“Mai
fatto avanguardia, non faccio cose strane. Se non sono gradito a
tutti è un altro problema. Don Giovanni? Si ride parecchio ma inizia
e finisce con una tragedia, ha aspetti ombrosi esaltati dal direttore
Teodor Currentzis. E
le cose
da
evitare – in una messa
in scena - sono:
l’illustrazione,
le metafore troppo dirette, gli ammiccamenti. Aspetti che potrebbero
sembrare una caricatura: è già presente un elemento di maschera,
aggiungerli è inutile. Lo spettacolo si colloca fuori del tempo, ho
un atteggiamento problematico sulle attualizzazioni”.
Dichiarazioni di Romeo
Castellucci rilasciate a Valerio Cappelli sul Corriere della Sera del
10 giugno 2021. Partiamo da qui. Le
righe che seguono
non vogliono essere una recensione dello spettacolo salisburghese,
perché non l’ho visto al teatro, ma ho visto solo
la registrazione video della televisione austriaca. Ho qualche
dimestichezza, comunque, da
anni, con
il teatro di Romeo Castellucci. Qualche
riflessione merita anche, inoltre,
la visione
interpretativa
di Theodor Currentzis. Ed
è su questo che
intendo riflettere. Riflettere,
si badi: non
proporre certezze o posizioni aprioristiche su che cosa sia il
teatro, che cosa mettere in scena un melodramma, e in particolare il
Don Giovanni di Mozart. il discorso è, invece, lungo e
complesso. Premetto che non sono così negativo, come la maggior
parte degli italiani, vedo, a leggere le reazioni, soprattutto sui
social, nei confronti di Currentzis. Se devo, anzi, dirla tutta, mi
dà più fastidio il Mozart oleato di Karajan o di Boehm. Non di
altri del novecento, più problematici, che so Bruno Walter, lo
stesso Furtwaengler (interessantissima una sua interpretazione delle
Nozze di Figaro in tedesco, proprio a Salisburgo), Mitropoulos (un
altrogreco!), Schuricht. Andrà pure storicizzata la tradizione
interpretativa dei classici, al di là delle esecuzioni “storicamente
informate” Ogni interpretazione è legata alla cultura del tempo,
chi sa come saranno giudicate tra cento anni le nostre esecuzioni
“storicamente informate”. Chi parla dunque, a proposito di
Currentzis, di provocazione, e il discorso vale anche per
Castellucci, probabilmente scambia la propria reazione di rigetto,
reazione legata forse a un’abitudine culturale diversa da quella
dell’interprete disapprovato, per una volontà del musicista e
dell’uomo di teatro visti come provocatori. Gli si rimprovera per
esempio una libertà eccessiva, un vero arbitrio, riguardo alla
libertà del basso continuo: ma era pratica diffusa nel settecento,
cantante e cembalista o pianista, se c’era a disposizione un
fortepiano, si accordavano per adattare il recitativo alle proprie
esigenze vocali e teatrali, perché proprio il recitativo era infatti
il momento più teatrale dello spettacolo, quello che mandava avanti
l’azione. Non si tiravano via al più presto per arrivare subito
all’aria, come per decenni si è viso fare nei teatri di mezzo
mondo, soprattutto in quelli non italiani. Molto poco teatrale, in
effetti, questa fretta di arrivare all’aria. Accadeva, invece, nel
settecento, che si cambiasse talora perfino il testo. Oggi abbiamo
un'idea tutto sommato scolastica e accademica del rispetto del testo.
Dimenticando che ogni rappresentazione è sempre una nuova
impostazione drammaturgica. Anche la più fedele. Ma su questo
concetto di fedeltà girano oggi molti equivoci. Non solo nel mondo
musicale. Ma soprattutto nel mondo musicale. Si pensa, spesso, che la
partitura sia qualcosa d’intoccabile, che qualunque adattamento la
deturpi, meno allora interviene il teatro, meglio va per la musica.
Peccato che il melodramma nasca invece come teatro. Se vogliamo
essere fedeli in tutto, allora dovremmo ricollocare l’orchestra
all’altezza del palcoscenico e lasciare i cantanti liberi di agire
come pare a loro. Già con Verdi questo era però problematico. Ma lo
è ancora di più dopo Wagner. Nel Settecento, poi, si inserivano
anche nuove musiche nello spettacolo, dello stesso autore o
commissionate ad altro autore, quando l’opera si rappresentava in
un altro teatro o la si riproponeva do un certo tempo. Mozart stesso
ha composto arie e musiche da inserire nelle opere di Anfossi, e
altri compositori a lui contemporanei. Currentzis non fa, dunque, che
riattivare una pratica a noi oggi divenuta estranea. Ma meno male.
