, di coerenza drammaturgica, e di effetto della recitazione, insistendo molto sulla dizione dei versi.

Ma scendiamo ora nei particolari del recitar cantando.

Monteverdi preferiva, da parte sua, chiamarlo parlar cantando. E questo la dice lunga sulla sua voglia di “naturalezza”, di evitare cioè l’enfasi, anche nel proporre metafore ardite, come nella Lettera amorosa. Il tono deve essere discorsivo, deve appunto discorrere. Come quando si legge – si legge, non si recita, si legge! - una poesia. Monteverdi lavorava a Mantova. Poco lontano, qualche decennio prima, un poeta, il Tasso, scriveva e teorizzava, in due bellissimi dialoghi, questa che lui chiama “sprezzatura”, vale a dire apparente semplicità, naturalezza del dettato, che, soggiunge, è più difficile da scrivere e da dire che un discorso alto, retorico, ampolloso. Esempio mirabile di questa discorsività, o nel linguaggio dell’epoca, sprezzatura, è quel capolavoro insuperato che è l’Aminta. Non a caso un testo privilegiato dai madrigalisti. Come dopo il Pastor Fido del Guarini. La preziosità delle immagini, delle metafore, riguarda il pensiero, non il discorso, che resta scorrevole, “naturale”. I versi del Tasso e del Guarini sono tra i più fluidi della poesia italiana. Bisogna aspettare Leopardi per ritrovare qualcosa di analogo, anzi di ancora più discorsivo, più fluido. L’impostazione monteverdiana non cambia quando si trasferisce a Venezia.

Veniamo ora all’intonazione di questi versi. Premettendo che una musica c’è già nel solo dirli. La lingua italiana, insieme alla lingua spagnola, e catalana, è la sola, tra le lingue neolatine, che abbia conservato la dizione chiara e univoca delle vocali. In italiano sono sette, solo sette: a, e chiusa, e aperta, i, o chiusa, o aperta, u. Le pronunce regionali non sempre conservano la distinzione tra le due e e le due o. Ma per dire bene questa poesia, vanno assimilate, introiettate, pronunciate, perché fanno parte della musica del verso, una e chiusa non è una e aperta e così pure per la o. E’ quanto è rimasto in italiano della distinzione latina di vocali lunghe e vocali brevi. Ciò riesce spesso difficile ad attori e cantanti italiani, figuriamoci a chi non possiede l’italiano come sua lingua madre. Ma questo è solo un aspetto della dizione italiana. Le vocali non sono tutto in una lingua, anche se pur troppo molte scuole di canto, soprattutto in Italia, tendono a pensarlo e, pur troppo, a imporlo. Amore, sapore, odore, colore, sono parole molto simili, ma per individuarle devo far sentire, e distintamente anche le consonanti: a-o-e, o-o-e, come si sente dire da molti cantanti non solo non fa capire ciò che stanno cantando, ma deforma anche la musica del verso, del discorso. La m e la r di amore, la s, la p e la r di sapore si devono sentire, e sentire distintamente, così come si devono sentire la d e la r di odore, la c, la l e la r di colore. Una lingua è fatta di vocali e di consonanti e le consonanti sono importanti quanto le vocali. Il fatto che la lingua italiana richieda una pronuncia distinta delle vocali non significa che si debbano trascurare le consonanti.

Infine, e qui tocchiamo il nodo della questione, quest’arte si chiama recitar cantando, parlar cantando, non recitativo (e anche qui però si dovrebbe aprire un discorso), non cantare recitando. L’incidenza, il fatto essenziale cade sul recitare, non sul cantare. E’ teatro, non musica: o meglio, è teatro che piega la musica a farsi recitazione, teatro, questo vuol dire che la musica deve farsi serva dell’orazione. Se manca la recitazione, manca infatti anche la musica. Non è bel canto, è recitazione attuata con il canto. La musica non sta nella melodia sovrapposta a un testo, ma in un testo che si fa canto, melodia, perché la melodia è già contenuta nel verso, Aristotele direbbe che nel verso la melodia è in potenza, e il canto la pone in atto. Non sembri astrusa quest’interferenza aristotelica, perché la cultura da cui nasce il recitar cantando è aristotelica, pregalileiana. E Tasso, Monteverdi proprio questo volevano dire quando dicevano che la musica c’è già nel verso. Anzi, per il Tasso, una musica c’è anche nella prosa. Se sviluppassimo il discorso si andrebbe lontano, forse a Debussy.

Ma fermiamoci. Non senza insistere sul fatto che quando si affronta questo repertorio o si parte dalla dizione del testo o si va fuori strada. L’apparente melodia che sembra risultarne, infatti, non ha nessun senso senza la melodia implicita del testo, perché è il testo stesso a generarlo, e non l’intonazione musicale. Tutto sommato, per paradosso, ma poi non tanto, è una musica che assomiglia più allo Sprechgesang che un’aria o perfino a un recitativo del melodramma che poi ne nacque. Spero di avere dissipati qualche equivoco. I non italiani che si accostano a questo repertorio o decidono di apprendere la lingua italiana come fosse la loro lingua nativa o lascino perdere. Quanto agli italiani, la smettano di pensare non dico a Turiddu e Santuzza, ma nemmeno a Cimarosa e Paisiello, perché quello è tutto un altro mondo. L’impostazione vocale, non sembri assurdo, è un problema secondario di questo canto. Primario, invece, la corretta dizione del testo. E non pensino, perché italiani, di dirlo bene il testo, ma si decidano finalmente a far sentire, anche in italiano, tutte, nessuna esclusa, e distintamente, le consonanti del testo. E a distinguere bene l’apertura e la chiusura delle vocali che la richiedono. Il resto, vedranno, verrà da sé.

