giovedì 30 agosto 2018

François-Henri Désérable, Évariste






François-Henri Désérable, Évariste, roman, Paris, Gallimard, 2015, pagg. 172, € 16,90

Évariste Galois è un grande matematico francese, morto a 21 anni in un duello. S’immaginò perfino un complotto governativo per ucciderlo, perché soggetto pericoloso e sovversivo, corrotto da idee rivoluzionarie. Nei Nuovi annali dei matematici, editi dopo la rivoluzione di luglio e durante il governo provvisorio, si legge: “Galois venne assassinato il 31 maggio 1832 in un cosiddetto “duello d’onore’ provocato da spie della polizia segreta di Luigi Filippo” (voce Galois, della garzantina di Matematica). François-Henri Désérable ci costruisce sopra un romanzo. Aveva già scritto una sorta di horror rivoluzionario, Tu montreras ma tète au peuple (Gallimard, 2013), in cui dà voce alle teste dei decapitati della Rivoluzione Francese. Continua dunque a misurarsi con personaggi storici. Ma con il giovanissimo, e geniale, matematico, assume la prospettiva dell’ironia. 

 

Il romanzo è immaginato come un racconto fatto a una ragazza digiuna di matematica, mademoiselle. E lo scrittore stesso si dichiara tutt’altro che competente in materia. Ciò gli risparmia di entrare nei dettagli delle teorie matematiche di Galois. In particolare nella cosiddetta teoria di Galois, una teoria algebrica innovativa, che sta alla base del concetto di gruppo e d’insieme, dovuto proprio a Galois. Désérable lo paragona a Rimbaud. Precoce in matematica come Rimbaud in poesia. Ma è un peccato che lo scrittore non entri nei particolari dell’invenzione matematica di Galois. Sarebbe stato ottimo pretesto per la costruzione di splendide pagine di narrazione scientifica. Ma la narrazione non manca ugualmente di spirito. A cominciare dall’attacco: “On ne se méfie jamais assez de doigt. On a tort. / Il y a les doigts du Vieux, là-haut, qu’Il fit claquer pour se distraire, et je l’imagine lissant dans la foulée sa barbe blanche après que ses lèvres, figées dans une moue incrédule, eurent prononcé mezza voce le premier son de l’Univers: oups!” (pag. 13)

Divertente descrizione dell’atto con cui Dio crea l’universo. Tutta la narrazione procede più o meno su questo tono scanzonato, anche quando si racconta il duello, la morte. Sono citate le fonti, a documentare l’attendibilità della narrazione. Il romanzo, così, ha la forma, quasi di un monologo, e la scrittura qualcosa di teatrale. Il tono colloquiale è mantenuto per tutta la narrazione, come se Désérable diffidasse di alzare il tono, di affrontare un discorso tenuto sul registro sérieux. E tuttavia non mancano pagine bellissime, riflessioni anche profonde. Tutta una letteratura morale sembra, anzi, confluire in queste pagine, da La Rochefoucauld a Voltaire, da Pascal a Chateaubriand. Come questa, sulla felicità:

Chez lui, c’est Bourg-la-Reine et Bourg-la-Reine, c’est l’été. Le soleil blond dans l’azur, l’odeur du foin, la rivière, les tanches, les carpes et les brochets, les forêts noire, giboyeuses, lìocre et le rose des pavés des grès dans la Grand’Rue, les verts pâturages et les soirées au clair de lune, les matinés au lit à contempler les particules de poussière qui tournoient, vrillent dans le rai de lumière s’engouffrant â travers les rideaux. Mais après l’été il y a l’automne, et en automne la rentrée. Nouveau chapeau, nouveaux souliers, retour à Louis-le-Grand où je crois pouvoir dire qu’il ne fut pas heureux. Le fut-il ne serait-je qu’une seul fois dans sa vie, et s’il le fut, la sut-il jamais? Le bonheur, il me semble, est rétrospectif, il s’éprouve a posteriori, se conjugue à l’imperfait, de sorte qu’il n’est plus facile, plus naturel de dire j’étais heureux que je suis heureux”.

