Notturno schubertiano: il lungo lamento dei pavoni
Gli ultimi echi dei cantastorie e delle orchestrine del Prater erano
svaniti. I padiglioni, i caffè, gli Heuriger, e tutto il bosco
stavano immersi nel buio come nell’amplesso di un amante possessivo
e generoso. Lento e taciturno, ma invisibile, scorreva lì vicino il
Canale del Danubio. Sull’altra sponda del Canale, nel fioco
chiarore della notte primaverile, era appena calata un’esile e rada
cortina di foschia, attraverso la quale, come se la bucasse, si
slanciava lontano il campanile di Santo Stefano. La luna non era
ancora apparsa e il cielo, in quella bella e ormai tiepida stagione
dell’anno, sfavillava con un numero infinito e luminosissimo di
stelle. Ma nel parco, sotto le volte dei faggi e delle querce, il
buio appariva impenetrabile. Unico segno di vita, s’udiva di quando
in quando il lamento di una civetta. Un giovane passeggiava solitario
tra gli alberi, le mani conserte dietro la schiena, sui lombi
vistosi e robusti. Nella sua testa, mai tranquilla e sempre piena di
voci, di rumori, di suoni, di schiamazzi diurni e di gemiti notturni,
talvolta osceni, ma sempre bene accolti, rumoreggiava ancora il
brusio del salotto di Spaun1,
da cui s’era da poco congedato. Johann Michael2
aveva cantato il suo ultimo Lied, ma il giovane n’era rimasto
contrariato: perché tanto ardore nel canto? un entusiasmo
inopportuno e compromettente aveva rischiato di deturparne il
carattere di moderata e controllata esaltazione. Come non indovinare,
in quel canto spudorato, che dietro il volo di Ganimede rapito
dall’aquila potevano celarsi voli meno celesti? O l’indegno
mistificatore l’aveva fatto apposta, perché finalmente tutti
capissero? A Vienna sembrava che tutti fossero capaci di nascodere la
propria natura. Ma solo a Vienna? L’inaccostabile Goethe, nella
sua inaccessibile Weimar – non aveva risposto a nessuna delle sue
lettere, né espresso mai un giudizio, sia pure di disapprovazione,
sui Lieder che gli aveva spedito – Goethe, il sublime cortigiano,
l’instacabile pattinatore, l’amico inseparabile del giovanissimo
duca, non aveva talvolta anche lui mascherato turbamenti inconfessati
e forse inconfessabili? O perché allora cantare le angosce di un
bambino malato, l’estasi di un giovanetto rapito dal re degli dei?
Ma che andava pensando! Se proprio non si voleva chiudere le
orecchie, bisogna capirlo da sempre, per lui come per Goethe. Bastava
leggere i versi, ascoltare le melodie. L’angelo della morte, o chi
per lui, il dio virile dell’Ade, era un elfo: e la sua voce
tutt’altro che terribile, anzi suadente, tentatrice, seduceva e
provocava implacabili tumulti più della voce di qualunque ragazza.
“Io ti amo!” non l’avrebbe detto, infatti, in quel modo nessuna
ragazza. E perché poi tanta paura, bambino? Il suo amplesso,
l’amplesso di quell’angelo bellissimo, è più dolce
dell’amplesso con cui ora il buio della notte abbraccia desolato e
impenetrabile il Prater deserto. Non lo sapeva? Il sapore del suo
bacio, infido gnomo, dalle fattezze irresistibilmente seducenti,
avvelena il respiro, e attraverso la bocca scende giù nella gola,
invade lo stomaco, trapassa i polmoni, trafigge il cuore, devasta il
cervello, addormenta i dolori, per estrarre infine dall’inguine dei
giovanetti adescati e sottomessi una dolcezza che si vorrebbe
interminabile. Ci si sente morire in momenti come quelli. E si vuole,
anzi, morire. Sarà così che finisce la vita? Il terrore della fine
sarà dunque annacquato da una simile melassa di voluttà? E perché
non poteva dimenticare le voluttà interrotte, i connubi che avrebbe
voluto eterni e che erano invece durati lo spazio di poche stagioni?
A poco a poco sentì il rumore dei propri passi sull’erba. Strano,
ma prima non se n’era accorto. Come se calzasse scarpe di velluto e
scivolasse silenzioso sul raso di un copriletto, invece che sul
tappeto erboso del sottobosco profumato del Prater. Che sorpresa! I
suoi passi facevano rumore, avevano un suono, marcavano perfino un
ritmo. Cadevano come il piede di un verso classico: dattilo e
spondeo. La marcia di un corteo funebre, la musica della fine, di
qualunque fine. Anche dell’amore, così struggente, insinuante,
all’inizio, e poi così selvaggio, devastatore, prima che finisca.
