ROMA. TEATRO DELL’OPERA.
L’ANGELO DI FUOCO di Sergej Prokof’ev
Personaggi e interpreti
Ruprecht Leigh Melrose
Renata Ewa Vesin
Padrona della locanda Anna
Victorova
Indovina Mairam Sokolova
Agrippa di Nettelsheim Sergej
Radčenko
Johann
Faust Andril Gančuk*
Mefistofele Maxim
Paster
Madre
Superiora Mairam Sokolova
Inquisitore Goran
Jurić
Jakob
Glock Domingo Pellicola*
Mathias
Wissman Petr Sokolov
Medico Murat
Can Güvem*
Servo Andril
Gančuk*
Padrone
della taverna Timofei Baranov*
*
dal progetto “Fabbrica”
Young Artist Program del Teatro dell’Opera di Roma
Mimi
attori
L’angelo
di fuoco Alis Blanca
Conte
Heinrich Ivano Picciallo
Viola
Carinci, Federica D’Amore,
Marta Franceschelli, Silvia
Giuffrè, Francesca Laviosa, Anna Pozzuoli, Sabrina Vicari, Marta
Zollet
Davide
Celon, Roberto Galbo, Yannick Lomboto, Samuel Salamone, Daniele
Savarino
Direttore Alejo
Pérez
Regia Emma
Dante
Maestro
del Coro Roberto Gabbiani
Scene Carmine
Maringola
Costumi Vanessa
Sannino
Movimenti
coreografici Manuela lo Sicco
Luci Cristian
Zucaro
Maestro
d’armi Sandro Maria Campagna
Orchestra
e Coro del Teatro dell’Opera di Roma
Anteprima
Giovani: 21 maggio 2019
Prima
rappresentazione: 23 maggio 2019
Repliche:
26. 28, 30 maggio, 1 giugno 2019
Krzystof
Pendercki mette in scena ad Amburgo, nel 1969, Diabły
z Louduni,
i
diavoli di
Loudun, dal
romanzo di Aldous Huxley.
Non
è una partitura straordinaria, più di effetto, che di sostanza, ma
il soggetto suscita polemiche. Due
anni dopo Ken Russell presenta al Festival del cinema di Venezia The
devils,
i diavoli, tratto dallo stesso romanzo, ma attraverso la riduzione
teatrale di John Whiting, del
1960.
Il riferimeto storico è reale, ed è un processo per stregoneria e
possessione demoniaca nella Francia governata da Richelieu, che volle
così sbarazzarsi dell’ultima resistenza ugonotta. Il
film suscitò scandalo, protestò il Vaticano. Russel rispose:
“Premetto
che sono cattolico, che mi sono convertito 15 anni fa e che mi sono
convertito per una libera scelta…Confesso che nel mio film c’è
una parte erotica e qualche parte sconveniente. Scene che non sono
preminenti, che sono complementari al tessuto della storia, che hanno
una rispondenza storica assolutamente accertata dai documenti.
Ebbene, che si fa? Si sottolineano queste parti secondarie e
marginali, che non sono inventate, che sono realmente accadute, che
sono documentate; dicevo, si sottolineano queste parti marginali per
condannare tutto il film e per accusare il suo autore d’essersi
messo al passo con i tempi. Anzi di avere addirittura anticipato una
nuova formula perversa: erotismo+sadismo+religione…. Non è stato
Ken Russell a inventare la formula religione-sadismo-erotismo. Ma
altri, molto ma molto tempo fa. Quegli stessi che per condannare
ingiustamente un uomo, Grandier, esibirono una falsa confessione
firmata da lui e da sette diavoli. Se non lo sanno i critici,
cattolici e non, questa confessione è ancora agli atti del
processo”. (Le parole di Ken Russell inviate a “L’Europeo”
sono trascritte nella monografia su Russell di Rino Miele)1.
Ma
molto prima di
tutto ciò,
nel 1919, Sergej Prokof’ev pensa anche lui di
scrivere un’opera su una donna accusata di essere posseduta dal
demonio, e compone L’angelo
di fuoco,
in russo Ognennij
Angel.
L’argomento è simile, ma le fonti, sia letterarie sia storiche
sono diverse. Prokof’ev
attinge al romanzo simbolista di Valerij Brjusov, dello
stesso titolo,
ne ricava lui stesso il libretto, scarnifica efficacemente l’azione.