Come si potrà notare la cifra stilistica è alta, ma mantenuta su un tono colloquiale. Désérable deve nutrire una passione per i personaggi storici. Gli altri libri finora pubblicati sono, come si è detto, una serie di quadri della Rivoluzione francese: Tu montreras ma tête au peuple e Un certain M. Pienkielny (Gallimard, 2017). Ricostruzione fantasiosa di un personaggio di Vilnius.

Il romanzo si legge d’un fiato. Ma senza che sul mistero della morte di Galois si faccia luce. Molto vivace la rappresentazione della Parigi degli anni ‘30 del secolo XIX. Le pagine dedicate al collegio sono, però, forse le migliori.

La scena del tentativo di stupro è magnifica. Magnifico il linguaggio: “… elle ne bouge pas, ne bouge plus, elle reste là, prostrée, bête traquée qui ne sait pas où s’enfuir, allors d’une main vous revelez son jupon et de l’autre vous saisissez le petit appendice volcanique qui vous brûle en bas du ventre mais dejà c’est l’éruption de lave blanche et sa robe, les milles raies, sa peau d’albâtre, l’amour et les étoiles là-haut dans le ciel bleu de Prusse, tout cela es souillé”.

Fiano Romano, 30 agosto 2018


venerdì 24 agosto 2018

Bagatelle shakespeariane

 


Bagatelle shakespeariane

Noterelle volanti su due romances di Shakespeare, Pericles, Prince of Tyrus e Cymbeline.


O Helicanus, strike me, honour'd sir;
Give me a gash, put me to present pain;
Lest this great sea of joys rushing upon me
O'erbear the shores of my mortality,
And drown me with their sweetness. O, come hither,
Thou that beget'st him that did thee beget;
Thou that wast born at sea, buried at Tarsus,
And found at sea again! O Helicanus,
Down on thy knees, thank the holy gods as loud
As thunder threatens us: this is Marina.
What was thy mother's name? tell me but that,
For truth can never be confirm'd enough,
Though doubts did ever sleep.

E’ il riconoscimento finale di padre, figlia, moglie nel Pericles, Prince of Tyre di Shakespeare.

Piano a parlare di opera confusa! E’ lo specchio della confusione della vita, che solo il Racconto d’inverno e La tempesta – in parte, solo in parte – rischiareranno. In mezzo quella sorta di sintesi di tutto il teatro shakespeariano che è il Cymbeline, e la misteriosa avvolgente figura di Imogene, può darsi la Grazia: arbitraria, ma costante, quanto la gioia e il dolore. I primi cinque versi pronunciati qui dal vecchio Pericle toccano il sublime dei sonetti e di certe uscite di Lear.

C’è una traduzione di Giorgio Albertazzi, pubblicata da Newton Compton, in Shakespeare, Tutto il teatro, 2 voll., abbastanza fedele, scritta per una regia del Pericles allestita da Giancarlo Cobelli. Il ritmo, in Shakespeare, che sia verso o prosa, è essenziale. La parola teatrale, ma anche poetica, di Shakespeare, ha il vibrare del respiro umano. Può innalzarsi fino all’urlo, all’ululato (Howl, howl, howl, howl! di Lear), ma spesso si attenua fino al rantolo:

I kiss’d thee ere I kill’d thee: no way but this,
Killing myself, to die upon a kiss (Othello).

e scompare.

In margine: impossibile rendere in italiano l’allitterazione e la consonanza di kill/kiss. E la rima this/kiss.

La traduzione che Albertazzi conduce del Pericles è teatralissima, pensata per la voce e non per la lettura, e cerca di restituire questo ritmo. Ma la diversità delle due lingue finisce per avere la meglio.

For truth can never be confirm'd enough, commenta Pericle, prima di arrendersi al riconoscimento della figlia. Sembra il sigillo di tutto il suo teatro.

Sta qui, infatti, il nodo di tutta la vicenda, il senso profondo del dramma. La magia dissolve l’apparenza della morte, Thaisa può risorgere, quasi miracolosamente, ma nessuna magia non può spiegare il dolore, la sofferenza, le vicissitudini del caso. E tanto meno il non vedere ciò che vediamo o, peggio, vedere ciò che non vorremmo vedere, come Troilo, in “Troilo e Cressida”, o Giulia, nei “Due gentiluomini di Verona”. Il mare della felicità, this great sea of joy, c’inonda quando vuole, e non sempre. Più spesso ci succhia il baratro del grido, o ci spegne lo smorzarsi del rantolo.



