mercoledì 27 febbraio 2019

Mario Bertoncini: riflessione sull'idea di moderno






CONSERVATORIO DI SANTA CECILIA, VIA DEI GRECI, 18 ROMA
25 FEBBRAIO 2019


PER MARIO BERTONCINI
TAVOLA ROTONDA
Sala Medaglioni, ore 16,45
Saluti istituzionali
Roberto Giuliani (direttore del Conservatorio di Santa Cecilia, Roma)
Moderano:
Gianmario Borio (Università degli studi di Pavia/Cremona) e Daniela Tortora (Conservatorio San Pietro a Majella, Napoli)
Interventi di:
Nicola Sani (Accademia Musicale Chigiana, Siena), Alessandro Sbordoni (Associazione Nuova Consonanza e Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza, Roma), Irmela Heimbächer (Fondazione Isabella Scelsi, Roma), John Heineman, Walter Branchi, Giorgio Nottoli, Gianni Trovalusci, Dino Villatico, Luigi Maria Sicca (Università degli studi di Napoli Federico II), Chiara Mallozzi, Ingrid Pustijanac (Università degli studi di Pavia/Cremona), Alessandro Mastropietro (Università degli studi di Catania), Pietro Cavallotti (Università degli studi di Torino), Luigino Pizzaleo, Mario Gamba, Giancarlo Schiaffini

CONCERTO
Sala Accademica, ore 19,00
Suite ’99 Colori (1999)
Luisa Santacesaria, pianoforte
Tune (1965)
ZAUM_percussion (Simone Beneventi, Carlota Cáceres, Lorenzo Colombo) 
An American Dream (1974)
Reinhold Friedl, pianoforte 
In collaborazione con: Associazione Nuova Consonanza, Roma; Fondazione Isabella Scelsi, Roma
Per la rassegna “Alziamo il volume” verrà presentato, nel corso della manifestazione, La bottega del suono di Mario Bertoncini. Maestri e allievi, a cura di Chiara Mallozzi e Daniela Tortora, Napoli, Editoriale Scientifica, 2018


Mario Bertoncini: riflessione sull’idea di moderno


Si è tenuta, lunedì 25 febbraio, nella Sala dei Medaglioni del Conservatorio di Santa Cecilia a Roma, una tavola rotonda per ricordare Mario Bertoncini, che il 19 gennaio scorso pur troppo ci ha lasciati. Interessantissima figura di compositore, drammaturgo, poeta romano, la cui attività percorre per intero la seconda metà del Novecento, ricordarlo può essere anche un’occasione per riflettere sull’idea di moderno, e più precisamente di avanguardia. Queste righe, pertanto, non vogliono essere un resoconto di ciò che si è detto nella tavola rotonda, e che poi si è ascoltato, nel breve ma intensissimo concerto seguito all’incontro. I nomi dei partecipanti e dei musicisti figurano nella locandina allegata in testa a queste riflessioni. Credo che sia, infatti, giunto il momento di riflettere, senza pregiudizi ideologici, sulla musica del secondo Novecento, e anzi di ripensare, analizzare, l’arte di quel periodo, e riandare con mente limpida a quanto è avvenuto a Roma, in Italia, e nel Mondo, nel vasto, variegato, e complessissimo panorama musicale che ha vivacizzato l’esperienza di quegli anni. Ma non solo per quanto riguarda la musica, come si è accennato sopra. Ma anche riguardo alla letteratura, al teatro, alle arti figurative. E, soprattutto, riflettere sulla fitta interazione di tutti questi campi. Come pensare, infatti, alla musica “informale” di un Aldo Clementi senza pensare a Fautrier, a Burri, a Tancredi? O a Intolleranza ‘60 di Luigi Nono, Un re in ascolto di Luciano Berio, senza pensare a Beckett o al Living Theater? O come riascoltare, rileggere Le marteau sans Maître, Pli selon pli di Pierre Boulez senza pensare appunto a René Char, a Mallarmé (incunabolo delle avanguardie), a Eluard, a tutta la grande, grandissima poesia di quegli anni, Heaney, Strand, Sanguineti? Potremmo dire con Heaney che niente sarà “lavato via”.

The dotted line my father’s ashplant made
On Sandymount Strand
Is something elso the tide won’t wash away

(The Strand: due pentametri giambici a racchiudere un dimetro, 1995, The Sunday Times).

