CONSERVATORIO
DI SANTA CECILIA, VIA DEI GRECI, 18 ROMA
25
FEBBRAIO 2019
PER
MARIO BERTONCINI
TAVOLA
ROTONDA
Sala
Medaglioni, ore 16,45
Saluti
istituzionali
Roberto
Giuliani (direttore del Conservatorio di Santa Cecilia, Roma)
Moderano:
Gianmario
Borio (Università degli studi di Pavia/Cremona) e Daniela Tortora
(Conservatorio San Pietro a Majella, Napoli)
Interventi
di:
Nicola
Sani (Accademia Musicale Chigiana, Siena), Alessandro Sbordoni
(Associazione Nuova Consonanza e Gruppo di Improvvisazione Nuova
Consonanza, Roma), Irmela Heimbächer (Fondazione Isabella Scelsi,
Roma), John Heineman, Walter Branchi, Giorgio Nottoli, Gianni
Trovalusci, Dino Villatico, Luigi Maria Sicca (Università degli
studi di Napoli Federico II), Chiara Mallozzi, Ingrid Pustijanac
(Università degli studi di Pavia/Cremona), Alessandro Mastropietro
(Università degli studi di Catania), Pietro Cavallotti (Università
degli studi di Torino), Luigino Pizzaleo, Mario Gamba, Giancarlo
Schiaffini
CONCERTO
Sala
Accademica, ore 19,00
Suite
’99 Colori (1999)
Luisa
Santacesaria, pianoforte
Tune
(1965)
ZAUM_percussion
(Simone Beneventi, Carlota Cáceres, Lorenzo Colombo)
An
American Dream (1974)
Reinhold
Friedl, pianoforte
In
collaborazione con: Associazione Nuova Consonanza, Roma; Fondazione
Isabella Scelsi, Roma
Per
la rassegna “Alziamo il volume” verrà presentato, nel corso
della manifestazione, La
bottega del suono di Mario Bertoncini. Maestri e allievi,
a cura di Chiara Mallozzi e Daniela Tortora, Napoli, Editoriale
Scientifica, 2018
Mario Bertoncini: riflessione
sull’idea di moderno
Si
è tenuta, lunedì 25 febbraio, nella Sala dei Medaglioni del
Conservatorio di Santa Cecilia a Roma, una tavola rotonda per
ricordare Mario Bertoncini, che il 19 gennaio scorso pur troppo ci ha
lasciati. Interessantissima figura di compositore, drammaturgo, poeta
romano, la cui attività percorre per intero la seconda metà del
Novecento, ricordarlo può essere anche un’occasione per riflettere
sull’idea di moderno, e più precisamente di avanguardia. Queste
righe, pertanto, non vogliono essere un resoconto di ciò che si è
detto nella tavola rotonda, e che poi si è ascoltato, nel breve ma
intensissimo concerto seguito all’incontro. I nomi dei partecipanti
e dei musicisti figurano nella locandina allegata in testa a queste
riflessioni. Credo che sia, infatti, giunto il momento di riflettere,
senza pregiudizi ideologici, sulla musica del secondo Novecento, e
anzi di ripensare, analizzare, l’arte di quel periodo, e riandare
con mente limpida a quanto è avvenuto a Roma, in Italia, e nel
Mondo, nel vasto, variegato, e complessissimo panorama musicale che
ha vivacizzato l’esperienza di quegli anni. Ma non solo per quanto
riguarda la musica, come si è accennato sopra. Ma anche riguardo
alla letteratura, al teatro, alle arti figurative. E, soprattutto,
riflettere sulla fitta interazione di tutti questi campi. Come
pensare, infatti, alla musica “informale” di un Aldo Clementi
senza pensare a Fautrier, a Burri, a Tancredi? O a Intolleranza ‘60
di Luigi Nono, Un re in ascolto di Luciano Berio, senza pensare a
Beckett o al Living Theater? O come riascoltare, rileggere Le marteau
sans Maître,
Pli selon pli di Pierre
Boulez senza pensare
appunto a René Char, a Mallarmé (incunabolo
delle avanguardie),
a Eluard, a tutta la grande, grandissima poesia di quegli anni,
Heaney, Strand, Sanguineti? Potremmo dire con Heaney che niente sarà
“lavato via”.
The
dotted line my father’s ashplant made
On
Sandymount Strand
Is
something elso the tide won’t wash away
(The
Strand: due pentametri
giambici a racchiudere un dimetro, 1995, The Sunday Times).