Shakespeare è un drammaturgo che conosce i pensieri e i sentimenti delle folle meglio di chiunque altro. Analizza la lotta dei potenti con spietata lucidità. Ma sa guardare anche i sottomessi. E il ritratto che ne disegna non è confortante. Anzi. Basterebbero le due scene – stupende! - del discorso di Bruto e poi di Antonio ai Romani, nel Giulio Cesare, e ancora più quella specie di elemosina dei voti, una parodia di comizio elettorale, che è la scena in cui Coriolano, nella tragedia omonima, chiede ai Romani di eleggerlo console. Non a caso – più che nella storia inglese – Shakespeare analizza questi meccanismi collettivi nei drammi romani. La storia di Roma fu, nel Cinquecento – e non solo in Italia, si pensi alle mirabili pagine di Montaigne (che Shakespeare probabilmente conosce) – il banco di prova e di conferma delle più diverse e opposte teorie politiche.

Machiavelli non era noto in Europa solo per il frainteso, e più spesso ipocritamente frainteso, Principe, ma anche per i Discorsi sulla prima deca di Tito Livio. E’ probabile che Shakespeare, per lettura diretta o indirettamente, citati da altri, li conoscesse. Machiavelli è oggetto di ammirazione e riprovazione insieme, e non solo in Inghilterra; il suo nome, in inglese Nick, diventa il nome del diavolo. Auden lo immortala quando chiama Nick Shadow il diavolo, nel bellissimo libretto della Carriera di un libertino che scrive per Stravinsky. Il famoso monologo di Enrico V, prima della battaglia, analizzato mirabilmente da Auerbach in Mimesis, è la sintesi di una lunga tradizione sulla caducità della gloria dei potenti. Ma è shakespeariana la lucidità con cui un re esamina la fragilità del proprio potere. Ora, una lucidità simile, ma da parte del sottomesso, manifesta Guiderio, nel Cimbelino. In realtà Guiderio è figlio di Cimbelino, ma non lo sa. Crede, anzi, di essere un povero contadino, che vive in una caverna e si sfama con la caccia. Ecco il passo in cui descrive la vita dei sottomessi:

GUIDERIUS.
Out of your proof you speak. We, poor unfledg'd,
Have never wing'd from view o' th' nest, nor know not
What air's from home. Haply this life is best,
If quiet life be best; sweeter to you
That have a sharper known; well corresponding
With your stiff age. But unto us it is
A cell of ignorance, travelling a-bed,
A prison for a debtor that not dares
To stride a limit.

Non abbiamo mai volato fuori dalla vista del nido, né sappiamo che aria ci sia lontano da casa. Un tempo la si sarebbe chiamata maggioranza silenziosa. Oggi è il popolo della Lega e del Movimento Cinque Stelle. Della Brexit e di Vysegrad. Di Trump. But unto us it is / A cell of ignorance. Ma per noi è una cella d’ignoranza. Non sapessimo che il passo è stato scritto quattro secoli fa, diremmo che l’ha scritto un drammaturgo contemporaneo.

Il lieto fine è una convenzione teatrale. Nella vita è rinviato di generazione in generazione. Come l’inno alla libertà che chiude il Fidelio. Perché siamo a teatro. Nella vita, Florestano sarebbe stata eliminato. Nessuna moglie avrebbe potuto salvarlo. Shakespeare negli ultimi drammi ci dice qualcosa di simile. Il teatro è lo spazio della fantasia, del sogno, della fiaba. Quella che Lear spera di raccontare alla figlia. E che Prospero dissolve con un colpo di bacchetta. Strano, cupo dramma questo Cimbelino, nonostante il suo finale riconciliatore, in cui tutte le contraddizioni si sanano, i malvagi sono puniti o si pentono dei propri crimini.

La notte dell’Epifania del 1531 l’Accademia degli Intronati di Siena mette in scena una commedia anonima, frutto di qualche accademico, o della collaborazione di più accademici, che ha per titolo Gli Ingannati. E’ una commedia bellissima, nella quale il travestimento di una giovane, Lelia, in giovane gentiluomo - si fa chiamare Fabio - ha un ruolo decisivo per lo svolgimento dell’intricato intreccio. Shakespeare ne trasse il plot della sua commedia intitolata Twelfth Night, or What You Will, che è poi la notte dell’Epifania.

