L’IDEA
D’ITALIA UNITA
L’Italia,
come paese unito, è esistita per pochi intellettuali, che non sono
mai riusciti a comunicare la loro idea di paese al paese reale, da
Dante a Petrarca a Machiavelli a Leopardi a Manzoni (i versi di Marzo
1821 “Una d’arme, di lingua, d’altare, / Di memorie, di sangue
e di cor” sono un’amorosa menzogna) a Gobetti a Gramsci ai
combattenti della Resistenza, ai Presidenti della Repubblica Pertini
e Ciampi (l’elenco è solo indicativo, sono molti di più!).
Gli
scrittori, gli intellettuali, i politici visionari non hanno
comunicato nemmeno la lingua, che solo con l'avvento della
televisione è diventata una lingua comune, naturalmente
bastardissima, e aspetta ancora uno scrittore che la promuova a
lingua letteraria. Gli scrittori, per ora, scrivono in una lingua che
non c'è se non nel loro ricordo letterario. Mi ci comprendo anche
io. Siamo un po' tutti come il grandissimo storico Ammiano
Marcellino, che, lui di lingua greca, sceglie di scrivere in latino,
ma scrive in una lingua che ha per modello la lingua di Tacito quando
Tacito non lo si leggeva più nemmeno a scuola. Posso sentirmene il
cuore spezzato, eppure dall'altra parte una parte di me gode degli
orizzonti che possa aprire questa bellissima lingua immaginaria. Uno
dei passi della Commedia che più mi commuovono è l'incontro con
Bertran de Born, nella bolgia dei seminatori di discordia, e il poeta
provenzale si rivolge a Dante con la propria testa separata dal
tronco tenuta per i capelli con la mano destra.
Io
vidi certo, e ancor par ch'io 'l veggia,
un busto sanza capo andar sì come
andavan li altri de la trista greggia;
un busto sanza capo andar sì come
andavan li altri de la trista greggia;
e
'l capo tronco tenea per le chiome,
pesol con mano a guisa di lanterna:
e quel mirava noi e dicea: «Oh me!».
pesol con mano a guisa di lanterna:
e quel mirava noi e dicea: «Oh me!».
Di
sé facea a sé stesso lucerna,
ed eran due in uno e uno in due;
com' esser può, quei sa che sì governa.
ed eran due in uno e uno in due;
com' esser può, quei sa che sì governa.
Quando
diritto al piè del ponte fue,
levò 'l braccio alto con tutta la testa
per appressarne le parole sue,
levò 'l braccio alto con tutta la testa
per appressarne le parole sue,
che
fuoro: «Or vedi la pena molesta,
tu che, spirando, vai veggendo i morti:
vedi s'alcuna è grande come questa.
tu che, spirando, vai veggendo i morti:
vedi s'alcuna è grande come questa.
E
perché tu di me novella porti,
sappi ch'i' son Bertram dal Bornio, quelli
che diedi al re giovane i ma' conforti.
sappi ch'i' son Bertram dal Bornio, quelli
che diedi al re giovane i ma' conforti.
Io
feci il padre e 'l figlio in sé ribelli;
Achitofèl non fé più d'Absalone
e di Davìd coi malvagi punzelli.
Achitofèl non fé più d'Absalone
e di Davìd coi malvagi punzelli.
Perch'
io parti' così giunte persone,
partito porto il mio cerebro, lasso!,
dal suo principio ch'è in questo troncone.
partito porto il mio cerebro, lasso!,
dal suo principio ch'è in questo troncone.
Al
feroce "contrappasso" di Berntran fanno da contrappeso gli
incontri con Arnaut Daniel, il “miglior fabbro del parlar materno”,
nel Purgatorio, e Folchetto di Marsiglia, nel Paradiso. Arnaldo si
rivolge a Dante in provenzale, citando l'attacco di una canzone di
Folchetto. Era stato il modello delle rime più aspre dello stesso
Dante (le cosiddette rime petrose), che lo ammirò per tutta la vita,
e tesse l'elogio del suo alto stile nel De vulgari eloquentia.
Tan
m'abellis vostre cortes deman,
qu'ieu no me puesc ni voill a vos cobrire.
Ieu sui Arnaut, que plor e vau cantan;
consiros vei la passada folor,
e vei jausen lo joi qu'esper, denan.
Ara vos prec, per aquella valor
que vos guida al som de l'escalina,
sovenha vos a temps de ma dolor!
qu'ieu no me puesc ni voill a vos cobrire.
Ieu sui Arnaut, que plor e vau cantan;
consiros vei la passada folor,
e vei jausen lo joi qu'esper, denan.
Ara vos prec, per aquella valor
que vos guida al som de l'escalina,
sovenha vos a temps de ma dolor!
[Tanto
cortese e grato 'l dimandare,
non voglio né mi posso a voi celare.
Io son Arnaut, e piango, nel cantare;
folle in passato, adesso triste in cuore
guardo a future gioie, da sperare.
Ora vi prego, in nome del valore
che vi porta su, in vetta allo scalare,
non vi scordate allor del mio dolore!]
non voglio né mi posso a voi celare.
Io son Arnaut, e piango, nel cantare;
folle in passato, adesso triste in cuore
guardo a future gioie, da sperare.
Ora vi prego, in nome del valore
che vi porta su, in vetta allo scalare,
non vi scordate allor del mio dolore!]
ma
quanto è bello il provenzale di Dante! Di un’intensità inaudita,
fa ricordare, in termini rovesciati, i versi di Francesca (Nessun
maggior dolore ecc.) quel “consiros vei la passada folor”,
pensieroso vedo la passata follia). Francesca ricorda il proprio
amore nella disperazione della condanna eterna, Arnaldo lo guarda
come cosa folle e lontana dalla serenità della sua beatitudine
celeste. La Commedia è piena di questi rimandi, di queste speculari
situazioni, in cui si rappresenta l’inestricabile complessità
della vita.
Ecco,
perfino il poeta che più di ogni altro si è sforzato d'inventare
una lingua la più vicina possibile alla lingua parlata dalle persone
colte (solo di queste Dante si occupa) è poi costretto a muoversi
tra lingue scomparse, il latino, il provenzale, per trovare il
proprio modello non lessicale ma stilistico. Sta ancora racchiuso là
dentro il dramma di tutti gli scrittori che scelgono di scrivere in
italiano. Oggi il panorama si allarga: quanto a me, non posso fare a
meno del francese, dell’inglese, del tedesco, dello spagnolo, come
modelli di scrittura. Pur troppo non conosco il russo e ignoro le
lingue orientali (il mio studio del sanscrito si è fermato alla
decifrazione dell'alfabeto).
Fiano
Romano, 6 agosto 2018
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