Fiano Romano, 28 febbraio 2019

mercoledì 27 febbraio 2019

Mario Bertoncini: riflessione sull'idea di moderno






CONSERVATORIO DI SANTA CECILIA, VIA DEI GRECI, 18 ROMA
25 FEBBRAIO 2019


PER MARIO BERTONCINI
TAVOLA ROTONDA
Sala Medaglioni, ore 16,45
Saluti istituzionali
Roberto Giuliani (direttore del Conservatorio di Santa Cecilia, Roma)
Moderano:
Gianmario Borio (Università degli studi di Pavia/Cremona) e Daniela Tortora (Conservatorio San Pietro a Majella, Napoli)
Interventi di:
Nicola Sani (Accademia Musicale Chigiana, Siena), Alessandro Sbordoni (Associazione Nuova Consonanza e Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza, Roma), Irmela Heimbächer (Fondazione Isabella Scelsi, Roma), John Heineman, Walter Branchi, Giorgio Nottoli, Gianni Trovalusci, Dino Villatico, Luigi Maria Sicca (Università degli studi di Napoli Federico II), Chiara Mallozzi, Ingrid Pustijanac (Università degli studi di Pavia/Cremona), Alessandro Mastropietro (Università degli studi di Catania), Pietro Cavallotti (Università degli studi di Torino), Luigino Pizzaleo, Mario Gamba, Giancarlo Schiaffini

CONCERTO
Sala Accademica, ore 19,00
Suite ’99 Colori (1999)
Luisa Santacesaria, pianoforte
Tune (1965)
ZAUM_percussion (Simone Beneventi, Carlota Cáceres, Lorenzo Colombo) 
An American Dream (1974)
Reinhold Friedl, pianoforte 
In collaborazione con: Associazione Nuova Consonanza, Roma; Fondazione Isabella Scelsi, Roma
Per la rassegna “Alziamo il volume” verrà presentato, nel corso della manifestazione, La bottega del suono di Mario Bertoncini. Maestri e allievi, a cura di Chiara Mallozzi e Daniela Tortora, Napoli, Editoriale Scientifica, 2018


Mario Bertoncini: riflessione sull’idea di moderno


Si è tenuta, lunedì 25 febbraio, nella Sala dei Medaglioni del Conservatorio di Santa Cecilia a Roma, una tavola rotonda per ricordare Mario Bertoncini, che il 19 gennaio scorso pur troppo ci ha lasciati. Interessantissima figura di compositore, drammaturgo, poeta romano, la cui attività percorre per intero la seconda metà del Novecento, ricordarlo può essere anche un’occasione per riflettere sull’idea di moderno, e più precisamente di avanguardia. Queste righe, pertanto, non vogliono essere un resoconto di ciò che si è detto nella tavola rotonda, e che poi si è ascoltato, nel breve ma intensissimo concerto seguito all’incontro. I nomi dei partecipanti e dei musicisti figurano nella locandina allegata in testa a queste riflessioni. Credo che sia, infatti, giunto il momento di riflettere, senza pregiudizi ideologici, sulla musica del secondo Novecento, e anzi di ripensare, analizzare, l’arte di quel periodo, e riandare con mente limpida a quanto è avvenuto a Roma, in Italia, e nel Mondo, nel vasto, variegato, e complessissimo panorama musicale che ha vivacizzato l’esperienza di quegli anni. Ma non solo per quanto riguarda la musica, come si è accennato sopra. Ma anche riguardo alla letteratura, al teatro, alle arti figurative. E, soprattutto, riflettere sulla fitta interazione di tutti questi campi. Come pensare, infatti, alla musica “informale” di un Aldo Clementi senza pensare a Fautrier, a Burri, a Tancredi? O a Intolleranza ‘60 di Luigi Nono, Un re in ascolto di Luciano Berio, senza pensare a Beckett o al Living Theater? O come riascoltare, rileggere Le marteau sans Maître, Pli selon pli di Pierre Boulez senza pensare appunto a René Char, a Mallarmé (incunabolo delle avanguardie), a Eluard, a tutta la grande, grandissima poesia di quegli anni, Heaney, Strand, Sanguineti? Potremmo dire con Heaney che niente sarà “lavato via”.

The dotted line my father’s ashplant made
On Sandymount Strand
Is something elso the tide won’t wash away

(The Strand: due pentametri giambici a racchiudere un dimetro, 1995, The Sunday Times).