Anche in questa commedia il travestimento ha un ruolo decisivo. L’ambiguità amorosa, già intensa e ricca di equivoci nella commedia italiana, è accresciuta dal fatto che nel teatro elisabettiano i ruoli femminili sono ricoperti da ragazzi ancora imberbi. Senza essere nominato, l’amore omoerotico vi ha un rilievo enorme, con accenti che assomigliano a quelli dei sonetti. In un personaggio è poi dichiarato senz’ambiguità: Antonio, il capitano albanese che salva Sebastiano, fratello di Viola, la quale, travestita da ragazzo, assomiglia come una goccia d’acqua al fratello Sebastiano, e fa innamorare di sé Olivia, mentre lei s’innamora di Orsino, l’equivoco è perciò duplice, amata da una donna perché la crede un uomo, innamorata di un uomo, al quale così travestita da uomo, non può dichiararsi. Ma è commedia troppo famosa, per riassumerne qui la vicenda.

Sbarcati sulla costa dove, a insaputa di Sebastiano, c’è sua sorella Viola, Antonio, congedato dal giovane, non riesce a staccarsi da lui, perché ne è irresistibilmente e focosamente attratto, e pronuncia queste parole:

The gentleness of all the gods go with thee!
I have many enemies in Orsino's court,
Else would I very shortly see thee there.
But, come what may, I do adore thee so,
That danger shall seem sport, and I will go.

Twelfth Night, II, 1

Dopo di che, esce al suo inseguimento. E rischierà perfino la vita, per restargli accanto.

Nel Cimbelino abbiamo il travestimento di Imogene. E due giovani fratelli s’innamorano di lei, nonostante o proprio perché lo credono un ragazzo, che appare a loro di divina bellezza. Ecco la scena:

GUIDERIUS
I love thee; I have spoke it.
How much the quantity, the weight as much
As I do love my father.
BELARIUS
What? how? how?
ARVIRAGUS
If it be sin to say so, sir, I yoke me
In my good brother's fault. I know not why
I love this youth, and I have heard you say
Love's reason's without reason. The bier at door,
And a demand who is't shall die, I'd say
‘My father, not this youth.'

Cymbeline, IV, 2

Si scoprirà poi che i due giovani sono in realtà figli di Cimbelino e non, come credono, di Belario, e sono fratelli dunque di Imogene. Ma intanto Shakespeare si è lanciato in uno dei passi più lirici di tutto il dramma, con accenti, appunto, che ricordano i sonetti. Il travestimento gli permette di oltrepassare i limiti di genere per rappresentare l’amore come universale attrazione di tutti per tutti: Love's reason's without reason. Come dice, sentendone le forza, Arvirago.