La composizione si conclude nel 1925, ne
viene elaborata anche una versione in francese, come
aveva fatto per L’amore
delle tre melarance,
ma
l’opera verrà rappresentata postuma alla Biennale di Venezia nel
1955. Da allora è ripresa dai teatri di varie parti del mondo. A
Roma, manca da 53 anni. Ma è stata vista più volte alla Scala di
Milano e una volta al Regio di Torino. E’ forse il capolavoro
teatrale di Prokof’ev e uno dei maggiori del teatro del Novecento.
E’ un’opera profondamente, intimamente russa, anche se l’azione
s’immagina nella Germania del Rinascimento, e tra i personaggi
figurano anche Faust e Mefistofele. Le allusioni a Goethe sono molte.
La scena della taverna, per esempio. Ma si pensa, per il suo
carattere russo, anche ai film di Tarkovskij (Sacrificio)
e di Sokurov (Faust),
che certamente, entrambi, tennero presente il clima visionario
dell’opera prokof’eviana. O
comunque respirano lo stesso clima allucinato dell’opera di
Prokof’ev e di tante pagine della letteratura russa. Spesso
l’allucinazione si combina con il grottesco, con l’ironia, come
nel Naso
di Gogol, da cui Šostakovič
trasse
ispirazione per la sua prima, stupefacente, bellissima opera.
Una
donna, Renata, ha fin da bambina la visione di un angelo bellissimo,
Madiel’. Ma a 16 anni, quando
gli impulsi sessuali dell’adolescenza esplodono,
gli chiede di congiungersi carnalmente con lei. L’angelo
inorridisce,
impreca, la
maledice, diventa una colonna di fuoco che le brucia i capelli e la
schiena, e svanisce via
per sempre.
La donna, allora,
cerca di riconoscerlo nelle fattezze di un uomo mortale,
lo insegue in un uomo reale, Heinrich, e
ne diventa l’amante.
Chiede,
però,
a Ruprecht, l’uomo
che l’aveva salvata dall’assalto dell’angelo, o da ciò che sia
lei sia lui credevano l’assalto dell’angelo, ma era ormai forse
invece il diavolo travestito da angelo, chiede dunque a questo
Ruprecht,
innamoratosi
di lei, di uccidere
Heinrich,
perché l’ingannatore, il seduttore l’ha
abbandonata. Ruprecht, riluttante,
sfida perciò
a duello Heinrich, ma
resta ferito. Renata, quando
Heinrich guarisce,
lo
respinge, e si
chiude in convento. E comincia
di nuovo a essere posseduta dalle sue visioni, e cominciano
le possessioni
anche delle altre monache. S’impone
la visita di un Inquisitore. E l’inquisitore
la condanna alla tortura e al rogo. L’opera
si conclude qui, con
la
sentenza di condanna, mentre le voci del coro di monache,
dell’Inquisitore,
di Renata,
intonano un labirintico scatenato sabba musicale , tra
sdegnati esorcismi e inni a Belzebù e a Baal.
Ma
la trama in sé dice poco del carattere dell’opera. Non si
dimentichi che le avanguardie teatrali russe hanno insegnato al mondo
a fare teatro moderno, da Stanislasvskij a Mejerchol’d e
che il teatro russo, perfino quello realistico di Čekhov,
è
integralmente percorso da vene surrealiste, visionarie, allucinate,
spesso in chiave violentemente caricaturale e satirica.
Un
romanzo come Il
maestro e margherita
di Bulgakov rende bene quell’atmosfera.
E si
pensi a
quanto di visionario, irrazionalistico, c’è in Dostoevskij,
Tolstoj, Gogol. La musica di
Prokof’ev, qui espressionistica come non mai,
restituisce perfettamente questa visionarietà, quest’allucinazione
a occhi aperti. Ritmi ossessivi, dissonanze, Leitmotive
tortuosi, e
un declamato, che ricorda Musorgskij (soprattutto la scena di
apertura del Boris
Godunov),
ma non è estraneo al coevo Šostakovič.
Si resta stregati,
appunto, e
inchiodati alla poltrona del teatro dall’inizio alla tumultuosa,
vertiginosa fine. Quasi
una ricostituzione del caos originario del mondo.