Ricordo
Mario Bertoncini a Napoli, sul finire degli anni ‘70,
nell’auditorium della RAI di Napoli, a Fuorigrotta, per il Festiva
organizzato da Mario Bortolotto, Nuova Musica e Oltre. Donatoni,
Castiglioni, Togni, Pennisi, i nomi di punta delle avanguardie
italiane
che impropriamente erano chiamata darmstadtiane. Poi, una
sera, tra questa musiche,
appare e s’infiltra
Mario Bertoncini, ma
come pianista, non come compositore, si siede davanti allo Stainway
nero a
coda e attacca un pezzo di Terry Riley. Una parte del pubblico
esterrefatta,
ma i più in estasi, ed esplode così
un uragano di applausi. Bertoncini deve ripetere il brano. Un
meteorite estraneo, piombato sul palcoscenico come in un film di
Kubrick (a proprosito: erano anche gli anni di Kubrick, di Jarman, di
Godard)?
No: più semplicemente,
la libertà di quegli anni, in cui sperimentare significava davvero
sperimentare, vale a dire addentrarsi in territori sconosciuti, non
ancora esplorati. Si accusano spesso
oggi le avanguardie di
quegli anni di essere state ferocemente ideologiche, dogmatiche, di
avere chiuso e proibito
le sale da concerto a chi non era della corrente, di avere
ostracizzato la musica che non fosse quella che componevano gli
avanguardisti. A dire il vero, mi paiono molto più dogmatici taluni
dei compositori e dei musicisti di oggi, per non parlare del pubblico
che quelle musiche
non le gradiva allora e oggi le rifiuta, le cancella, e se potesse ne
annichilerebbe anche la memoria. E’ giusto: i figli devono uccidere
i padri. Ma lo storico deve distaccarsi, pulire – sì: pulire! - lo
sguardo. E allora, tanto per cominciare, se rigidezze ideologiche ci
furono (ma quando non ci sono state?),
esse ingabbiavano piuttosto gli epigoni, gli scolaretti, i mentori e
i fiancheggiatori su giornali, nelle istituzioni, nei conservatori –
in realtà più a Milano che altrove, dove invece spesso proprio nei
conservatori allignava una rancorosa avversione per le avanguardie –
la cultura ufficiale,
diciamo così, era antiavanguardista, antimodernista, e continua ad
esserlo. A Milano c’era Musica nel nostro tempo, a Roma Nuova
Consonanza. Due isole, in qualche modo. Mario
Bertoncini è tra i
fondatori di Nuova Consonanza. I concerti di musica “contemporanea”,
sia a Roma sia a Milano erano
molti, e molto attivi. Spesso ci si trovava in pochi, è
vero, ma quell’Italia,
che ci sembrava provinciale, respirava invece il respiro del mondo.
Forse provinciale, lo è diventata invece davvero oggi. Ma questo è
un altro discorso. L’atmosfera moderna
delle due città è ben
colta da due film di Antonioni, La Notte, per Milano, e L’Eclisse,
per Roma. Ma anche dal teatro. Il Piccolo di Strehler a Milano, la
Compagnia dei giovani all’Eliseo di Roma. Ma sto andando fuori
strada. Ritorniamo ai dogmi, alle chiusure. Ora, prendiamo
compositori come Stockhausen, Boulez, Berio, Maderna, Nono. Xenakis,
Cage, Feldman. E ne dimentico molti. Non si possono immaginare
musiche più diverse, ma diverse proprio nella loro struttura, nella
loro costruzione. E dove sta, allora, il dogma, la chiusura? Berio
scrive perfino musica tonale, riassume e reinventa le tradizioni
popolari, nei Folk Songs e in Questo vuol dire che … , trascrive
per orchestra le Siete
Canciones Populares di Falla, riconsidera un quintetto di Boccherini,
una sinfonia abbozzata di Schubert. Negli
stessi anni Ernesto De Martino, Roberto Leydi e Diego Carpitella,
avviano lo studio scientifico della musica popolare e ne introducono
l’insegnamento nelle università. Nasce l’etnomusicologia
italiana. Non è un’esperienza marginale. La
musica “colta” europea è vissuta per secoli nell’idea
dell’opera “chiusa”, per adottare un termine introdotto da
Umberto Eco, nel suo
fondamentale Opera aperta, del 1962,
a definire le strutture dell’opera artistica nell’ambito della
cultura occidentale. Eco si riferisce soprattutto all’opera
letteraria. Ma il concetto può essere allargato a tutti i campi
artistici. In musica, esempi quasi fondanti
di questa concezione “chiusa” dell’opera sono le forme
dell’aria e la cosiddetta forma sonata. Entrambe queste forme hanno
un inizio, un centro, e una conclusione. L’armonia tonale ne è un
fondamento indispensabile. Ma l’idea di opera che si apre e si
conclude resta vitale anche nella concezione schoenberghiana dell’uso
della serie e prosegue anche nelle opere del serialismo integrale.