Ricordo Mario Bertoncini a Napoli, sul finire degli anni ‘70, nell’auditorium della RAI di Napoli, a Fuorigrotta, per il Festiva organizzato da Mario Bortolotto, Nuova Musica e Oltre. Donatoni, Castiglioni, Togni, Pennisi, i nomi di punta delle avanguardie italiane che impropriamente erano chiamata darmstadtiane. Poi, una sera, tra questa musiche, appare e s’infiltra Mario Bertoncini, ma come pianista, non come compositore, si siede davanti allo Stainway nero a coda e attacca un pezzo di Terry Riley. Una parte del pubblico esterrefatta, ma i più in estasi, ed esplode così un uragano di applausi. Bertoncini deve ripetere il brano. Un meteorite estraneo, piombato sul palcoscenico come in un film di Kubrick (a proprosito: erano anche gli anni di Kubrick, di Jarman, di Godard)? No: più semplicemente, la libertà di quegli anni, in cui sperimentare significava davvero sperimentare, vale a dire addentrarsi in territori sconosciuti, non ancora esplorati. Si accusano spesso oggi le avanguardie di quegli anni di essere state ferocemente ideologiche, dogmatiche, di avere chiuso e proibito le sale da concerto a chi non era della corrente, di avere ostracizzato la musica che non fosse quella che componevano gli avanguardisti. A dire il vero, mi paiono molto più dogmatici taluni dei compositori e dei musicisti di oggi, per non parlare del pubblico che quelle musiche non le gradiva allora e oggi le rifiuta, le cancella, e se potesse ne annichilerebbe anche la memoria. E’ giusto: i figli devono uccidere i padri. Ma lo storico deve distaccarsi, pulire – sì: pulire! - lo sguardo. E allora, tanto per cominciare, se rigidezze ideologiche ci furono (ma quando non ci sono state?), esse ingabbiavano piuttosto gli epigoni, gli scolaretti, i mentori e i fiancheggiatori su giornali, nelle istituzioni, nei conservatori – in realtà più a Milano che altrove, dove invece spesso proprio nei conservatori allignava una rancorosa avversione per le avanguardie – la cultura ufficiale, diciamo così, era antiavanguardista, antimodernista, e continua ad esserlo. A Milano c’era Musica nel nostro tempo, a Roma Nuova Consonanza. Due isole, in qualche modo. Mario Bertoncini è tra i fondatori di Nuova Consonanza. I concerti di musica “contemporanea”, sia a Roma sia a Milano erano molti, e molto attivi. Spesso ci si trovava in pochi, è vero, ma quell’Italia, che ci sembrava provinciale, respirava invece il respiro del mondo. Forse provinciale, lo è diventata invece davvero oggi. Ma questo è un altro discorso. L’atmosfera moderna delle due città è ben colta da due film di Antonioni, La Notte, per Milano, e L’Eclisse, per Roma. Ma anche dal teatro. Il Piccolo di Strehler a Milano, la Compagnia dei giovani all’Eliseo di Roma. Ma sto andando fuori strada. Ritorniamo ai dogmi, alle chiusure. Ora, prendiamo compositori come Stockhausen, Boulez, Berio, Maderna, Nono. Xenakis, Cage, Feldman. E ne dimentico molti. Non si possono immaginare musiche più diverse, ma diverse proprio nella loro struttura, nella loro costruzione. E dove sta, allora, il dogma, la chiusura? Berio scrive perfino musica tonale, riassume e reinventa le tradizioni popolari, nei Folk Songs e in Questo vuol dire che … , trascrive per orchestra le Siete Canciones Populares di Falla, riconsidera un quintetto di Boccherini, una sinfonia abbozzata di Schubert. Negli stessi anni Ernesto De Martino, Roberto Leydi e Diego Carpitella, avviano lo studio scientifico della musica popolare e ne introducono l’insegnamento nelle università. Nasce l’etnomusicologia italiana. Non è un’esperienza marginale. La musica “colta” europea è vissuta per secoli nell’idea dell’opera “chiusa”, per adottare un termine introdotto da Umberto Eco, nel suo fondamentale Opera aperta, del 1962, a definire le strutture dell’opera artistica nell’ambito della cultura occidentale. Eco si riferisce soprattutto all’opera letteraria. Ma il concetto può essere allargato a tutti i campi artistici. In musica, esempi quasi fondanti di questa concezione “chiusa” dell’opera sono le forme dell’aria e la cosiddetta forma sonata. Entrambe queste forme hanno un inizio, un centro, e una conclusione. L’armonia tonale ne è un fondamento indispensabile. Ma l’idea di opera che si apre e si conclude resta vitale anche nella concezione schoenberghiana dell’uso della serie e prosegue anche nelle opere del serialismo integrale. Ora, nella tradizione musicale europea quest’idea dell’opera racchiusa in termini precisi è relativamente recente, e la si può far cominciare con lo sviluppo della musica strumentale, con il graduale abbandono dei modi rinascimentali e l’imporsi dell’armonia tonale. Le dimensioni di una musica coincidevano, prima, con le dimensioni del testo. Nel cantus planus, il canto della chiesa che chiamiamo gregoriano, la durata del canto coincide con la lunghezza del testo, e si basa sulla ripetizione libera di un modulo che si adatta via via alle diverse dimensioni del testo. Si avvicinano invece alla nostra idea di un’opera conchiusa, dai confini precisi, gli inni. Il modo sul quale queste melodia si basano non è una scala, ma un modulo melodico che si adatta ai testi. Saranno i teorici a organizzare in teoria e ordinare in scale questi moduli. Non diversamente agisce la musica di tradizione orale, in qualunque civiltà. Mi scuso per la schematicità della descrizione, ma ciò che m’interessa è mettere in evidenza che solo dal tardo barocco in poi in musica si afferma la concezione di un’opera dai confini precisi, della sonata, del concerto, dell’aria. Ancora Frescobaldi concepisce le sue toccate come una serie di