Bagatelle
shakespeariane
Noterelle
volanti su due romances
di Shakespeare, Pericles,
Prince of Tyrus
e Cymbeline.
O
Helicanus, strike me, honour'd sir;
Give
me a gash, put me to present pain;
Lest
this great sea of joys rushing upon me
O'erbear
the shores of my mortality,
And
drown me with their sweetness. O, come hither,
Thou
that beget'st him that did thee beget;
Thou
that wast born at sea, buried at Tarsus,
And
found at sea again! O Helicanus,
Down
on thy knees, thank the holy gods as loud
As
thunder threatens us: this is Marina.
What
was thy mother's name? tell me but that,
For
truth can never be confirm'd enough,
Though
doubts did ever sleep.
E’
il riconoscimento finale di padre, figlia, moglie nel Pericles,
Prince of Tyre di Shakespeare.
Piano
a parlare di opera confusa! E’ lo specchio della confusione della
vita, che solo il Racconto d’inverno e La tempesta –
in parte, solo in parte – rischiareranno. In mezzo quella sorta di
sintesi di tutto il teatro shakespeariano che è il Cymbeline,
e la misteriosa avvolgente figura di Imogene, può darsi la Grazia:
arbitraria, ma costante, quanto la gioia e il dolore. I primi cinque
versi pronunciati qui dal vecchio Pericle toccano il sublime dei
sonetti e di certe uscite di Lear.
C’è
una traduzione di Giorgio Albertazzi, pubblicata
da Newton Compton, in
Shakespeare, Tutto il
teatro,
2 voll., abbastanza
fedele, scritta per una
regia del Pericles
allestita da Giancarlo Cobelli.
Il
ritmo, in Shakespeare, che sia verso o prosa, è essenziale. La
parola teatrale, ma anche poetica, di Shakespeare, ha il vibrare del
respiro umano.
Può innalzarsi fino all’urlo, all’ululato (Howl, howl, howl,
howl!
di Lear),
ma spesso si attenua fino
al rantolo:
I
kiss’d thee ere I kill’d thee: no way but this,
Killing
myself, to die upon a kiss (Othello).
e
scompare.
In
margine: impossibile rendere in italiano l’allitterazione e la
consonanza di kill/kiss. E
la rima this/kiss.
La
traduzione che Albertazzi conduce del Pericles è teatralissima,
pensata per la voce e non per la lettura, e cerca di restituire
questo ritmo. Ma la diversità delle due lingue finisce per avere la
meglio.
For
truth can never be confirm'd enough, commenta
Pericle, prima
di arrendersi al riconoscimento della figlia. Sembra
il sigillo di tutto il suo teatro.
Sta
qui, infatti,
il nodo di tutta la vicenda, il senso profondo del dramma. La magia
dissolve l’apparenza della morte, Thaisa
può risorgere, quasi miracolosamente,
ma nessuna
magia non
può spiegare il dolore, la sofferenza, le vicissitudini del caso. E
tanto meno il non vedere ciò che vediamo o, peggio, vedere ciò che
non vorremmo vedere, come Troilo, in
“Troilo e Cressida”,
o Giulia,
nei “Due gentiluomini di Verona”. Il
mare della felicità, this great sea of joy, c’inonda quando vuole,
e non sempre. Più
spesso ci
succhia
il baratro del grido, o ci
spegne lo
smorzarsi del rantolo.
Shakespeare
è un drammaturgo che conosce i pensieri e i sentimenti delle folle
meglio di chiunque altro. Analizza la lotta dei potenti con spietata
lucidità. Ma sa guardare anche i sottomessi. E il ritratto che ne
disegna non è confortante. Anzi. Basterebbero le due scene –
stupende! - del discorso di Bruto e poi di Antonio ai Romani, nel
Giulio Cesare, e ancora più quella specie di elemosina dei
voti, una parodia di comizio elettorale, che è la scena in cui
Coriolano, nella tragedia omonima, chiede ai Romani di eleggerlo
console. Non a caso – più che nella storia inglese – Shakespeare
analizza questi meccanismi collettivi nei drammi romani. La storia di
Roma fu, nel Cinquecento – e non solo in Italia, si pensi alle
mirabili pagine di Montaigne (che Shakespeare probabilmente conosce)
– il banco di prova e di conferma delle più diverse e opposte
teorie politiche.
Machiavelli
non era noto in Europa solo per il frainteso, e più spesso
ipocritamente frainteso, Principe, ma anche per i Discorsi
sulla prima deca di Tito Livio. E’ probabile che Shakespeare,
per lettura diretta o indirettamente, citati da altri, li conoscesse.