Sul filo di questo incantamento, i personaggi sembrano, proprio attraverso questi stati in cui li vediamo uscire fuori da sé, riconoscere la propria natura. Un sogno, in cui compaiono suo padre e sua madre, e infine Giove stesso, rivelerà a Postumo che Imogene, sua moglie, è viva. Il pentimento di Iachimo, la confessione della regina, avvengono come per opera di una trance. Tutto è sospeso in una sorta d’irrealtà, gli dei giocano con il nostro destino, gli orrori della guerra sono sorvolati dalla magnanimità di amicizie che scavalcano gli schieramenti e il nemico si confonde con l’amico. Tutto, appunto, è sospeso come in un sogno. L’ultimo Shakespeare sembra rievocare le commedie giovanili. E non soltanto la famosissima che nomina il sogno anche nel titolo, ma addirittura la prima, Love’s Labour’s Lost (si noti l’allitterazione), Pene d’amor perdute. Commedia che ha un finale spiazzante: un messaggero annuncia alla figlia del Re di Francia che suo padre è morto. E’ come se la realtà irrompesse all’improvviso e interrompesse un sogno. E non si può non ammirare la libertà e l’arditezza di Shakespeare che conclude così tristemente una commedia, come se ne infrangesse le regole. Del resto, anche Cymbeline, che cos’è? Commedia, tragedia, dramma storico? La tradizione lo inserisce tra le tragedie. Ma e le commedie cosiddette “nere”? Misura per misura, Tutto è bene quel che finisce bene, e in fondo anche I due gentiluomini di Verona. Shakespeare sta stretto nei confini di un genere. In questo aspetto di libertà strutturale, trova un mondo speculare nel teatro spagnolo del siglo de oro, nel quale, anche, i confini di genere sono labili. Tant’è vero che poi in spagnolo la parola “comedia” ha finito con il denotare qualunque spettacolo teatrale, un po’ come l’inglese “play”. La vita è sogno di Calderón de la Barca sta sospeso tra tragedia e commedia. E, come in Shakespeare, i confini tra vita e sogno sono fluidi, mutevoli, oltrepassati e percorribili. Per non parlare del Don Chisciotte, romanzo che contende a Shakespeare l’analisi lucidissima dell’inafferrabilità della vita. Ecco, sbaglierebbe chi volesse leggere in questi aerei versi che accennano a un’attrazione omoerotica, un deciso stigma di omosessualità. Shakespeare è più ambiguo, più sfuggente. Anche l’amore fugge, infatti, le regole. Può in un attimo trasformarsi in odio. O rivelare un’attrazione per l’altro come specchio di sé stesso. E allora, più che di omoerotismo, bisognerà parlare non tanto di narcisismo – anche -, quanto di denudamento del lato nascosto di ciascuno, di svelamento della natura fondamentalmente amorale di qualunque amore: il Pericles comincia con l’enigma svelato di un incesto, tra un padre e una figlia. L’orrore che ne prova il giovane Pericles, scoprendolo, è annichilito dalla naturalezza con cui invece la figlia lo vive. La realtà di un bordello, in seguito, non è meno deprecabile, e offende, anzi, più profondamente la donna. Ma stiamo scivolando su un terreno ambiguo quanto la poesia di Shakespeare. E’ tuttavia proprio questa ambiguità a svelarci quei segreti della vita che non osiamo confessare nemmeno a noi stessi. E ciò che desta più meraviglia è la leggerezza con cui Shakespeare ce li svela.

Fiano Romano, 23 - 24 agosto 2018



lunedì 6 agosto 2018

L'Idea d'Italia unita

L’IDEA D’ITALIA UNITA


L’Italia, come paese unito, è esistita per pochi intellettuali, che non sono mai riusciti a comunicare la loro idea di paese al paese reale, da Dante a Petrarca a Machiavelli a Leopardi a Manzoni (i versi di Marzo 1821 “Una d’arme, di lingua, d’altare, / Di memorie, di sangue e di cor” sono un’amorosa menzogna) a Gobetti a Gramsci ai combattenti della Resistenza, ai Presidenti della Repubblica Pertini e Ciampi (l’elenco è solo indicativo, sono molti di più!).

Gli scrittori, gli intellettuali, i politici visionari non hanno comunicato nemmeno la lingua, che solo con l'avvento della televisione è diventata una lingua comune, naturalmente bastardissima, e aspetta ancora uno scrittore che la promuova a lingua letteraria. Gli scrittori, per ora, scrivono in una lingua che non c'è se non nel loro ricordo letterario. Mi ci comprendo anche io. Siamo un po' tutti come il grandissimo storico Ammiano Marcellino, che, lui di lingua greca, sceglie di scrivere in latino, ma scrive in una lingua che ha per modello la lingua di Tacito quando Tacito non lo si leggeva più nemmeno a scuola. Posso sentirmene il cuore spezzato, eppure dall'altra parte una parte di me gode degli orizzonti che possa aprire questa bellissima lingua immaginaria. Uno dei passi della Commedia che più mi commuovono è l'incontro con Bertran de Born, nella bolgia dei seminatori di discordia, e il poeta provenzale si rivolge a Dante con la propria testa separata dal tronco tenuta per i capelli con la mano destra.