sezioni autonome che possono essere suonate integralmente o interrotte in qualunque punto appaia la cadenza sulla finalis, o la conclusione di una sezione. Che cosa significa questo? Che la musica non è sentita come un organismo rigidamente strutturato, che ha un inizio, un centro e una fine, ma come un atto di durata indeterminata. Non conta l’organizzazione della pagina, e cioè dell’architettura musicale, ma l’attuazione di un modulo che si ripete e si cambia. L’interazione di esecutore e ascoltatore è massima, nel senso che l’ascoltatore non prevede, non attende ciò che già sa deve prevedere e attendersi, bensì è colto momento per momento dall’attuazione del musicista, non diversamente che da un’improvvisazione. L’idea di un opera conchiusa, di una pagina strutturata, è mutuata dall’opera letteraria, e s’impone solo nella seconda metà del XVII secolo. Ma l’arte dell’improvvisazione continua, così come la generazione di canti della tradizione orale. Ecco, l’irruzione di un Cage introduce, nel mondo di una musica cocepita come opera chiusa, proprio questo tipo di ascolto. O sarebbe più esatto dire che lo reintroduce. C’è nel jazz, c’è nella musica di tradizione orale, come si è detto. E c’era nella pratica d’improvvisazione anche dei musicisti colti, almeno fino ai primi del Novecento e in alcuni paesi l’arte dell’improvvisazione è ancora materia d’insegnamento nei conservatori, per esempio in Francia. Mozart e Beethoven, ci raccontano le cronache del loro tempo, ne erano campioni acclamatissimi. I parametri musicali sono la melodia, l’armonia e il ritmo. A questi bisogna aggiungere anche il timbro, che dal romanticismo in poi si fa sempre più determinante. Già in Beethoven, tuttavia, aveva acquistato un ruolo decisivo nella costruzione della sintassi musicale. Si pensi ai cinque colpi di timpano che aprono il concerto per violino, o alla battuta affidata ai soli timpani nello Scherzo della Nona: un inciso tematico affidato alle percussioni! Nel momento in cui nel Novecento la musica si fa sperimentale (ma quando non lo è stata, la grande musica? Machaut non è sperimentale? Non lo sono Monteverdi, Bach, Haydn?) non c’è da meravigliarsi se la sperimentazione non si attui anche esplorando la vastissima regione dei timbri. Il timbro significa confrontarsi con la materia stessa del suono. Come in pittura il colore. Da Monet non è difficile arrivare a Mondrian. Mario Bertoncini fa dunque della materia sonora il campo della propria indagine musicale. Lavora il suono come Pollock la pasta del colore. Il pianoforte sollecita il suono azionando martelli che colpiscono le corde. E se noi le corde le sollecitassimo direttamente, senza la mediazione di una tastiera che aziona i martelletti? Sollecitarle, come? Ma con le dita, naturalmente. Non si fa così con gli strumenti a corda? E non è il pianoforte uno strumento a corda? Ma poi perché, anche, non strofinarle con altre corde, strusciarle? E perché scandagliare nuovi modi di produrre suono solo sul pianoforte? Perché non provare a sfregare l’arco di un violino sui bordi di un piatto? E convogliare le vibrazioni in un campanaccio? O perché non alterare le vibrazioni delle corde del pianoforte inserendo bulloni, viti, legnetti? I tre brani ascoltati nel concerto seguito alla tavola rotonda, Suite ‘99 Colori per pianoforte del 1999, Tune per un trio di percussionisti del 1965 (i tre strofinano con un arco i bordi dei piatti) del 1965, e An American Dream per pianoforte del 1974, di quest’esplorazione sono esempi mirabili, di raffinata suggestione sonore, verrebbe voglia di dire di poesia del suono. Ma tutte queste idee, queste riflessioni, e queste esperienze, possono essere approfondite con la lettura di un libro dedicato appunto a Mario Bertoncini: Chiara Mallozzi e Daniela Tortora, La bottega del suono. Mario Bertoncini. Maestri e allievi, prefazione di Mario Niccodemi e postfazione di Luigi Maria Sicca, Napoli, Editrice Scientifica, 2017. Lavoro del Conservatorio di Napoli San Pietro a Maiella. Ci sarà tempo e modo per ritornarci su. Ma ritorniamo, adesso, al punto da cui siamo partiti: l’accusa di dogmatismo, di tirannia, lanciata da molti musicisti di oggi alla musica sperimentale del secondo dopoguerra del secolo scorso. Da quando una sperimentazione è dogma invece che libertà? E da quando esclude altri modi di fare musica, vale a dire musica non sperimentale? Se qualcuno, in qualche città, in qualche ambito lo ha fatto, sua colpa. Ma la colpa di qualcuno non può riguardare l’intero movimento dei musicisti che hanno voluto sperimentare nuovi modi di fare musica. A un supposto dogmatismo del passato si risponderebbe allora con un altro, e più integrale dogmatismo, quello che nega a un musicista di fare la musica che vuole fare. O vogliamo un panorama di musica tutta uguale? Ciò che ha caratterizzato la musica del Novecento, e in particolare delle avanguardie del Novecento, è stata proprio la grande varietà delle proposte. Ed è questa varietà la vera vita della musica di allora, deve restare anche nella musica di oggi. Non si confonda la validità di una musica con il gradimento del pubblico, il coraggio di sperimentare l’inusitato con l’accondiscendenza dei timidi e con il consenso dei più. Nella musica, come in qualsiasi arte uno non vale uno. O tacceremo di fallimento l’opera che ha inaugurato il Novecento, e a tutt’oggi, forse, la più bella del secolo, il Pelléas et Mélisande, solo perché non è proprio tra le più gradite dal pubblico? Come non lo è il Wozzeck, un altro capolavoro del Novecento? Attenzione! Baudelaire ci aveva visto chiaro.