Ora, nella tradizione
musicale europea
quest’idea dell’opera
racchiusa in termini precisi è relativamente
recente, e la si può far cominciare con lo sviluppo della musica
strumentale, con il graduale abbandono dei modi rinascimentali e
l’imporsi dell’armonia tonale. Le dimensioni di una musica
coincidevano,
prima, con le dimensioni del testo. Nel cantus planus, il canto della
chiesa che chiamiamo gregoriano, la durata del canto coincide con la
lunghezza del testo, e si
basa sulla ripetizione libera di un modulo che si adatta via via alle
diverse dimensioni del testo. Si avvicinano invece alla nostra idea
di un’opera conchiusa, dai confini precisi, gli inni. Il modo sul
quale queste melodia si basano non è una scala, ma un modulo
melodico che si adatta ai testi. Saranno i teorici a organizzare in
teoria e ordinare in scale questi moduli. Non diversamente agisce la
musica di tradizione orale, in qualunque civiltà. Mi scuso per la
schematicità della descrizione, ma ciò che m’interessa è mettere
in evidenza che solo dal tardo barocco in poi in musica si afferma la
concezione di un’opera dai confini precisi, della sonata, del
concerto, dell’aria. Ancora Frescobaldi concepisce le sue toccate
come una serie di sezioni autonome che possono essere suonate
integralmente o interrotte in qualunque punto appaia
la cadenza sulla finalis,
o la conclusione di una sezione.
Che cosa significa questo? Che la musica non è sentita
come un organismo rigidamente strutturato, che ha un inizio, un
centro e una fine, ma come un atto di durata indeterminata. Non conta
l’organizzazione della pagina, e cioè dell’architettura
musicale, ma l’attuazione di un modulo che si ripete e si cambia.
L’interazione di esecutore e ascoltatore è massima, nel senso che
l’ascoltatore non prevede, non attende ciò che già sa deve
prevedere e attendersi, bensì è colto momento per momento
dall’attuazione del musicista, non diversamente che da
un’improvvisazione. L’idea
di un opera conchiusa, di una pagina strutturata, è mutuata
dall’opera letteraria, e s’impone solo nella seconda metà del
XVII secolo. Ma l’arte dell’improvvisazione continua, così come
la generazione di canti della tradizione orale. Ecco,
l’irruzione di un Cage introduce, nel
mondo di una musica cocepita come opera chiusa,
proprio questo tipo di ascolto. O sarebbe più esatto dire che lo
reintroduce. C’è nel jazz, c’è nella musica di tradizione
orale, come si è detto.
E c’era nella pratica d’improvvisazione anche dei musicisti
colti, almeno fino ai primi del Novecento e
in alcuni paesi l’arte dell’improvvisazione è ancora materia
d’insegnamento nei conservatori, per esempio in Francia.
Mozart e Beethoven, ci raccontano le cronache del
loro tempo, ne erano
campioni acclamatissimi. I parametri musicali sono la melodia,
l’armonia e il ritmo. A questi bisogna aggiungere anche il timbro,
che dal romanticismo in poi si fa sempre più determinante. Già in
Beethoven, tuttavia, aveva acquistato un ruolo decisivo nella
costruzione della sintassi musicale. Si pensi ai cinque colpi di
timpano che aprono il concerto per violino, o alla battuta affidata
ai soli timpani nello Scherzo della Nona: un inciso tematico affidato
alle percussioni! Nel momento in cui nel
Novecento la musica si fa
sperimentale (ma quando non lo è stata, la grande musica? Machaut
non è sperimentale? Non lo sono Monteverdi, Bach, Haydn?) non
c’è da meravigliarsi se la sperimentazione non si attui anche
esplorando la vastissima regione dei timbri. Il timbro significa
confrontarsi con la materia stessa del suono. Come in pittura il
colore. Da Monet non è difficile arrivare a Mondrian. Mario
Bertoncini fa dunque della materia sonora il campo della propria
indagine musicale. Lavora il suono come Pollock la pasta del colore.
Il pianoforte sollecita il suono azionando martelli che colpiscono le
corde. E se noi le corde le sollecitassimo direttamente, senza la
mediazione di una tastiera che aziona i martelletti? Sollecitarle,
come? Ma con le dita, naturalmente. Non si fa così con gli strumenti
a corda? E non è il pianoforte uno strumento a corda? Ma poi perché,
anche, non strofinarle con altre corde, strusciarle? E perché
scandagliare nuovi modi di produrre suono solo sul pianoforte? Perché
non provare a sfregare l’arco di un violino sui bordi di un piatto?