Io vidi certo, e ancor par ch'io 'l veggia,
un busto sanza capo andar sì come
andavan li altri de la trista greggia;
e 'l capo tronco tenea per le chiome,
pesol con mano a guisa di lanterna:
e quel mirava noi e dicea: «Oh me!».
Di sé facea a sé stesso lucerna,
ed eran due in uno e uno in due;
com' esser può, quei sa che sì governa.
Quando diritto al piè del ponte fue,
levò 'l braccio alto con tutta la testa
per appressarne le parole sue,
che fuoro: «Or vedi la pena molesta,
tu che, spirando, vai veggendo i morti:
vedi s'alcuna è grande come questa.
E perché tu di me novella porti,
sappi ch'i' son Bertram dal Bornio, quelli
che diedi al re giovane i ma' conforti.
Io feci il padre e 'l figlio in sé ribelli;
Achitofèl non fé più d'Absalone
e di Davìd coi malvagi punzelli.
Perch' io parti' così giunte persone,
partito porto il mio cerebro, lasso!,
dal suo principio ch'è in questo troncone.
Così s'osserva in me lo contrapasso».


Al feroce "contrappasso" di Berntran fanno da contrappeso gli incontri con Arnaut Daniel, il “miglior fabbro del parlar materno”, nel Purgatorio, e Folchetto di Marsiglia, nel Paradiso. Arnaldo si rivolge a Dante in provenzale, citando l'attacco di una canzone di Folchetto. Era stato il modello delle rime più aspre dello stesso Dante (le cosiddette rime petrose), che lo ammirò per tutta la vita, e tesse l'elogio del suo alto stile nel De vulgari eloquentia.

Tan m'abellis vostre cortes deman,
qu'ieu no me puesc ni voill a vos cobrire.
Ieu sui Arnaut, que plor e vau cantan;
consiros vei la passada folor,
e vei jausen lo joi qu'esper, denan.
Ara vos prec, per aquella valor
que vos guida al som de l'escalina,
sovenha vos a temps de ma dolor!
[Tanto cortese e grato 'l dimandare,
non voglio né mi posso a voi celare.
Io son Arnaut, e piango, nel cantare;
folle in passato, adesso triste in cuore
guardo a future gioie, da sperare.
Ora vi prego, in nome del valore
che vi porta su, in vetta allo scalare,
non vi scordate allor del mio dolore!]


ma quanto è bello il provenzale di Dante! Di un’intensità inaudita, fa ricordare, in termini rovesciati, i versi di Francesca (Nessun maggior dolore ecc.) quel “consiros vei la passada folor”, pensieroso vedo la passata follia). Francesca ricorda il proprio amore nella disperazione della condanna eterna, Arnaldo lo guarda come cosa folle e lontana dalla serenità della sua beatitudine celeste. La Commedia è piena di questi rimandi, di queste speculari situazioni, in cui si rappresenta l’inestricabile complessità della vita.
Ecco, perfino il poeta che più di ogni altro si è sforzato d'inventare una lingua la più vicina possibile alla lingua parlata dalle persone colte (solo di queste Dante si occupa) è poi costretto a muoversi tra lingue scomparse, il latino, il provenzale, per trovare il proprio modello non lessicale ma stilistico. Sta ancora racchiuso là dentro il dramma di tutti gli scrittori che scelgono di scrivere in italiano. Oggi il panorama si allarga: quanto a me, non posso fare a meno del francese, dell’inglese, del tedesco, dello spagnolo, come modelli di scrittura. Pur troppo non conosco il russo e ignoro le lingue orientali (il mio studio del sanscrito si è fermato alla decifrazione dell'alfabeto).

Fiano Romano, 6 agosto 2018

mercoledì 1 agosto 2018

Angela Di Maso, Teatro



Angela Di Maso, Teatro, prefazione di Pupi Avati, introduzione di Enzo Moscato, Napoli, Guida editori, 2017, pagg.244, € 18,00