Il suo quasi omonimo3,
l’angelo sterminatore, che nel fiore degli anni giovanili aveva
condiviso il suo stesso letto, lo sapeva che ignorarlo come non fosse
accaduto, raccattare i propri stracci e andarsene via, non serve a
niente? Sapeva che l’amante abbandonato continua a sospirare
l’amato assente come se stesse ancora accanto a lui e gli
stringesse ancora le mani? E allora ben vengano i sostituti, i
celliniani pavoni dalle piume variopinte, i loro dolcissimi
paupulamenti, che straziano le orecchie e sconquassano il cervello.
Ma che pensava? Ahimè! nessuna sostituzione, per quanto eccitante,
divertita, appagante, e follemente rapace, compensa mai la perdita
subita. Dopo la sua partenza, una volta constatata la solitudine del
misero alloggio, aveva lasciato apposta sporche per settimane, forse
addirittura per più di un mese, le lenzuola, pur di sentirne ogni
notte, ogni mattina, strofinandovi sopra il naso, l’odore
dell’amato ancora dolcemente appiccicato alla stoffa, come una
memoria materializzata. Si era deciso a lavarle solo quando ormai
l’odore del proprio corpo aveva sopraffatto e cancellato l’odore
dell’assente. Che ritornava a fare, adesso, lo spudorato seduttore,
dopo tanti anni? Ma davvero se n’era andato per far tacere i
pettegolezzi dei salotti viennesi, per salvare quanto restava
dell’onore di sua madre? Che vigliacco! L’onore, qualunque forma
di onore, non vale mai la soddisfazione reciproca del piacere, chi vi
rinuncia rimane sempre sconfitto. La battaglia d’amore non conosce
vincitori, ma solo vinti: chi lascia e chi è lasciato. Era perciò
scappato da se stesso? Voleva gridarlo in faccia a tutti quel
tradimento. Gli faceva solo paura che cosa ne avrebbe pensato
l’austero Beethoven. Ma anche lui, così intoccabile, così
esemplare, davvero non aveva niente da nascondere? La sua musica
sembrava confessare avventure diverse da quelle che l’uomo credeva
di raccontare. Ma quanti capivano, ascoltando, quei messaggi segreti?
Il rumore di altri passi lo distolse dai pensieri che lo
tormentavano, dai ricordi inaciditi che non riusciva a soffocare. Non
era del resto riuscito nemmeno a conciliare i piaceri perduti con la
vivacità di altri più freschi: il nuovo venuto non sopportava il
ritorno e l’irruzione dell’altro. E così, tra i due contendenti,
si trovava senza nessuno dei due. Come spiegare d’altronde al
figliol prodigo che la delicatezza dei lineamenti di Leopold4,
soprattutto l’arrendevolezza delle sue labbra, lo smarrimento
indifeso dei suoi occhi, lo ripagavano con sovrabbondanza dei furori
ingordi, ma inafferrabili, del corruttore? Già, il corruttore!
l’epiteto gli era stato affibbiato dalla madre del presunto
corrotto, che però gli perdonava tutto, perché lo amava proprio
così com’era: nessuna nuora, infatti, le sarebbe stata rivale. Ma,
come sempre, anche in questo, la povera donna, troppo innamorata di
suo figlio, per sopportarne l’abbandono, s’ingannava. E sarebbe
stata abbandonata, anche lei, nonostante fosse sua madre: prima per
un genero e poi per una nuora, il genere del sesso, in questi casi,
ha un’importanza relativa. Conta di più il possesso. Gli scappò
un sorriso maligno. I passi si avvicinavano. Si voltò.
“E che ci fai, qui?” esclamò.
Ebbe per risposta una risata.
“Quello che ci fai tu”, disse Joseph5.
“Tanto vale unire le forze; cerchiamo insieme?”
Prese l’amico sottobraccio e l’attrasse dove il bosco si faceva
più fitto.
Un civetta squassò la notte con un grido altissimo. Si udì il
battito del suo volo superare le loro teste. Franz si strinse
all’amico.
“Hai paura?” domandò Joseph.
“Più o meno quanta ne hai tu, ma non dei gufi o delle civette”.
“Di me, forse?” disse la voce di un ragazzo, alle loro spalle.