Ricordo Mario Bertoncini a Napoli, sul finire degli anni ‘70, nell’auditorium della RAI di Napoli, a Fuorigrotta, per il Festiva organizzato da Mario Bortolotto, Nuova Musica e Oltre. Donatoni, Castiglioni, Togni, Pennisi, i nomi di punta delle avanguardie italiane che impropriamente erano chiamata darmstadtiane. Poi, una sera, tra questa musiche, appare e s’infiltra Mario Bertoncini, ma come pianista, non come compositore, si siede davanti allo Stainway nero a coda e attacca un pezzo di Terry Riley. Una parte del pubblico esterrefatta, ma i più in estasi, ed esplode così un uragano di applausi. Bertoncini deve ripetere il brano. Un meteorite estraneo, piombato sul palcoscenico come in un film di Kubrick (a proprosito: erano anche gli anni di Kubrick, di Jarman, di Godard)? No: più semplicemente, la libertà di quegli anni, in cui sperimentare significava davvero sperimentare, vale a dire addentrarsi in territori sconosciuti, non ancora esplorati. Si accusano spesso oggi le avanguardie di quegli anni di essere state ferocemente ideologiche, dogmatiche, di avere chiuso e proibito le sale da concerto a chi non era della corrente, di avere ostracizzato la musica che non fosse quella che componevano gli avanguardisti. A dire il vero, mi paiono molto più dogmatici taluni dei compositori e dei musicisti di oggi, per non parlare del pubblico che quelle musiche non le gradiva allora e oggi le rifiuta, le cancella, e se potesse ne annichilerebbe anche la memoria. E’ giusto: i figli devono uccidere i padri. Ma lo storico deve distaccarsi, pulire – sì: pulire! - lo sguardo. E allora, tanto per cominciare, se rigidezze ideologiche ci furono (ma quando non ci sono state?), esse ingabbiavano piuttosto gli epigoni, gli scolaretti, i mentori e i fiancheggiatori su giornali, nelle istituzioni, nei conservatori – in realtà più a Milano che altrove, dove invece spesso proprio nei conservatori allignava una rancorosa avversione per le avanguardie – la cultura ufficiale, diciamo così, era antiavanguardista, antimodernista, e continua ad esserlo. A Milano c’era Musica nel nostro tempo, a Roma Nuova Consonanza. Due isole, in qualche modo. Mario Bertoncini è tra i fondatori di Nuova Consonanza. I concerti di musica “contemporanea”, sia a Roma sia a Milano erano molti, e molto attivi. Spesso ci si trovava in pochi, è vero, ma quell’Italia, che ci sembrava provinciale, respirava invece il respiro del mondo. Forse provinciale, lo è diventata invece davvero oggi. Ma questo è un altro discorso. L’atmosfera moderna delle due città è ben colta da due film di Antonioni, La Notte, per Milano, e L’Eclisse, per Roma. Ma anche dal teatro. Il Piccolo di Strehler a Milano, la Compagnia dei giovani all’Eliseo di Roma. Ma sto andando fuori strada. Ritorniamo ai dogmi, alle chiusure. Ora, prendiamo compositori come Stockhausen, Boulez, Berio, Maderna, Nono. Xenakis, Cage, Feldman. E ne dimentico molti. Non si possono immaginare musiche più diverse, ma diverse proprio nella loro struttura, nella loro costruzione. E dove sta, allora, il dogma, la chiusura? Berio scrive perfino musica tonale, riassume e reinventa le tradizioni popolari, nei Folk Songs e in Questo vuol dire che … , trascrive per orchestra le Siete Canciones Populares di Falla, riconsidera un quintetto di Boccherini, una sinfonia abbozzata di Schubert. Negli stessi anni Ernesto De Martino, Roberto Leydi e Diego Carpitella, avviano lo studio scientifico della musica popolare e ne introducono l’insegnamento nelle università. Nasce l’etnomusicologia italiana. Non è un’esperienza marginale. La musica “colta” europea è vissuta per secoli nell’idea dell’opera “chiusa”, per adottare un termine introdotto da Umberto Eco, nel suo fondamentale Opera aperta, del 1962, a definire le strutture dell’opera artistica nell’ambito della cultura occidentale. Eco si riferisce soprattutto all’opera letteraria. Ma il concetto può essere allargato a tutti i campi artistici. In musica, esempi quasi fondanti di questa concezione “chiusa” dell’opera sono le forme dell’aria e la cosiddetta forma sonata. Entrambe queste forme hanno un inizio, un centro, e una conclusione. L’armonia tonale ne è un fondamento indispensabile. Ma l’idea di opera che si apre e si conclude resta vitale anche nella concezione schoenberghiana dell’uso della serie e prosegue anche nelle opere del serialismo integrale. Ora, nella tradizione musicale europea quest’idea dell’opera racchiusa in termini precisi è relativamente recente, e la si può far cominciare con lo sviluppo della musica strumentale, con il graduale abbandono dei modi rinascimentali e l’imporsi dell’armonia tonale. Le dimensioni di una musica coincidevano, prima, con le dimensioni del testo. Nel cantus planus, il canto della chiesa che chiamiamo gregoriano, la durata del canto coincide con la lunghezza del testo, e si basa sulla ripetizione libera di un modulo che si adatta via via alle diverse dimensioni del testo. Si avvicinano invece alla nostra idea di un’opera conchiusa, dai confini precisi, gli inni. Il modo sul quale queste melodia si basano non è una scala, ma un modulo melodico che si adatta ai testi. Saranno i teorici a organizzare in teoria e ordinare in scale questi moduli. Non diversamente agisce la musica di tradizione orale, in qualunque civiltà. Mi scuso per la schematicità della descrizione, ma ciò che m’interessa è mettere in evidenza che solo dal tardo barocco in poi in musica si afferma la concezione di un’opera dai confini precisi, della sonata, del concerto, dell’aria. Ancora Frescobaldi concepisce le sue toccate come una serie di