La riflessione sul teatro è vissuta a lungo in Italia sull’equivoco di considerare teatro soprattutto la sua elaborazione letteraria. Goldoni, Alfieri, lo stesso Pirandello sono studiati sul testo. Raramente si tiene presente, invece, la loro novità ed efficacia drammaturgica. Anche la gloriosa Storia del Teatro Drammatico di Silvio d’Amico (Milano, Garzanti, 1970, ma la prima edizione è del 1939) è una storia dei testi. Suppliscono, ma solo in parte, l’Enciclopedia dello Spettacolo, curata sempre da Silvio D’Amico, dal 1954 al 1957i, e l’ottima collana della Laterza, Storia del Teatro e dello Spettacolo, affidata a vari autori. Ma il teatro non è pienamente realizzato dal testo così come la musica non lo è dalla partitura. Il teatro vive nella rappresentazione, la musica nell’esecuzione, fossero pure rappresentazioni ed esecuzioni mentali di chi legge. Ciò non significa sottovalutare il valore letterario dei testi di un Sofocle, di uno Shakespeare, di un Racine o Lope de Vega. Significa, più realisticamente, che quel valore letterario è al servizio di una rappresentazione, di un’esecuzione. La bellezza, anche poetica, sovrana, del famosissimo monologo di Amleto, non si comprende appieno, non se ne coglie appieno proprio la poesia, se lo s’immagina fuori dal contesto, isolato dalla vicenda drammatica, e senza il corpo della voce di un attore. Ma accade lo stesso anche per il teatro iperletterario di Alfieri, che però resta innanzi tutto teatro, e le volte che lo si mette in scena dimostra una sapienza drammaturgica scaltrita. Non a caso nei “pareri” che pubblica in calce alle proprie tragedie, Alfieri si sofferma soprattutto sulla costruzione drammaturgica dell’azione e quasi mai sull’eloquio poetico dei personaggi, salvo quando vuole mettere in rilievo che l’asprezza del linguaggio corrisponde all’asprezza del dramma rappresentato. Su questo equivoco letterario cascano anche coloro che pensano che il dramma wagneriano sia il libretto e la musica la realizzazione di quel dramma. Niente di più sbagliato: il dramma, per Wagner, è la rappresentazione, e testo, musica, scene, coreografie (recitazione) vi contribuiscono in pari modo. Solo negli ultimi anni comincia a pensare che la musica abbia una prevalenza sul resto, ma sempre in previsione della rappresentazione. Allora, però, stava già lavorando al Parsifal, e il suo teatro, da rappresentazione del “puro umano” tende a diventare liturgia dell’esistere, sacra rappresentazione del male che affligge il mondo e del modo con cui esserne redenti.

Questa lunga premessa per chiarire l’ambiguità in cui si trova chi debba giudicare il teatro di un drammaturgo dalla sola lettura dei suoi testi. Com’è il caso di questo Teatro di Angela Di Maso, pubblicato da Guida. Sono dieci pezzi. Cinque atti unici, due monologhi e tre corti.
A una prima lettura, ciò che immediatamente colpisce è l’uso scenico del linguaggio . Sono mimate anche locuzioni correnti, è registrato l’abuso di stereotipi concettuali e linguistici (per esempio “problematiche” al posto di “problemi”), ci si scontra talora con frasi solo in apparenza inutilmente contorte o prolisse, ma che bene definiscono lo spessore del personaggio. Bisognerà controllarne l’efficacia sulla scena. Il fastidio che se ne possa sentire leggendo nasce da un’idea letteraria del testo teatrale, come s’è detto sopra. Da quest’idea sono state mosse le critiche alla lingua, per esempio, di Pirandello. E prima ancora, di Goldoni. Ma sia Goldoni, sia Pirandello, portano sulla scena la lingua che realmente parlavano gli italiani colti del momento, non una lingua letteraria centellinata dagli accademici della Crusca. E lo stesso fa Angela D Maso. Anzi, raramente i suoi personaggi appartengono alla classe colta. Sono piccoli borghesi e spesso anzi proletari o sottoproletari quasi analfabeti. In un corto, L’alluce, è usata la parlata napoletana. Straordinaria! Ci troviamo tra costruttori di bare. Di Maso dovrebbe confrontarsi più spesso con questa lingua, e scrivo lingua e non dialetto, perché il napoletano, come il veneziano o il milanese, è una lingua che ha alle spalle secoli di tradizione letteraria.