Ridà senso teatrale vivo a ciò che spesso è noiosa accademia. Non
è, come qualcuno protesta indignato, che voglia sostituirsi a
Mozart, ma reintroduce, nella pratica teatrale e musicale di oggi,
una pratica teatrale e musicale del tempo di Mozart. Sulla regia di
Castellucci, se ne sono lette e sentite tante, resta un regista che
in Italia divide il pubblico. Non a caso lavora più in Francia, in
Austria, che in Italia. Ma, prima di condannare, o di approvare, solo
per spirito polemico, senza badare ai fatti, per partito preso, è
teatro, non è teatro, bisogna conoscere il lavoro teatrale di
Castellucci. Osannarlo perché nuovo, o condannarlo perché tradisce
l’opera che mette in scena, sono due modi diversi di fraintenderlo.
Le sue messe in scena non sono mai un’illustrazione più o meno
avvincente del dramma, ma sono sempre una sorta di discorso parallelo
o sotterraneo che commentano il testo rappresentato. Del resto anche
il Don Giovanni letto da Kirkegaard non è quello di Mozart, ma
quello di Kirkegaard. Castellucci si pende la stessa libertà: ma
trasporta sulla scena, invece che sulla pagina, un'interpretazione,
che riveli lati nascosti o poco indagati del testo. Si badi: al testo
non s’impone niente che non lo riguardi. Sta lì il suo miracolo.
Che costruendo qualcosa che sembra estraneo al testo, in realtà
Castellucci affonda dentro il testo. Non vorrei uscire dalle righe,
ma apro una parentesi: non potrebbe questo rifiuto pregiudiziale di
un teatro diverso da quello al quale si è abituati essere la
costante reazione di un tradizionale rispetto dell'esistente, di un
invincibile conformismo della cultura italiana? In fondo della
Callas si diceva che non sapeva cantare. Il grande equivoco fu di
credere, da parte di alcuni, che volesse restaurare il bel canto,
mentre invece stava riconducendo il canto alla recitazione. Si dice
di Castellucci che la regia fa vedere cose che non c'entrano con
l'azione. Ma a costoro è mai venuto in mente che quando assistiamo
alla messa in scena, che so, dell'Edipo Re di Sofocle, gli attori
sono senza maschera e recitano anche donne? Insomma ogni
rappresentazione è una rilettura. E anche la lettura stessa di un
testo, come si è detto sopra, non può che essere per forza una
rilettura. Avessi in mente tutti gli strumenti filologici e storici
del caso per leggere Omero com’è scritto, c'è una cosa che non
ho: il cervello dei contemporanei di Omero che lo ascoltavano
recitare i suoi versi. Arrendiamoci: la comprensione storica è
indispensabile. Ma il passato non è restituibile. Sono d'accordo con
Adorno quando afferma che non c'è niente di più inautentico che la
ricerca dell'autenticità. Ma riflettiamo sull’operazione teatrale
di Castellucci. Anzi, di Castellucci e di Currentzis. E ripeto: non
m’interessa recensire lo spettacolo, ma riflettere su ciò che lo
spettacolo che mi dice. Partiamo proprio da Kirkegaard: “Che cos’è
un poeta? Un uomo infelice che nasconde profonde sofferenze nel
cuore, ma le cui labbra sono fatte in modo che se il sospiro, se il
grido sopra vi scorre, suonano come una bella musica”. (ΔΙΑΨΑΛΜΑΤΑ
– Enen-Eller, I / INTERMEZZI - a sé
stesso – Aut aut, I, Milano, Adelphi,
1976, pag. 73). Ci
sta dicendo – lasciamo stare l’idea romantica di poeta che c’è
sotto – che la bellezza è ciò che ascoltiamo. La sofferenza non è
l’argomento della poesia, ma la sua sorgente. Andiamo avanti. E che
cos’è la musica? “Qual è il medio più astratto? Risponderò
prima di tutto a questa domanda: è
il medio che è più lontano dal linguaggio”. Ma “il medio più
astratto non ha sempre a suo oggetto l’idea più astratta. Così il
medio che impiega l’architettura, è il più astratto, certo; ma le
idee che si rivelano nell’architettura non sono affatto le più
astratte. … L’idea più astratta che si può immaginare è la
genialità sensuale. Ma qual è il medio attraverso cui la si può
rappresentare? Unicamente la musica. Non la
si può rappresentare nella scultura, poiché è un tipo di
determinazione in sé dell’interiorità; non la si può dipingere,
poiché non è fissabile in contorni determinati; in tutta la sua
liricità essa è una forza, un respiro, insofferenza, passione,
ecc., eppure non è in un momento, ma in una successione di momenti,
poiché se fosse in un momento, la si potrebbe ritrarre o dipingere”
(Enten-Eller, I, Gli stati erotici immediati, ed. cit. pagg.