L’inchiodatura
si fa febbrile in questo allestimento di Emma Dante. E non solo per
ciò che si vede sulla scena, ma anche, e soprattutto, per merito
della tesa, quasi spasmodica, e tuttavia limpidissima lettura
musicale di Alejo Pérez: interpretazione penetrante come poche
altre, quasi da manuale. Il caos nasce da un ordine prestabilito. Una
legge matematica stabilisce che il massimo della precisione, e
dell’accumulo di dati precisi, produce caos. Ecco: è questa
l’operazione di Pérez, suscitare dall’ordine razionale del
contrappunto il caos. Tutto appare mescolato, confuso, le voci
sembrano sovrapporsi disordinatamente. E invece la confusione nasce
da un controllo rigorosissimo delle combinazioni contrappuntistiche
di voci e strumenti. Qui s’inserisce la bravura dei cantanti, che
sembrano cantare, recitare sotto l’impulso del momento e invece
ubbidiscono a una combinazione precisa delle parti, sia musicali sia
gestuali.
Emma
Dante immagina scene (geometriche, incombenti, di Carmine Maringola)
che sprofondano nel ventre della terra. L’allusione alla cripta dei
Cappuccini, sia a quella palermitana sia a quella romana di Via
Veneto, con le nicchie abitate da scheletri, e qui da monache avvolte
da mantelli rossi, i cui volti sembrano teschi, è opprimente, fa
respirare un clima insalubre di morte, di spiriti, di apparizioni
infernali danzanti. L’apparizione piroettante dell’angelo (Alis
Blanca) è subito, fin dall’inizio, fin dalla prima volta,
sinistra, demoniaca. L’essere si contorce saltando, usa le gambe
come braccia e viceversa. Il sotto e il sopra coincidono. E si
conferma tale, cioè demoniaco, perverso, escrescenza e soffio del
Maligno, quando d’un tratto spunta anche il suo doppio nero, come
lui rotolante, saltante, sulle gambe e sulle braccia. Bene e male si
confondono, si assomigliano come due gocce d’acqua. Si pensa alle
streghe del Macbeth: Fair is foul, and foul is fair, il bello
è brutto e il brutto è bello.
Renata,
la visionaria, la posseduta, è lasciata sola nei suoi deliri, gli
uomini ne colgono solo la voglia di sesso. Il mondo che le sta
intorno le è ostile, non perché abbia visioni, perché il demonio
la possegga, può darsi, ma chi sa, forse davvero è ella stessa in
quanto donna, una creatura demoniaca, no, non per questo il mondo le
è ostile, potrebbe anche non essere indemoniata, ma la teme, la odia
perché donna, perché è la donna a scatenare nell’uomo voglia di
sesso. Soli anch’essi, però, gli uomini, nell’incapacità di
capire, di comunicare, incapacità che risolvono in atti d’accusa
per chi non capiscono, per chi sembri di altra natura, e la donna
sembra di altra natura, sembra non umana, non uguale, insomma,
all’uomo.
Costumi
sulla scena se ne vedono d’ogni sorta, che mescolano le epoche, le
persone, i ranghi sociali. Perché tutto in quest’opera, e dunque
anche nello spettacolo, è ambiguo, indeterminato e ciascuna cosa può
essere il suo contrario. Sono disegnati da Vanessa Sannino. Sulla
scena un cast formidabile, per omogeneità interpretativa e per
individuale eccellenza, In particolare la Renata di Ewa Vesin, sempre
in scena, d’una fatica sovrumana per il soprano questa partitura,
eppure l’interprete non appare mai stanca, è duttilissima,
splendida attrice che canta o cantante che recita, sono tutt’uno.
Come dovrebbe sempre essere in teatro un cantante. Ruprecht,
personaggio multiforme, insieme ruvido e fragile, è un intensissimo
Leigh Melrose, rude, appunto, almeno all’inizio, e poi sempre
infoiato, ma insieme fragile e vinto. Inimitabile il Mefistofele di
Maxim Paster. Ma andrebbero citati tutti, gli interpreti di questo
straordinario spettacolo, uno più bravo e più giusto dell’altro
(leggeteli qui sopra, nella locandina). Il pubblico giovanile
dell’anteprima – una bella iniziativa del Teatro dell’Opera
riservare l’anteprima ai giovani - , silenzioso, attento, decreta
alla fine per tutti un trionfo. Meritatissimo! Spettacolo bellissimo,
dunque, e da non perdere!