L’altro aspetto che colpisce, di questo teatro, è non solo la sua violenza verbale, ma la violenza reale dei fatti o rappresentati o narrati dai personaggi, l’ossessione del sesso, la frequenza degli abusi, dell’incesto, non come atti che destino orrore, bensì come quotidiana realtà della vita. Immagino che molti si opporranno a questa rappresentazione così esasperata della violenza sessuale nelle famiglie, nei conventi, nei luoghi di lavoro. L’obiezione sarà: Ma via! Non è così diffusa come sembra, è un’idea malata dell’autrice, la società italiana è migliore di queste spaventevoli rappresentazioni di stupri, omicidi e incesti. Omnia muda mundis, direbbe Fra’ Cristoforo. Uno dei peggiori difetti della società italiana è proprio il suo rifiuto di guardarsi, analizzarsi, rappresentarsi. E’ un difetto antico. L’italiano non ama confrontarsi con l’orrore. Ama la misura, l’armonia, la concordia. Nei momenti più alti l’arte italiana ha regalato capolavori inimitabili di questo bisogno di armonia, di bellezza. Sono pochi gli artisti che guardano il male, il brutto, l’orrore, come fanno l’arte tedesca, fiamminga, spagnola (Saturno che divora i suoi figli, di Goya, è un dipinto che un pittore italiano non riuscirebbe mai a immaginare). Naturalmente esistono le eccezioni: Michelangelo, Caravaggio, l’ultimo Tiziano (lo scuoiamento di Marsia!). Ma appunto, sono eccezioni, La regola è Raffaello. Anche nell’immaginario mondiale l’arte italiana è Raffaello (ultimamente c’è in atto una rivisitazione di Caravaggio, e ho paura che finiranno per distruggere la sua carica dirompente, per inquadralo, anche lui, nella regola della “bellezza”). Ecco, Angela di Maso ha scelto, invece, di guardarlo in faccia l’orrore della odierna società italiana e di portarlo sulla scena. Non è compiacimento, ma volontà di superarlo, di uscirne. Con una profonda pietà per questi stupratori, assassini, padri incestuosi e madri che assistono senza ribellarsi al crimine perpetrato sui figli figli da mariti padroni e violenti. Il crimine nasce da una sofferenza che non ha altro sbocco, appunto, che il crimine. E non ci s’immagini che ciò accada solo nelle fasce disagiate della popolazione. L’incesto, nelle famiglie italiane, è più diffuso di quanto si creda. Anche nella borghesia. Anche, e forse soprattutto, nell’alta borghesia. Mia madre era assistente sociale e aveva dovuto affrontare più di un caso. E diceva che dei poveri, degli emarginati si sa, viene alla luce, perché non hanno né denaro né potere per metterlo a tacere. Uno dei film meno riusciti di Visconti toccava proprio questo tema, Vaghe stelle dell’Orsa. Probabilmente il film non è pienamente centrato proprio perché il regista se ne sentì eccessivamente coinvolto. Non per qualcosa di simile che avesse compiuto, ma per il tema stesso, che ancora oggi, solo a nominarlo, fa paura.

I dieci pezzi teatrali si leggono d’un fiato e viene voglia di vederli rappresentati. Un solo rilievo – che oggi, vista la sua diffusione anche nelle pubblicazioni di Case Editrici più rinomate, non desta troppo stupore – ed è questo: la stampa soffre di moltissimi, veramente troppi, più del sopportabile, refusi. Inoltre, qualche volta, i segni d’interpunzione sembrano casuali, e non credo che se debba incolpare l’autrice.
Infine, non si capisce perché i titoli dei brani musicali siano in genere scritti in inglese, anche Vivaldi, anche Bach. Sembrano i track di un cd.

Due importanti figure dello spettacolo rendono omaggio alla pubblicazione di questi pezzi teatrali, Pupi Avati con una prefazione, e Enzo Moscato con una introduzione. Da condividere tutto ciò che scrivono. Soprattutto la bellissima citazione da Alberto Savinio: “Il teatro deve ridarci in parole e gesti la spaventosa ricostruzione di noi stessi. Esso deve rappresentare la nostra coscienza parlante. Difficilissima da sopportare”. La catarsi di cui parla Aristotele è proprio questa: riconoscere nella rappresentazione il male di cui noi stessi siamo responsabili.

Non ultimo vanto di questi testi è che già la sola lettura fa immaginare la rappresentazione. Che ci si augura diffusa e frequente.

Ad Angela Di Maso verrà conferito, il prossimo 30 agosto, a Sirolo, nelle Marche, il Premio Nazionale Franco Enriquez 2018.

Fiano Romano, 1 agosto 2018