117-118). Sono le pagine che Kirkegaard dedica alla figura di Don
Giovanni e a Mozart. Ecco: la sensualità è movimento, tempo che
trascorre. Musica. Don Giovanni ne è l’incarnazione. La sua
irruzione sulla scena non può che succedere alla sparizione,
sottrazione delle immagini, soprattutto se immagini della devozione
religiosa, intese a distogliere il
fedele dal transeunte per rivolgersi alla
contemplazione del permanente, dell’eterno. L’ingresso di Don
Giovanni dunque succede alla cancellazione della religione e delle
figure che la rappresentano. La sua condanna, la sua sparizione sarà
allora pietrificarlo, bloccarlo nel gesso di una figura, come i morti
di Pompeo e di Ercolano, figure perenni della distruzione e della
morte.
In mezzo c’è la sensualità, attività inafferrabile, in
perpetuo movimento, la ripetizione degli atti, seduzioni o coiti che
siano, come le copie di una fotocopiatrice. La sparizione delle
immagini, all’inizio dello spettacolo,
avviene in un totale silenzio. La fossilizzazione nel gesso annuncia
invece la fine
del dramma, e della musica. E’ la lettura kirkegaardiana del Don
Giovanni, quella che ci sembra di leggere
nello spettacolo di Castellucci. Ma è la lettura kirkegaardiana del
Don Giovanni una lettura che aderisca
alla lettera e al senso del dramma giocoso mozartiano? Certamente no.
Ma ciò nonostante resta una lettura che apre molte domande, che
affonda come poche nel corpo della musica di Mozart. E perché non
dovrebbe uno spettacolo, per esempio questo
immaginato da Castellucci, proporsi
anch’esso come un’interrogazione, un’indagine,
un’interpretazione che si stacca dal testo, lo guarda da una
prospettiva insolita, e magari proprio quando sembra allontanarsene
vi affonda dentro con rivelatrice intelligenza? E’ quello che fa
Romeo Castellucci, mi sembra.
Si è parlato di superfetazione, di drammaturgia sovrapposta. Ma
l’operazione di Castellucci è un’altra: assomiglia se mai a una
vivisezione. Certo che un corpo smembrato, eviscerato, scomposto,
appare diverso dal corpo integro prima della dissezione. Ma perché
non lo si dovrebbe fare? Perché la fedeltà al testo dovrebbe
escludere anche che lo si dissezioni, lo si legga da una diversa
prospettiva, da quella alla quale siamo abituati? Ammesso poi che le
realizzazioni che si vantano fedeli siano veramente tali. Brahms non
volle andare mai a vedere il Don Giovanni perché temeva di sentirlo
deturpato. Lo trascinarono a vedere una rappresentazione diretta da
Mahler e ne restò sconcertato e insieme
affascinato: è come l’ho sempre immaginato, sembra che abbia detto
uscendo dalla Staatsoper di Vienna. Magari
noi oggi resteremmo invece
spiazzati da quel Mozart mahleriano. Mahler leggeva tutti i
compositori come compositori a lui contemporanei. Ne modificava
perfino l’orchestrazione. E il suo Schumann ristrumentato è stato
a lungo eseguito nei concerti come il vero Schumann, il quale, a
dire di molti, non era un bravo
orchestratore. C’è voluto un altro
compositore, Leonard Berstein a restituirci
lo Schumann di Schumann e non di Mahler, l’orchestra
di Schumann come l’ha pensata Schumann:
che oggi ci appare incredibilmente moderno, così poco ortodosso
quanto a condotta strumentale (del resto quando scrive per pianoforte
non è meno rivoluzionario).
Allora dove stanno gli scandali per gli arbitri di Currentzis? La
dilatazione dei recitativi si coniuga perfettamente con la
dilatazione visuale di Castellucci. E questo conta in teatro. Chi
voglia ascoltarsi un Don Giovanni “come lo ha scritto Mozart”, si
chiuda a casa, si schiaffi due cuffie alle orecchie e ascolti, a
occhi chiusi, un cd. Vale a dire un Don Giovanni dimidiato,
tutt’altro, dunque,
da come lo ha concepito Mozart. Il primo interprete era un giovane di
23 anni e sembra che a Mozart piacesse molto come attore. La dice
lunga su come mettere in scena Mozart. Quanto
al nudo integrale, alla fine, se Don Giovanni è ingessato,
trasformato in una statua, le statue tragiche sono nude. E nudi i
morti di Pompei e di
Ercolano. Che poi Castellucci
pensasse anche alla tragedia greca lo mostra la maschera tragica che
Donna Anna tiene in mano e le nere furie che assalgono Don Giovanni
quando Donna Elvira canta le sue “furie”. Attentissimo,
Castellucci, al procedere della musica e alle parole dei personaggi.