Alla
prima il pubblico era più rumoroso, e qualche maleducato della
platea, tra i soliti, si è alzato dalla poltrona e se n’è andato
non appena è calato il sipario sull’ultimo lancinante accordo.
Sono sempre di meno, per fortuna, questi maleducati del pubblico
romano, segno che l’apertura al teatro moderno piace al resto, la
maggioranza, del pubblico, e restano ad applaudire e ringraziare gli
artisti. Ciò che indispone di quei pochi è la strafottenza, non
solo escono quando ancora non si sono riaccese le luci, ma escono
chiassosamente, parlottando tra loro, facendo rumore con i tacchi sul
pavimento. Che differenza con l’educata attesa dei giovani
dell’anteprima, che sono rimasti inchiodati fino alla fine, fino a
quando non si sono riaccese le luci. Tutti lì a spellarsi le mani
per manifestare il proprio entusiasmo e la gratitudine per gli
artisti. Qui sta il punto: i maleducati ignorano una regola
fondamentale del teatro e dello spettacolo in genere: gli artisti,
sulla scena e in orchestra, hanno “lavorato” per oltre due ore,
hanno lavorato per il pubblico, e l’applauso o il dissenso, buh o
fischi che siano, sono atti dovuti.
Per
concludere, una riflessione sul senso del teatro, e del teatro
moderno. Il Novecento è un secolo di grande, grandissimo teatro, che
ha pochi confronti con il teatro del passato: il teatro
elisabettiano, il teatro classico francese, el siglo de oro spagnolo,
il melodramma italiano barocco, il teatro greco antico. Come quei
grandi esempi di teatro anche il teatro del Novecento è lo specchio
del mondo, come dice Shakespeare, tutto il mondo è un palcoscenico,
o Calderón de la Barca, ciascuno
recita la propria parte nel Gran Teatro del Mondo, o Corneille che
nell’Illusion Comique
elimina il sipario tra
vita reale e vita recitata. Anche nell’Angelo
di fuoco il palcoscenico si fa specchio
del Mondo. Fausto e Mefistofele intervengono a togliere ogni sospetto
che tra illusione e realtà esista una separazione. Renata, il cui
stesso nome ha significato
insieme simbolico ed esoterico, re-nata, vive le proprie visioni come
vita indivisibile di sé stessa, esperienza unitaria di mente e
corpo. Emma Dante visualizza gli angeli-démoni di Renata, i due mimi
sembrano uscire direttamente dai suoi occhi. Alis Blanca irrompe
sulla scena come Ariele nella Tempesta
di Shakespeare, aereo, leggero, inafferrabile, evanescente. Non fa
rumore. L’infelice Ruprecht, dapprima così sicuro di sé, finisce
coll’esserne ingoiato, sommerso, sconfitto. Sente pronunciare da
Renata parole terribili, ma che non si riferiscono a lui, bensì
all’altro, all’immaginario eppure realissimo amante di Renata,
Heinrich: “Non piango per lui, / piango
per me. / Provo vergogna e … amarezza / per averlo tanto amato, /
per essermi data così completamente a lui. / Heinrich mi ha
ingannata: è solo un uomo, / un semplice uomo, / che si può
sedurre, irretire e distruggere … / E io nella mia immaginazione ho
im,maginato / che egli fosse il mio angelo, il mio Madiel’, /
eternamente puro, eternamente inaccessibile!” Poco dopo, nel quarto
atto, gli dirà “Va’ in un bordello. / Per pochi soldi trovi la
donna che fa per te”. Tra questi estremi, l’angelo e il demonio,
il cielo e l’inferno, in mezzo c’è la terra, abitata da démoni
che sono angeli e da angeli che sono démoni. Il sesso è insieme
paradiso e dannazione, per la donna un continuo donarsi, per l’uomo
soltanto prendere. Da qui la rabbia per ogni abbandono: subìto
come un furto, la sottrazione di un possesso.