Verse-nous ton poison pour qu’il nous reconforte!
Nous voulons, tant ce feu nous brûle le cerveau,
Plonger au fond du gouffre, Enfer ou Ciel, qu’importe?
Au fond de l’Inconnu pour trouver du nouveau!

O ci spaventa l’abisso, l’Ignoto? L’arte, la grande arte, vi ha sempre guardato. Troppo intellettuale? Anzi: troppo intellettualistico? Troppo incomprensibile? Ma da quando l’arte deve essere immediatamente comprensibile? La Divina Commedia la capisco alla prima lettura? Al primo sguardo un quadro come Las Meninas? l’Ulyxes un delirio intellettuale? Una pazzia la Grande Fuga per quartetto d’archi? Una corbelleria i tagli sulla tela di Fontana? Il monaco solitario che in un monastero perduto tra le montagne ha copiato il De rerum natura e lo ha salvato, un pazzo? Un reprobo elitista perché la sua lettura implica la conoscenza del latino e della filosofia, e il popolo non sa che farsene? Riordiniamo, per favore, le nostre idee. La fisica quantistica non è democratica perché tutti la capiscono, ma perché ci aiuta a capire meglio il mondo. E anche la musica più astrusa, più strana, più intellettualistica è un grimaldello che ci fa conoscere nuove possibilità di trarre piacere dalla materia sonora. Piacere tutto intellettuale? E da quando il piacere è solo dei sensi? Un matematico, quando trova la giusta dimostrazione di un teorema, non dice che è giusta, ma che è bella, che è elegante. Anzi, tra due dimostrazioni, ugualmente giuste, sceglie la più bella, la più elegante. Riflettiamoci. L’esperienza del mondo è più vasta del piccolo cerchio di abitudini in cui molti, troppi, vogliono racchiuderla. “L’aiuola che ci fa tanto feroci”, ha tutt’intorno, nello spazio, innumerevoli galassie.

Fiano Romano, 27 febbraio 2019


lunedì 18 febbraio 2019

Due nuove incisioni di musica del Novecento: una riflessione su un secolo di musica




Ventanas
A Glimpse of Another Spain
Works by Antonio Ruiz-Pipó, Federico Mompou and Manuel De Falla
Ali Hirèche, Piano

GENUIN classics GEN 18606
1 cd

MICHELE MARELLI
CLARINET RELOADED
San Diego New Music EnsembleSimone Mancuso, conductor (van der Aa)
Orchestra Sinfonica del Maggio Musicale Fiorentino, Brad Lubman, conductor (Lachenmann)
(Musiche di Ivan Fedele, Giacinto Scelsi, Karlheinz Stockhausen, Michel van der Aa, Helmut Lachenmann)

Decca 481 7271
1 cd

Due cd assai indicativi in maniera diversa ci offrono lo spunto per una riflessione sulla musica cosiddetta contemporanea – in realtà, per esempio, Scelsi e Stockhausen appartengono a una fase musicale che si avvia a farsi memoria di un secolo trascorso e compiuto: sarebbe, infatti, come se un Mozart, un Beethoven continuassero a chiamare contemporanea la musica di Johann Sebastian Bach (che poi Bach li stimolasse, che sentissero la sua musica come attualissima, è un altro discorso).

Il primo è Ventanas, interpretato dal pianista Ali Hirèche, ed è dedicato a musiche pianistiche spagnole del Novecemto. Le note del libretto allegato al cd hanno per titolo: “The Other Spain. In Memory of Antonio Ruiz-Pipó”. Le ha scritte Tilmann Böttcher. Il titolo suona meglio nella traduzione spagnola: “La otra España. En memoria de Antonio Ruiz-Pipó”. L’altra Spagna. In memoria di Antonio Ruiz-Pipó. L’ “altro” al che si fa menzione è una Spagna per lo più ignota a chi, anche per la musica, si accontenta delle cartoline turistiche. Ma soprattutto è l’altro dal folklore, anzi dal “popolare”, checché s’intenda con questo attributo.

Nel 1979 Armando Gentilucci, un compositore di cui non si piangerà mai abbastanza la prematura scomparsa, a soli cinquant’anni, nel 1989, pubblicò un denso saggio sulla musica contemporanea dal titolo assai appropriato di “Oltre l’avanguardia. Un invito al molteplice” (Fiesole, discanto). Era una presa di posizione necessaria, allora, e forse oggi ancora di più, in un paese come l’Italia, perennemente malato di ideologie e di dogmatismi, contro le opposte chiusure all’ “altro” sia delle avanguardie, o meglio postavanguardie, sia di coloro che se ne dichiaravano, e ancora se ne dichiarano, con un sospiro di sollievo, liberati, ma invece di affrontare pertanto una prospettiva di assoluta libertà di ricerca, proponevano e anzi imponevano, e impongono ancora, una concezione ristretta del comporre, ossessionati come sono dall’inseguimento di un consenso dell’ascolto, a loro avviso ottenibile solo dalla riconoscibilità dell’oggetto musicale. Come se il valore di una musica sia proporzionale al suo gradimento. Parole buttate al vento, quelle assai sagge di Gentilucci. In Italia sembra perpetuamente vano l’appello alla molteplicità rispetto alla rigidezza e, diciamolo pure, all’ottusità, di opposti schieramenti di opinione, quando non addirittura semplicemente di contrastanti barriere ideologiche. Ma non è musica, si grida da una parte. Assurdo continuare a scrivere così, non si fa più, si sbraita dall’altra. Le cose, al solito, non stanno affatto disposte in maniera così semplice, la musica, anzi, e non solo la musica, resiste a qualunque inquadramento che nasca da un’impostazione semplificata d’ogni visione della realtà. Ma è proprio questa riduzione al semplice, da entrambe le parti, che finisce per disconoscere poi la realtà di un mondo musicale oggi assai vario, complesso, articolato, e interattivo assai più di quanto si crede. Aveva ragione e ragione da vendere, già quarant’anni fa, Gentilucci. E se si va ancora più indietro, tutto ciò era stato intuito con chiarezza da Alban Berg, quando adotta un sistema di composizione complesso al punto da potere includere vari sistemi, senza limitarsi pertanto all’osservanza di uno solo. Il che gli fu rimproverato all’inizio come cedimento (anche e soprattutto da Boulez, negli anni ‘40, ma si ricredette subito) e che invece indicava la via d’uscita da qualunque fossilizzazione dell’avanguardia: lo sperimentalismo cessa infatti di essere tale quando smette di sperimentare campi nuovi d’indagine. Così come la ripetizione di sistemi consolidati dalla tradizione non conduce a nessuno sbocco se non si ripensa e si reinventa da capo il sistema: Bartók, Britten, Šostakovič, Poulenc potrebbero, o dovrebbero, insegnarci al riguardo qualcosa.