Machiavelli è oggetto di ammirazione e riprovazione insieme, e non
solo in Inghilterra; il suo nome, in inglese Nick, diventa il nome
del diavolo. Auden lo immortala quando chiama Nick Shadow il diavolo,
nel bellissimo libretto della Carriera di un libertino che
scrive per Stravinsky. Il famoso monologo di Enrico V, prima della
battaglia, analizzato mirabilmente da Auerbach in Mimesis, è
la sintesi di una lunga tradizione sulla caducità della gloria dei
potenti. Ma è shakespeariana la lucidità con cui un re esamina la
fragilità del proprio potere. Ora, una lucidità simile, ma da parte
del sottomesso, manifesta Guiderio, nel Cimbelino. In realtà
Guiderio è figlio di Cimbelino, ma non lo sa. Crede, anzi, di essere
un povero contadino, che vive in una caverna e si sfama con la
caccia. Ecco il passo in cui descrive la vita dei sottomessi:
GUIDERIUS.
Out
of your proof you speak. We, poor unfledg'd,
Have never wing'd
from view o' th' nest, nor know not
What air's from home. Haply
this life is best,
If quiet life be best; sweeter to you
That
have a sharper known; well corresponding
With your stiff age.
But unto us it is
A cell of ignorance, travelling a-bed,
A
prison for a debtor that not dares
To stride a limit.
Non
abbiamo mai volato fuori dalla vista del nido, né sappiamo che aria
ci sia lontano da casa. Un tempo la si sarebbe chiamata maggioranza
silenziosa. Oggi è il popolo della Lega e del Movimento Cinque
Stelle. Della Brexit e di Vysegrad. Di Trump. But unto us it is / A
cell of ignorance. Ma per noi è una cella d’ignoranza. Non
sapessimo che il passo è stato scritto quattro secoli fa, diremmo
che l’ha scritto un drammaturgo contemporaneo.
Il
lieto fine è una convenzione teatrale. Nella vita è rinviato di
generazione in generazione. Come l’inno alla libertà che chiude il
Fidelio. Perché siamo a teatro. Nella vita, Florestano
sarebbe stata eliminato. Nessuna moglie avrebbe potuto salvarlo.
Shakespeare negli ultimi drammi ci dice qualcosa di simile. Il teatro
è lo spazio della fantasia, del sogno, della fiaba. Quella che Lear
spera di raccontare alla figlia. E che Prospero dissolve con un colpo
di bacchetta. Strano, cupo dramma questo Cimbelino,
nonostante il suo finale riconciliatore, in cui tutte le
contraddizioni si sanano, i malvagi sono puniti o si pentono dei
propri crimini.
La
notte dell’Epifania del 1531 l’Accademia degli Intronati di Siena
mette in scena una commedia anonima, frutto di qualche accademico, o
della collaborazione di più accademici, che ha per titolo Gli
Ingannati. E’ una commedia bellissima, nella quale il
travestimento di una giovane, Lelia, in giovane gentiluomo - si fa
chiamare Fabio - ha un ruolo decisivo per lo svolgimento
dell’intricato intreccio. Shakespeare ne trasse il plot della sua
commedia intitolata Twelfth Night, or What You Will,
che è poi la notte dell’Epifania.
Anche
in questa commedia il travestimento ha un ruolo decisivo. L’ambiguità
amorosa, già intensa e ricca di equivoci nella commedia italiana, è
accresciuta dal fatto che nel teatro elisabettiano i ruoli femminili
sono ricoperti da ragazzi ancora imberbi. Senza essere nominato,
l’amore omoerotico vi ha un rilievo enorme, con accenti che
assomigliano a quelli dei sonetti. In un personaggio è poi
dichiarato senz’ambiguità: Antonio, il capitano albanese che
salva Sebastiano, fratello di Viola, la quale, travestita da ragazzo,
assomiglia come una goccia d’acqua al fratello Sebastiano, e fa
innamorare di sé Olivia, mentre lei s’innamora di Orsino,
l’equivoco è perciò duplice, amata da una donna perché la crede
un uomo, innamorata di un uomo, al quale così travestita da uomo,
non può dichiararsi. Ma è commedia troppo famosa, per riassumerne
qui la vicenda.
Sbarcati
sulla costa dove, a insaputa di Sebastiano, c’è sua sorella Viola,
Antonio, congedato dal giovane, non riesce a staccarsi da lui, perché
ne è irresistibilmente e focosamente attratto, e pronuncia queste
parole:
The gentleness of all the gods
go with thee!
I have many enemies in Orsino's court,
Else
would I very shortly see thee there.
But, come what may, I do
adore thee so,
That danger shall seem sport, and I will go.
Twelfth
Night, II, 1
Dopo
di che, esce al suo inseguimento. E rischierà perfino la vita, per
restargli accanto.