sezioni autonome che possono essere suonate integralmente o interrotte in qualunque punto appaia la cadenza sulla finalis, o la conclusione di una sezione. Che cosa significa questo? Che la musica non è sentita come un organismo rigidamente strutturato, che ha un inizio, un centro e una fine, ma come un atto di durata indeterminata. Non conta l’organizzazione della pagina, e cioè dell’architettura musicale, ma l’attuazione di un modulo che si ripete e si cambia. L’interazione di esecutore e ascoltatore è massima, nel senso che l’ascoltatore non prevede, non attende ciò che già sa deve prevedere e attendersi, bensì è colto momento per momento dall’attuazione del musicista, non diversamente che da un’improvvisazione. L’idea di un opera conchiusa, di una pagina strutturata, è mutuata dall’opera letteraria, e s’impone solo nella seconda metà del XVII secolo. Ma l’arte dell’improvvisazione continua, così come la generazione di canti della tradizione orale. Ecco, l’irruzione di un Cage introduce, nel mondo di una musica cocepita come opera chiusa, proprio questo tipo di ascolto. O sarebbe più esatto dire che lo reintroduce. C’è nel jazz, c’è nella musica di tradizione orale, come si è detto. E c’era nella pratica d’improvvisazione anche dei musicisti colti, almeno fino ai primi del Novecento e in alcuni paesi l’arte dell’improvvisazione è ancora materia d’insegnamento nei conservatori, per esempio in Francia. Mozart e Beethoven, ci raccontano le cronache del loro tempo, ne erano campioni acclamatissimi. I parametri musicali sono la melodia, l’armonia e il ritmo. A questi bisogna aggiungere anche il timbro, che dal romanticismo in poi si fa sempre più determinante. Già in Beethoven, tuttavia, aveva acquistato un ruolo decisivo nella costruzione della sintassi musicale. Si pensi ai cinque colpi di timpano che aprono il concerto per violino, o alla battuta affidata ai soli timpani nello Scherzo della Nona: un inciso tematico affidato alle percussioni! Nel momento in cui nel Novecento la musica si fa sperimentale (ma quando non lo è stata, la grande musica? Machaut non è sperimentale? Non lo sono Monteverdi, Bach, Haydn?) non c’è da meravigliarsi se la sperimentazione non si attui anche esplorando la vastissima regione dei timbri. Il timbro significa confrontarsi con la materia stessa del suono. Come in pittura il colore. Da Monet non è difficile arrivare a Mondrian. Mario Bertoncini fa dunque della materia sonora il campo della propria indagine musicale. Lavora il suono come Pollock la pasta del colore. Il pianoforte sollecita il suono azionando martelli che colpiscono le corde. E se noi le corde le sollecitassimo direttamente, senza la mediazione di una tastiera che aziona i martelletti? Sollecitarle, come? Ma con le dita, naturalmente. Non si fa così con gli strumenti a corda? E non è il pianoforte uno strumento a corda? Ma poi perché, anche, non strofinarle con altre corde, strusciarle? E perché scandagliare nuovi modi di produrre suono solo sul pianoforte? Perché non provare a sfregare l’arco di un violino sui bordi di un piatto? E convogliare le vibrazioni in un campanaccio? O perché non alterare le vibrazioni delle corde del pianoforte inserendo bulloni, viti, legnetti? I tre brani ascoltati nel concerto seguito alla tavola rotonda, Suite ‘99 Colori per pianoforte del 1999, Tune per un trio di percussionisti del 1965 (i tre strofinano con un arco i bordi dei piatti) del 1965, e An American Dream per pianoforte del 1974, di quest’esplorazione sono esempi mirabili, di raffinata suggestione sonore, verrebbe voglia di dire di poesia del suono. Ma tutte queste idee, queste riflessioni, e queste esperienze, possono essere approfondite con la lettura di un libro dedicato appunto a Mario Bertoncini: Chiara Mallozzi e Daniela Tortora, La bottega del suono. Mario Bertoncini. Maestri e allievi, prefazione di Mario Niccodemi e postfazione di Luigi Maria Sicca, Napoli, Editrice Scientifica, 2017. Lavoro del Conservatorio di Napoli San Pietro a Maiella. Ci sarà tempo e modo per ritornarci su. Ma ritorniamo, adesso, al punto da cui siamo partiti: l’accusa di dogmatismo, di tirannia, lanciata da molti musicisti di oggi alla musica sperimentale del secondo dopoguerra del secolo scorso. Da quando una sperimentazione è dogma invece che libertà? E da quando esclude altri modi di fare musica, vale a dire musica non sperimentale? Se qualcuno, in qualche città, in qualche ambito lo ha fatto, sua colpa. Ma la colpa di qualcuno non può riguardare l’intero movimento dei musicisti che hanno voluto sperimentare nuovi modi di fare musica. A un supposto dogmatismo del passato si risponderebbe allora con un altro, e più integrale dogmatismo, quello che nega a un musicista di fare la musica che vuole fare. O vogliamo un panorama di musica tutta uguale? Ciò che ha caratterizzato la musica del Novecento, e in particolare delle avanguardie del Novecento, è stata proprio la grande varietà delle proposte. Ed è questa varietà la vera vita della musica di allora, deve restare anche nella musica di oggi. Non si confonda la validità di una musica con il gradimento del pubblico, il coraggio di sperimentare l’inusitato con l’accondiscendenza dei timidi e con il consenso dei più. Nella musica, come in qualsiasi arte uno non vale uno. O tacceremo di fallimento l’opera che ha inaugurato il Novecento, e a tutt’oggi, forse, la più bella del secolo, il Pelléas et Mélisande, solo perché non è proprio tra le più gradite dal pubblico? Come non lo è il Wozzeck, un altro capolavoro del Novecento? Attenzione! Baudelaire ci aveva visto chiaro.