Ma che cosa sfugge all’uno come all’altro schieramento? Evidente: che il complesso non può essere scavalcato, ridotto al semplice, va affrontato così com’è, complesso, e dunque con un’impostazione di pensiero complessa. Ogni semplificazione che sembri una scorciatoia è fuorviante, conduce fuori strada, non affronta il problema, perché ne elude appunto la complessità. La ragione, questa sì, è semplice: l’atto della scrittura, e dunque anche l’atto del comporre, non importa se attraverso la scrittura o con l’improvvisazione, non è mai la riproduzione fedele, esatta, di ciò che vuole proporre, ma sempre, all’atto di porsi, offre un altro livello, attua una mediazione. Anche la pura e semplice trascrizione di un canto popolare non è mai il canto popolare stesso. Trascritto con quale criterio, realizzato con quali mezzi? Si pensi solo all’intonazione “imprecisa” di alcune tradizioni popolari. Come la trascrivo? Come la suono o come la canto? La musica di tradizione orale questo aspetto dell’interpretazione lo conosce benissimo. Sa che ogni esecuzione è una reinvenzione della musica, una nuova, unica, irripetibile proposta. Gli etnomusicologi sanno che è impossibile datare un canto popolare, che la sua datazione è quella della sua registrazione. Il compositore “colto” sa a sua volta che la riscrittura di una melodia popolare, anzi di qualunque melodia, non è mai la melodia stessa, ma sempre una sua reinvenzione, una sua rielaborazione. Bartók i temi popolari in genere li inventa, ma anche quando li assume tra quelli raccolti dalla sua ricerca, li sottopone poi a un’elaborazione non diversa da quella alla quale Beethoven (il suo compositore di riferimento) sottopone i propri temi.

Perché questo forse troppo lungo excursus? Per chiarire che ogni musica della tradizione che chiamiamo “colta” è sempre anche una riflessione sulla musica, una riconsiderazione di che cosa sia comporre una musica. In realtà ogni opera d’arte è questo. Ogni attività artistica è, nell’atto di realizzare un’opera, una riflessione anche su come un’opera si realizza. Il canone di Policleto esplicita questa condizione ch’è intrinseca di ogni fare artistico. Dante nel “De vulgari eloquentia” fa un’osservazione sconcertante per quanto ci risulta oggi preveggente, moderna. Dice che una lingua letteraria – lui la chiama “illustre” - non è mai la lingua parlata, nemmeno quando riproduce vocaboli ed espressioni della lingua parlata. E’ una lingua artificiale, costruita, inventata, che non corrisponde a nessuna lingua di quelle che si parlano. La Commedia, ma ancora prima le Rime, la Vita Nuova, sono realizzazioni diverse di questa lingua artificiale. L’estrema, e più radicale, realizzazione di questa lingua è il Finnegans Wake di Joyce, opera assai meno lontana dalla concezione della Commedia dantesca di quanto si potrebbe immaginare. Del resto non è strano, per uno scrittore che tra i suoi modelli collocava proprio Omero e Dante. E già che si è citato Omero, questo aspetto dell’elaborazione letteraria, del fatto che l’elaborazione letteraria non è la vita, era chiarissimo ai poeti e scrittori greci, tant’è vero che ogni genere aveva la sua lingua. Perfino all’interno di una stessa opera. Nella tragedia i personaggi parlano in attico, il coro in dorico, perché l’attico è la lingua della poesia didascalica, e dunque di conversazione, il dorico la lingua della poesia lirica corale (quella monodica aveva usato l’eolico, sia pure per un periodo limitato). Oggi sembra che noi “post-moderni” abbiamo perduto la visione di una simile articolata complessità, che, come si vede, non appartiene solo ai moderni, ma già ai classici: per restringerci alla nostra letteratura, avete mai riflettuto a quante lingue diverse usano i tre sommi del Trecento, Dante, Petrarca e Boccaccio?