E convogliare le vibrazioni in un campanaccio? O perché non alterare
le vibrazioni delle corde del pianoforte inserendo bulloni, viti,
legnetti? I tre brani ascoltati nel concerto seguito alla tavola
rotonda, Suite ‘99
Colori per pianoforte del 1999, Tune per un trio di percussionisti
del 1965 (i tre strofinano con un arco i bordi dei piatti) del 1965,
e An American Dream per pianoforte del 1974, di quest’esplorazione
sono esempi mirabili, di raffinata suggestione sonore, verrebbe
voglia di dire di poesia del suono. Ma tutte queste idee, queste
riflessioni, e queste esperienze, possono essere approfondite con la
lettura di un libro dedicato appunto a Mario Bertoncini: Chiara
Mallozzi e Daniela Tortora, La bottega del suono. Mario Bertoncini.
Maestri e allievi, prefazione di Mario Niccodemi e postfazione di
Luigi Maria Sicca, Napoli, Editrice Scientifica, 2017. Lavoro del
Conservatorio di Napoli San Pietro a Maiella. Ci sarà tempo e modo
per ritornarci su. Ma ritorniamo, adesso, al punto da cui siamo
partiti: l’accusa di dogmatismo, di tirannia, lanciata da molti
musicisti di oggi alla musica sperimentale del secondo dopoguerra del
secolo scorso. Da quando
una sperimentazione è dogma invece che libertà? E da quando esclude
altri modi di fare musica, vale a dire musica non sperimentale? Se
qualcuno, in qualche città, in qualche ambito lo ha fatto, sua
colpa. Ma la colpa di qualcuno non può riguardare l’intero
movimento dei musicisti che hanno voluto sperimentare nuovi modi di
fare musica. A un supposto dogmatismo del passato si risponderebbe
allora con un altro, e più integrale dogmatismo, quello
che nega a un musicista di fare la musica che vuole fare. O vogliamo
un panorama di musica tutta uguale? Ciò che ha caratterizzato la
musica del Novecento, e in particolare delle avanguardie del
Novecento, è stata proprio la grande varietà delle proposte. Ed è
questa varietà la vera vita della musica di allora, deve restare
anche
nella musica di oggi. Non si confonda la validità di una musica con
il gradimento del pubblico, il coraggio di sperimentare l’inusitato
con l’accondiscendenza dei
timidi e con il consenso
dei più. Nella musica, come in qualsiasi arte uno non vale uno. O
tacceremo di fallimento l’opera che ha inaugurato il Novecento, e a
tutt’oggi, forse, la più bella del secolo, il Pelléas et
Mélisande, solo perché non è proprio tra le più gradite dal
pubblico? Come non lo è il Wozzeck, un altro capolavoro del
Novecento? Attenzione!
Baudelaire ci aveva visto chiaro.
Verse-nous
ton poison pour qu’il nous reconforte!
Nous
voulons, tant ce feu nous brûle
le cerveau,
Plonger
au fond du gouffre, Enfer ou Ciel, qu’importe?
Au
fond de l’Inconnu pour trouver du nouveau!
O
ci spaventa l’abisso, l’Ignoto? L’arte, la grande arte, vi ha
sempre guardato. Troppo intellettuale? Anzi: troppo
intellettualistico? Troppo incomprensibile? Ma da quando l’arte
deve essere immediatamente comprensibile? La Divina Commedia la
capisco alla prima lettura? Al primo sguardo un quadro come Las
Meninas? l’Ulyxes un delirio intellettuale? Una pazzia la Grande
Fuga per quartetto d’archi? Una
corbelleria i tagli sulla tela di Fontana? Il monaco solitario che in
un monastero perduto tra le montagne ha copiato il De rerum natura e
lo ha salvato, un pazzo? Un reprobo elitista perché la sua lettura
implica la conoscenza del latino e della filosofia, e il popolo non
sa che farsene? Riordiniamo, per favore, le nostre idee. La fisica
quantistica non è democratica perché tutti la capiscono, ma perché
ci aiuta a capire meglio il mondo. E anche la musica più astrusa,
più strana, più intellettualistica è un grimaldello che ci fa
conoscere nuove possibilità di trarre piacere dalla materia sonora.
Piacere tutto intellettuale? E da quando il piacere è solo dei
sensi? Un matematico, quando trova la giusta dimostrazione di un
teorema, non dice che è giusta, ma che è bella, che è elegante.
Anzi, tra due dimostrazioni, ugualmente giuste, sceglie la più
bella, la più elegante. Riflettiamoci. L’esperienza del mondo è
più vasta del piccolo cerchio di abitudini in cui molti, troppi,
vogliono racchiuderla. “L’aiuola che ci fa tanto feroci”, ha
tutt’intorno, nello spazio, innumerevoli galassie.
Fiano
Romano, 27 febbraio 2019
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