Nel
Cimbelino abbiamo il travestimento di Imogene. E due giovani
fratelli s’innamorano di lei, nonostante o proprio perché lo
credono un ragazzo, che appare a loro di divina bellezza. Ecco la
scena:
GUIDERIUS
I
love thee; I have spoke it.
How much the quantity, the weight as
much
As I do love my father.
BELARIUS
What?
how? how?
ARVIRAGUS
If
it be sin to say so, sir, I yoke me
In my good brother's fault.
I know not why
I love this youth, and I have heard you
say
Love's reason's without reason. The bier at door,
And a
demand who is't shall die, I'd say
‘My father, not this
youth.'
Cymbeline,
IV, 2
Si
scoprirà poi che i due giovani sono in realtà figli di Cimbelino e
non, come credono, di Belario, e sono fratelli dunque di Imogene. Ma
intanto Shakespeare si è lanciato in uno dei passi più lirici di
tutto il dramma, con accenti, appunto, che ricordano i sonetti. Il
travestimento gli permette di oltrepassare i limiti di genere per
rappresentare l’amore come universale attrazione di tutti per
tutti: Love's reason's without reason. Come dice, sentendone le
forza, Arvirago.
Sul
filo di questo incantamento, i personaggi sembrano, proprio
attraverso questi stati in cui li vediamo uscire fuori da sé,
riconoscere la propria natura. Un sogno, in cui compaiono suo padre e
sua madre, e infine Giove stesso, rivelerà a Postumo che Imogene,
sua moglie, è viva. Il pentimento di Iachimo, la confessione della
regina, avvengono come per opera di una trance. Tutto è sospeso in
una sorta d’irrealtà, gli dei giocano con il nostro destino, gli
orrori della guerra sono sorvolati dalla magnanimità di amicizie che
scavalcano gli schieramenti e il nemico si confonde con l’amico.
Tutto, appunto, è sospeso come in un sogno. L’ultimo Shakespeare
sembra rievocare le commedie giovanili. E non soltanto la famosissima
che nomina il sogno anche nel titolo, ma addirittura la prima, Love’s
Labour’s Lost (si noti l’allitterazione), Pene d’amor
perdute. Commedia che ha un finale spiazzante: un messaggero annuncia
alla figlia del Re di Francia che suo padre è morto. E’ come se la
realtà irrompesse all’improvviso e interrompesse un sogno. E non
si può non ammirare la libertà e l’arditezza di Shakespeare che
conclude così tristemente una commedia, come se ne infrangesse le
regole. Del resto, anche Cymbeline, che cos’è? Commedia,
tragedia, dramma storico? La tradizione lo inserisce tra le tragedie.
Ma e le commedie cosiddette “nere”? Misura per misura,
Tutto è bene quel che finisce bene, e in fondo anche I due
gentiluomini di Verona. Shakespeare sta stretto nei confini di un
genere. In questo aspetto di libertà strutturale, trova un mondo
speculare nel teatro spagnolo del siglo de oro, nel quale, anche, i
confini di genere sono labili. Tant’è vero che poi in spagnolo la
parola “comedia” ha finito con il denotare qualunque spettacolo
teatrale, un po’ come l’inglese “play”. La vita è sogno
di Calderón
de la Barca sta sospeso tra tragedia e commedia. E, come in
Shakespeare, i confini tra vita e sogno sono fluidi, mutevoli,
oltrepassati e percorribili. Per non parlare del Don
Chisciotte, romanzo
che contende a Shakespeare l’analisi lucidissima
dell’inafferrabilità della vita. Ecco, sbaglierebbe chi volesse
leggere in questi aerei versi che accennano a un’attrazione
omoerotica, un deciso stigma di omosessualità. Shakespeare è più
ambiguo, più sfuggente.
Anche l’amore fugge, infatti,
le regole. Può in un attimo trasformarsi in
odio. O rivelare
un’attrazione per l’altro come specchio di sé stesso. E allora,
più che di omoerotismo, bisognerà parlare non
tanto di narcisismo – anche -, quanto
di denudamento del lato nascosto di ciascuno, di
svelamento della natura fondamentalmente amorale di qualunque amore:
il Pericles
comincia con l’enigma svelato di un incesto, tra un padre e una
figlia. L’orrore
che ne prova il giovane Pericles,
scoprendolo,
è annichilito dalla naturalezza con cui invece la figlia lo vive. La
realtà di un bordello, in
seguito, non è meno
deprecabile, e offende, anzi,
più profondamente la donna. Ma stiamo scivolando su un terreno
ambiguo quanto la poesia di Shakespeare. E’ tuttavia proprio questa
ambiguità a svelarci quei segreti della vita che non osiamo
confessare nemmeno a noi stessi. E ciò che desta più meraviglia è
la leggerezza con cui Shakespeare
ce li svela.
Fiano
Romano, 23 -
24 agosto 2018