La digressione torna utile, adesso, per individuare due punti, riguardo ai due cd dai quali si è partiti. Il primo riguarda la consapevolezza dei compositori di scrivere qualcosa di “nuovo”. Il secondo sta nell’individuare in che cosa poi consista questo “nuovo”. Ebbene, nessun dubbio che la consapevolezza di scrivere qualcosa di nuovo esista in tutti i compositori le cui musiche sono interpretate nei due cd, uno dedicato alla musica spagnola, l’altro alle avanguardie del Novecento. Anzi, di talmente nuovo, che se non fosse tale, non meriterebbe di essere scritto. E questo nuovo è il modo di trattare il suono. Questo distingue i compositori dell’ultimo secolo dai compositori dei secoli che li hanno preceduti. E cominciamo dalla Spagna. Manuel de Falla scrive la Fantasia Baetica nel 1919. C’è già l’impostazione che lo distingue dai compositori che usano il folklore spagnolo come colore caratteristico. L’assunzione delle melodie popolari assomiglia di più all’elaborazione bartokiana del folklore, che all’uso più personale di altri compositori, anche spagnoli. Falla non ha dunque niente in comune con le cosiddette scuole nazionali, ma accoglie la melodia popolare, e soprattutto i suoi ritmi, come materiale da studiare in un laboratorio, quasi un esempio didascalico, un microbo in provetta, il tema popolare non costituisce mai un pretesto per arricchire la propria tavolozza timbrica o l’invenzione melodica o la scansione ritmica della propria musica. L’effetto è dirompente. E’ come se Falla esponesse non una propria invenzione, ma solo reperti archeologici. L’emozione soggettiva del compositore sembra non farvi parte. In realtà è intensissima: proprio perché vuole, o s’illude, di affondare nelle matrici della musica della sua gente. Albéniz, Granados possono risultare più accattivanti, più raffinati, più seducenti. Falla non pulisce la rozzezza delle fonti, non attutisce la violenza, quasi selvaggia, del grido, dell’ossessione ritmica. Nemmeno nella più impressionistica delle sue partiture, Noches en los jardines de España. Ali Hirèche pone dunque giustamente in apertura del suo viaggio spagnolo proprio la Fantasia baetica, è questa l’ “altra” Spagna. Quella che non si maschera di parigina, di europea, di aggiornata. Quella che denuda le proprie radici, la loro nodosa ruvidezza. Il che non significa rifiuto della dolcezza, della tenerezza. Anzi: proprio in contrasto con questa ruvidezza la tenerezza si fa più struggente, più scoperta. Sconvolgente come il catalano Federico Mompou poi disegni i propri schizzi con uguale essenzialità, con la stessa nuda e aforistica semplicità. Antonio Ruiz-Pipó, che di Hirèche è stato il maestro, continua a procedere sulla stessa via. Una reinvenzione personale della materia sonora del proprio paese. Niente folklore, nessuna cartolina: ma quasi uno scendere alle madri, come Faust, all’inconscio collettivo da cui nasce l’individualità che lo evoca.

Il disco registrato da Michele Marelli sembrerebbe condurci in tutt’altro mondo. Anche perché passiamo nel dominio delle avanguardie del secondo Novecento. E’ una panoramica affascinante della musica che si suole attribuire a queste avanguardie. Ma se si supera la distanza, in fondo illusoria, che passa tra l’armonia che appare ancora tradizionalmente tonale nei compositori spagnoli suonati da Hirèche, e lo scardinamento che invece di tale organizzazione armonica attuano i compositori interpretati da Marelli (nell’ordine del cd: Ivan Fedele, Giacinto Scelsi, Karlheinz Stockhausen, Michel van de Aa, Helmut Lachenmann), si riconoscerà per tutti, spagnoli e avanguardisti, nell’analisi del suono, nella sperimentazione della materialità stessa del suono, il legame che fa di queste musiche, di tutte queste musiche, musiche tipiche del Novecento. Certo, in più, soprattutto nelle avanguardie, c’è l’evidenza dell’atto intellettuale, del pensiero che dà una forma inconfondibile alla materia sonora. Ma, se ci si riflette più profondamente, riscontriamo che lo stesso accade anche in un’installazione d’arte visiva se confrontata a un quadro o a una scultura. Ciò che distingue l’arte del Novecento e, ancora oggi, quella dei primi due decenni del Duemila, è infatti il prevalere del pensiero sulla sua realizzazione o meglio, anzi, è il pensiero stesso che già si presenta come realizzazione. Ma solo perché in taluni artisti, quelli appunto connotati come artisti d’avanguardia, tale prevalenza si fa più manifesta. L’apparente facilità, l’immediata e gradita comprensibilità, di un Philip Glass o di un Arvo Pärt, non è invece meno intellettualistica, meno pensata, calcolata, di quella che innerva un Klavierstück di Stockhausen. La novità del moderno, di ciò che si suole chiamare moderno, sta tutta qui: che alla sua comprensione, e dunque al poterne godere, non basta più la sola percezione, l’immediata – e apparente – comprensione di ciò che si ascolta. L’ascoltatore deve compiere uno sforzo in più: entrare nel pensiero che ha prodotto l’opera, cogliere l’intuizione che l’ha generata, seguire passo passo il procedimento intellettuale che le dà corpo. E perché allora, obietterà qualcuno, questo non accade, invece, con la musica di Mozart? O di Chopin? Rispondo: ma ne siamo sicuri? Perché a questo punto è un’altra la domanda che sorge spontanea: siamo sicuri, infatti, che con l’arte del passato non abbiamo bisogno di riflettere sul pensiero che l’ha generata? Siamo convinti che l’opera ci parli da sé stessa, senza bisogno di mediazioni intellettuali? Che l’arte, e soprattutto la musica, del passato, cioè, ci appaia immediatamente comprensibile e quella dell’ultimo secolo, no, ci respinga, ci appaia del tutto incomprensibile, ci si configuri anzi come la negazione di ciò che intendiamo per arte?