I due amici si voltarono. Un contadinotto di forse sedici anni, o
anche meno, li guardava, a gambe divaricate, sorridendo. Aveva due
grosse labbra tumide, capelli neri come la pece. Due grandi mani,
ruvide e screpolate, stavano appoggiate sul manico di un grosso
bastone nodoso, di quelli usati dai pastori per tenere in fila le
pecore. Si raddrizzò, dispose il suo bel corpo agile e snello quasi
sull’attenti e cominciò a giocare col bastone, passandoselo da una
mano all’altra, con un’aria che ai due amici parve quasi di
minaccia. Vestiva brache di pelle che non gli arrivavano al
ginocchio, tenute da due traversine sfilacciate. Ai piedi calzava una
specie di scarponi di vecchio cuoio rugoso, il cui colore era sparito
da tempo sotto gl’insulti della pioggia e del fango. La voce,
profonda, ma meravigliosamente morbida e sensuale, faceva uno strano
contrasto con l’apparente rozzezza della figura. Almeno questa era
la prima impressione, guardandolo nel buio del bosco. O forse rozzi
erano invece solo gli abiti. Non si poteva negare, infatti, a
guardarlo più attentamente, che il ragazzo mostrasse, nonostante la
rozzezza dei modi, un corpo slanciato e dalle proporzioni perfette.
Il suo corpo non era poco prima del resto apparso, e sia pure
attraverso l’oscurità notturna, come il corpo agile e snello di un
adolescente? Chi sa che effetto avrebbe fatto quel magnifico
monellaccio, tutto nudo, nel letto!
“Non abbiate paura”, soggiunse subito il giovanetto quando i due
amici fecero cenno di allontanarsi. “Forse è proprio uno come me
che venite a cercare in un posto come questo a quest’ora della
notte”.
Sorse improvvisamente la luna. Le idee dei due amici e l’opinione
che si erano fatta del pastorello si schiarirono, l’impressione di
rozzezza svanì, e i due fissavano con occhi attoniti e insieme
estasiati quel giovanissimo e bel Ganimede che la notte aveva
estratto dal suo cappello magico. Il giovanetto, appena un
adolescente, le guance ancora imberbi, era infatti tutt’altro che
rozzo e sgradevole. Le labbra tumide e carnose s’inserivano
armoniosamente in un viso dall’ovale quasi perfetto e due
bellissimi occhi neri fissavano i due amici con ammiccante dolcezza.
Il corpo era ben fatto, le gambe sode, ma non sgraziate, e i fianchi
piccoli e ben torniti. I due amici si guardarono e si scambiarono un
sorriso d’intesa.
“Inutile che vi chiediate a chi di voi due l’altro debba cedere
il regalo. Potreste anche condividerlo, se ne avete voglia”, disse
l’accattivante giovanetto, un miscuglio sbalorditivo e invitante di
pastorello arcadico e di terragno Papageno.
Si avvicinò. I due amici lo scrutarono e lo giudicarono all’istante
dalla testa ai piedi. Era veramente bello: una sorta di Ganimede
stiriano, o forse tirolese, restituito da Giove alla terra:
l’olimpico sovrano s’era, chi sa, impietosito del lamentoso
desiderio che gli uomini, defraudati per il capriccio di un dio, da
quello splendido tocco di disponibile adolescenza, alzavano fino a
lui, implorandolo di acquietare gl’insaziati appetiti. I due amici
non si lasciarono pregare.
Per un attimo, ma solo per un attimo, mentre tutti e tre giocavano
nudi nel letto, Franz si sorprese a desiderare che un altro giovane,
Leopold, anni prima, invece di sbattere la porta, fosse restato
insieme all’altro Franz, il quasi omonimo amante, con lui, tutti e
tre insieme nello stesso letto. Ma la tristezza dei ricordi sta
proprio nel fatto che i loro desideri non potranno mai avere un
seguito. Lasciano una striscia dietro di sé, nel tempo, prima di
scomparire, come il lungo lamento dei pavoni nello spazio, prima di
sprofondare nel silenzio. Accostò le labbra alle labbra del giovane
pavone, e cercò di dimenticare nel bacio il dolore di una
mutilazione che sanguinava ancora.
Monte Caminetto, Sacrofano, Roma, 12 - 15 febbraio 2010.
1
Josef von Spaun, 1788-1865, di Linz, compagno di studi nel Convitto.
Divenne il suo confidente e il suo consigliere fidato.
2
Johann Michael Vogl, baritono, si adoperò molto per far conoscere i
Lieder di Schubert. Era uno dei protagonisti e degli animatori delle
Schubertiadi.
3
Franz von Schober, 1796-1882. Fu l’amico più intimo di Schubert.
Era bellissimo, e usava la sua bellezza per sedurre uomini e donne:
tutti ne rimanevano stregati.
4
Leopold Kupelwieser, 1796-1862, pittore. Bellissimo, suscitò le
gelosie di Schober.
5
Josef Kenner, 1794-1868, poeta. Conobbe Schuberte nel Convitto.