Verse-nous ton poison pour qu’il nous reconforte!
Nous voulons, tant ce feu nous brûle le cerveau,
Plonger au fond du gouffre, Enfer ou Ciel, qu’importe?
Au fond de l’Inconnu pour trouver du nouveau!

O ci spaventa l’abisso, l’Ignoto? L’arte, la grande arte, vi ha sempre guardato. Troppo intellettuale? Anzi: troppo intellettualistico? Troppo incomprensibile? Ma da quando l’arte deve essere immediatamente comprensibile? La Divina Commedia la capisco alla prima lettura? Al primo sguardo un quadro come Las Meninas? l’Ulyxes un delirio intellettuale? Una pazzia la Grande Fuga per quartetto d’archi? Una corbelleria i tagli sulla tela di Fontana? Il monaco solitario che in un monastero perduto tra le montagne ha copiato il De rerum natura e lo ha salvato, un pazzo? Un reprobo elitista perché la sua lettura implica la conoscenza del latino e della filosofia, e il popolo non sa che farsene? Riordiniamo, per favore, le nostre idee. La fisica quantistica non è democratica perché tutti la capiscono, ma perché ci aiuta a capire meglio il mondo. E anche la musica più astrusa, più strana, più intellettualistica è un grimaldello che ci fa conoscere nuove possibilità di trarre piacere dalla materia sonora. Piacere tutto intellettuale? E da quando il piacere è solo dei sensi? Un matematico, quando trova la giusta dimostrazione di un teorema, non dice che è giusta, ma che è bella, che è elegante. Anzi, tra due dimostrazioni, ugualmente giuste, sceglie la più bella, la più elegante. Riflettiamoci. L’esperienza del mondo è più vasta del piccolo cerchio di abitudini in cui molti, troppi, vogliono racchiuderla. “L’aiuola che ci fa tanto feroci”, ha tutt’intorno, nello spazio, innumerevoli galassie.

Fiano Romano, 27 febbraio 2019


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