Ma non sarà che proprio su questo dobbiamo invece interrogarci, e cioè su che cosa sia per noi arte? Siamo sicuri che il puro e ingenuo ascolto di un quartetto di Beethoven ce ne faccia cogliere l’intenzione profonda? Che mi basta seguire le parole di un madrigale monteverdiano per penetrare nel mondo musicale – complessissimo, intellettualissimo! – di Monteverdi? O che sia sufficiente abbandonarmi alla seduzione di una melodia per catturare il segreto di un notturno di Chopin? Non sarà che il possesso, o l’illusione del possesso, dei meccanismi musicali che hanno dato vita a quelle musiche – in altri termini il fatto che il loro linguaggio mi sia noto e familiare o, più verosimilmente, ch’io pensi di poterlo ritenere noto e familiare - m’illuda poi di riuscire a conoscerle, perché ne riconosco, o credo di riconoscere, il procedimento che le costruisce? Non dimentichiamo che il pubblico che applaudiva, entusiasta, la Nona di Beethoven, o quello che a Parigi andava in estasi per le rare esibizioni pubbliche di Chopin, era un pubblico aristocratico e altoborghese, che chi ascoltava conosceva assai bene la ”tecnica” con cui Beethoven e Chopin avevano composta quella musica sublime, e quasi tutti sapevano anche suonare uno strumento, qualcuno sapeva addirittura comporre. Già un po’ meno all’epoca di Chopin, è vero, ma sempre comunque tutti erano eruditi su ciò che ascoltavano. Il pubblico di oggi, non più. Raro che chi vada oggi ad ascoltare il direttore di fama, il pianista di grido, conosca come si compone una sinfonia, come si scrive una sonata. Ma proprio per questo, invece d’inalberarsi e di rifiutare ciò che non capisce, dovrebbe fare lo sforzo di conoscere ciò che gli viene proposto. E solo dopo quest’atto di umiltà, prima ancora che di conoscenza, a costui gli si potrà riconoscere il diritto di rifiutare ciò che non gli garba. Perché allora egli non rifiuterà qualcosa, di cui non conosce nemmeno com’è fatta, ma con consapevolezza rifiuterà qualcosa che ha conosciuto, e quello che ha conosciuto non è stato di suo gradimento. Si ascolti con attenzione quanto accade nei sei brani di Stockhausen per clarinetto basso e feedback elettronico, “Solo” Version V. Nelle note allegate al cd Sandro Cappelletto lo spiega bene che cosa si ascolta. “L’opera è composta da sei pannelli, chiamati cicli, ognuno indicato da una lettera: A, B, C, D, E, F. L’interprete ha davanti a sé sei pagine che rappresentano il “contenuto” dell’opera, sceglie l’ordine di organizzazione del materiale annotato e lo suona dentro una coppia di microfoni, gli assistenti, in tempo reale, selezionano e fanno ‘risuonare’ uno o ambedue i canali dove il suono appena emesso è stato registrato, scelgono il tempo di ritardo della risposta (feedback) e il livello dell’emissione del suono dagli altoparlanti. Ogni esecuzione, pur rispettando tali parametri, sarà diversa ...” Appunto: non si può realizzare più precisamente l’individualità d’ogni esecuzione. Ciò che in realtà avviene per ogni interpretazione ed esecuzione di qualsiasi musica. Una sonata di Beethoven non è mai la stessa se suonata da pianisti diversi, anzi nemmeno se suonata dallo stesso pianista in momenti diversi. Solo l’incisione discografica ha la caratteristica di fissare un’unica esecuzione, sempre la stessa per ogni ripetizione d’ascolto. Stockhausen mette in risalto proprio questo aspetto dell’esecuzione musicale: che ciascuna esecuzione è un fatto unico, irripetibile. La tecnologia però permette di registrare quell’unicità e di ripeterla. Quasi un ossimoro dell’interpretazione, che cessa di essere tale nel momento che può essere ripetuta all’infinito come è stata eseguita la prima volta. In questo modo Stockhausen mette in risalto il conflitto tra libertà dell’interprete e meccanicità della riproduzione tecnologica. E più profondamente quanto vi sia di costrittivo, di casuale, di determinato nell’atto che consideriamo libero. Al solito, s’innesta nell’atto musicale una lunga riflessione filosofica su libertà e costrizione. Dietro il pensiero musicale di Stockhausen, perché di pensiero si tratta, possiamo leggere le riflessioni di Nietzsche sulla morale, e perfino la concezione buddistica della realtà come proiezione mentale e apparenza. Ugualmente significativa appare la musica di Lachenmann, Accanto. Accanto a chi, a che cosa? Al Concerto per clarinetto di Mozart. Un abisso sembra separare i due musicisti. Ma ne siamo sicuri? Il solo accostamento, accanto, appunto, ci suggerisce che la distanza, la differenza, è solo un’illusione. Del resto, già Scelsi, con Ixor, non ci aveva fatto dubitare che addirittura la melodia si confonda con il respiro umano, o più in là con l’abolizione del tempo, proprio perché l’abolizione del tempo abolirebbe anche la melodia, e con la melodia anche il respiro? Consiglio perciò vivamente a tutti, prima di un sì o di un no, di ascoltarsi con attenzione a queste registrazioni di musica del Novecento. Se non altro, per rendere omaggio alla bravura e all’intelligenza degli interpreti. Ma soprattutto, alla loro ostinazione e alla loro onestà intellettuale. Sensibilità, sentimento, emozione nasceranno di conseguenza.

Fiano Romano, 18 febbraio 2018