Si è anche discusso su una generale insufficienza, sembra, degli
interpreti. E’ vero che nessuno è una Callas o un Kraus,
ma il cast è di una omogeneità teatrale e musicale ammirevole.
Tutti. Qui sotto l’elenco. Questa non è una recensione. Ma si è
mai visto un Don Giovanni più avvenente, più disinvolto di
Davide Luciano?
Un Leporello che più ambiguamente a specchio
riproducesse l’irrequietezza del seduttore, come Vito Priante? E si
è notato che entra in scena con livrea di servo, ma rovesciando la
giacca, il suo abito diventa uguale a quello di Don Giovanni, il suo
padrone? Dice infatti: “voglio fare il galantuomo / e non voglio
più servir”. O maschera più composta, quasi fissa, della maschera
tragica di Nadežda
Pavlova per Donna Anna? Federica Lombardi è una Donna Elvira che al
seduttore appare ormai incresciosa, fastidiosa, l’ingenuità con
cui si butta nelle braccia di Leporello accrescono l’ironia tragica
del personaggio, il suo spessore di donnetta piccoloborghese:
naturale che il seduttore se ne sia stufato. Mychael Spyres disegna
via via cone efficacia
l’inadeguatezza di un
pusillanime, che indossa vesti nobili
di crociato, di esploratore, ma resta una nullità. Ha tuttavia
cantato in maniera a dir poco mirabile le due arie, tra le più belle
mai scritte per un tenore. Perfetti i due contadini:
David Steffens, Masetto e Anna Lucia Richter, Zerlina. Mika Kares
l’imponente,
solenne Commendatore. Ma alla fine la statua non si vede, se ne ode
solo la terribile voce. Mentre sulla scena è Don Giovanni che
diventa una
statua di gesso. Ci
sarebbe molto altro da dire. Per esempio c’è
la gioia di vedere un teatro affollato. Ma per entrare
in teatro
ci voleva un green pass e tutti hanno dovuto indossare un mascherina.
Se ne facciano una ragione quanti ritengono queste misure una
limitazione della libertà. E
pensino invece al privilegio e alla libertà di vedere e ascoltare
questo Don Giovanni. Io
confesso che avrei avuto piacere a mescolami lì in mezzo al
pubblico, anch’io. Se
qualche rilievo si può fare allo spettacolo è, se mai, che appaia
troppo tragico. Si tratta in fondo di un “dramma giocoso”,
espressione che nel linguaggio teatrale del settecento indicava
l’opera comica, l’opera buffa, di l’espressione
dramma giocoso è
sinonimica.
Il termine dramma non conteneva nessuna allusione al
dramma, alla tragedia. Ed era contrapposto come genere all’opera
seria. Così come nel teatro parlato c’erano la tragedia e la
commedia, nel teatro musicale c’erano la tragedia, che era l’opera
seria, e la commedia, che aveva diverse denominazioni: opera buffa,
dramma giocoso, commedia per musica e così via. Il Don Giovanni ha
la struttura di un’opera buffa. Che contenga anche personaggi seri,
tragici, non desta meraviglia, avviene fin dall’inizio della storia
dell’opera. Il Flaminio di Pergolesi, opera buffa del 1735, ha
personaggi seri che cantano arie da melodramma serio. Non è dunque
Mozart il primo a mescolare le carte. Ciò che però è nuovo è il
continuo scivolamento da un piano all’altro. O addirittura la
coesistenza dei piani comico e tragico in
una stessa scena
come nella scena del cimitero. O
il coinvolgimento di personaggi tragici, seri, in situazioni comiche,
com’è
il caso di Donna Elvira, che giunge sempre in momenti inopportuni, e
dunque comici, a interrompere le azioni del seduttore. Questo lato
buffonesco, di risata, anche amara – faccia pure il cavaliero /
cavaliera ancora
te – manca quasi
del tutto
nello spettacolo di Castellucci. Ma è tradizione romantica, anche di
Kirkegaard, leggere il Don Giovanni come una vicenda tragica, in cui
si decide non solo il destino di un uomo, bensì il destino stesso
dell’umanità. Mozart è capace di dirlo anche ridendo. L’uomo
romantico – nonostante tutti suoi sproloqui sull’ironia,
Kirkagaard compreso – no. E forse nemmeno l’uomo di oggi. Chi sa
che non sia
proprio questo il messaggio di Castellucci.