La
musica di Prokof’ev non è mai stata così esplicita nell’abolire
i confini tra consonanza
e dissonanza. Spesso, soprattutto nelle opere successive, l’ammicco
all’ascoltatore si fa quasi seduzione, come nel terzo Concerto
per pianoforte o nelle musiche per La
congiura dei Boiari di Eizenstejn (Ivan
il Terribile è più duro, più
asciutto). Ma è soprattutto l’orchestrazione che qui si fa spia di
un perpetuo scivolamento della realtà in piani
illusori, visionari: pedali infiniti, sia al basso sia all’acuto,
cellule motiviche infinetesime ripetute ossessivamente, soprattutto
dagli archi, quasi già come in una micropolifonia di Ligeti. E il
rincorrersi di motivi conduttori che si combinano, si deformano. Lo
stridio degli ottoni, il gracidio dei legni. Il suono del ventesimo
secoli o è rumore o è dissonanza o dolcezza che fa soffrire l’udito
come il graffio su una lavagna, il sibilo acutissimo di una sirena di
fabbrica. La musica è non già la
riproduzione dei suoni della vita del tempo, né tanto meno la
consolante trasposizione in un paradiso melodico estraneo, nemmeno il
pur accattivante Čajkocski consola
per davvero, anche la più seducente delle sue melodie racconta
sempre una lacerazione. E allora: che musica volete nel mondo dei
treni, degli aerei, delle fabbriche, delle miniere? Lo zoccolio dei
cavalli sul selciato, il passo morbido di scarpine di velluto nei
giardini non esistono più. Chi crede che il bello, il gradevole sia
solo ciò ch’è stato, si disilluda. I colpi di timpani che
scandiscono, da soli, la cellula ritmica dello Scherzo
della Nona Sinfonia
di Beethoven furono uditi, nel 1825, come violenti colpi di cannone,
gli stessi che avevano bombardato Vienna qualche anno prima e avevano
fatto perdere definitivamente e per sempre l’udito all’indomabile
compositore.
Ecco:
compito dell’artista non è illudere lettori, spettatori,
visitatori di gallerie e musei, che il mondo rappresentato è
migliore di quello reale, perché anche quando un mondo ideale è
rappresentato dall’artista,
per contrasto fa apparire ancora più scomodo, disturbante, il mondo
reale. No, compito dell’artista è riflettere, con la propria arte,
sulla realtà del mondo. Non rispecchiarlo: rifletterci sopra. Per
questo Aristotele dice che il teatro, la poesia, sono più filosofici
della storia. Perché pensano, riflettono, oppure fanno riflettere,
fanno pensare. Quando Edipo si chiede: so di non essere colpevole,
che è stato deciso non da me, ciò che è accaduto. Ma allora:
perché io? (Edipo a Colono
di Sofocle). Uno oggi, potrebbe chiedersi: perché sono nato a Roma e
non a Pechino? Perché da una famiglia d’intellettuali e non da una
famiglia di analfabeti? Perché nato con la
pelle bianca e non con la pelle nera? Perché parlo italiano e non
russo o giapponese? Ecco: l’artista pone le domande. Non sa le
risposte. Come non le sa il filosofo, non le sa lo scienziato: il
filosofo e lo scienziato ci chiariscono com’è fatto il mondo, non
ci spiegano perché è fatto così. Ed è
la domanda che noi lettori, spettatori, visitatori di gallerie e di
musei, dobbiamo porci insieme all’artista. L’artista ci obbliga a
porcela, la domanda. E anche noi, come l’artista, non abbiamo la
risposta, non siamo confortati, consolati. Ma il solo fatto di
porcela, la domanda, ci rende più comprensivi, più tolleranti, per
gli altri che si pongono le stesse domande, ma in modo diverso, e
cercano risposte diverse dalle nostre; l’artista ci rende meno
sicuri di possedere certezze o di credere che ciò che sappiamo sia
definitivo. Ecco che cos’è l’arte: l’operazione di toglierci
la terra sotto i piedi. Di sgombrarci la mente dalle illusioni, dalle
false certezze, per obbligarci, ogni volta, a domandarci chi siamo,
che cosa sappiamo. Lo dice anche un
grandissimo poeta: !All’apparir del vero, tu (la speranza) misera
sparisti. Ci piaccia o no, è questa la realtà con la quale dobbiamo
confrontarci, nella vita. L’arte ce lo ricorda.
Fiano
Romano, 22 – 25 maggio 2019
Dino
Villatico
1Marino
Demata su “Rive Gauche”, 26 novembre 2014.