venerdì 26 luglio 2019

Jean-Baptiste Brenet, Averroès l'inquiètant




Per la teologia cristiana l’atto della creazione è avvenuto una volta per tutte, all’inizio dei tempi. L’universo continua a esistere per partecipazione della volontà divina, secondo San Tommaso. La teologia ebraica, anch’essa, pone all’inizio dei tempi la creazione. Ma poi correnti mistiche, e soprattutto la Kabalah, tendono a vedere nella realtà emanazioni della Potenza Divina. Schematizzo, e molto. Ultima, arriva la teologia islamica, che del pensiero ebraico conserva molto di più di quanto facciano i teologi cristiani. E si arriva perfino a pensare che l’atto della creazione non sia compiuto una volta per tutte, ma che la realtà esista perché Dio continuamente la ricrea. La volontà divina, nel pensiero islamico, ha dunque una funzione molto più cogente che nel pensiero cristiano, nel cui ambito, se mai, costituisce una corrente diversa dall’ortodossia tomista il pensiero di un Dun Scoto, che insiste sul primato della Volontà: il mondo è razionale non perché Dio si sia adeguato a principi razionali di costruzione, ma perché la Volontà Divina fa che sia razionale ciò che decide. Dante, per lo più tomista, per molti aspetti sembra talora, però, seguire Duns Scoto, per esempio quando considera l’armonia dell’universo “forma” della volontà divina. Tra i filosofi, e scienziati, arabi, che ebbero un immenso peso nello sviluppo del pensiero cristiano occidentale, c’è Averroè, che il gran Commento feo”, Abū l- Walīd Muḥammad ibn Rushd (Cordova 1126 - Marrākesh 1198). San Tommaso ne dipende, ma anche lo critica aspramente, anzi addirittura lo demonizza, come fomentatore di eresie. E non tanto per l’accusa di avere seguito troppo alla lettera Aristotele e decretare dunque che l’anima muore con il corpo:

Suo cimitero da questa parte hanno
con Epicuro tutt’i suoi seguaci
che l’anima col corpo morta fanno.

(Inferno, X, 13-15)

Dante giustamente nomina Epicuro e non Averroè, perché sa benissimo che la teoria dell’anima e dell’intelletto, in Averroè, è un’altra. Ciò che del pensiero di Averroè scandalizza i cristiani – e gli stessi teologi islamici – è la separazione dell’intelletto dall’individuo. L’uomo, quando pensa, non pensa individualmente, ma in lui pensa un intelletto separato, immateriale e immortale. Tale idea sembra distruggere l’unità dell’individuo, perché l’intelletto non è più concepito come la forma del corpo umano, ma un agente esterno che pensa in tutti i corpi degli uomini allo stesso modo, una sorta di Pensiero autonomo, immortale, che rende vero il pensiero umano. L’intelletto agente, insomma, è una sostanza puramente formale che pensa autonomamente riguardo all’individuazione particolare degli individui. Anche qui sto schematizzando molto. E’ quasi come se dicesse che quando pensiamo a pensare in noi è Dio stesso.
Quest’idea ha tormentato non solo i cristiani del Medio Evo, ma tutto il pensiero occidentale fino ad oggi. Si pensi, per esempio, alla violenza con cui è attaccata l’idea della Sostanza Unica concepita da Spinoza. Ed è su quest’orrore, su questo rifiuto della spersonalizzazione dell’individuo, che una società, come quella occidentale, fondata essenzialmente sull’esaltazione dell’individuo, fiera, anzi narcisisticamente della propria individualità, che ancora oggi lo scontro è violento, anche all’interno della stessa società occidentale, per esempio tra l’oggettività per alcuni inaccettabile, della scienza, nei confronti del comune sentire. Che poi non si tratti di vera oggettività (la scienza non ha mai sostenuto un’oggettività assoluta del sapere), ma solo di analisi non individualistica, non emotiva, della realtà è un altro discorso.
Ebbene, su questo complesso insieme di problemi ha scritto un libro denso, intenso, stimolante, e perfino eccitante, lo storico francese del pensiero arabo Jean-Baptiste Brenet, Averroès, l’inquiétant (Les Belles Lettres). Come si sa, gli studiosi francesi hanno prestato sempre una grande attenzione al pensiero islamico. Si pensi a Henry Corbin, allievo del grande studioso di filosofia medievale Etienne Gilson, e alla su Histoire de la philosophie islamique (folio-essais), e, tradotto in italiano, per Adelphi, a Corpo spirituale e Terra celeste. Libro splendido sul misticismo islamico. Brenet, a spiegare il turbamento, e il rifiuto, latino del pensiero di Averroè ricorre a un’idea di Freud: l’unheimlich, il perturbante. Il ritornare di esperienze infantili, o addirittura prenatali, della specie, della stessa materia vivente, come se anelasse a fermare, appagare l’irrequietezza, il desiderio che inquieta i viventi di esperienza in esperienza, fino alla quiete dell’imperturbabilità, al silenzio della non vita, all’inorganico. O, meglio, come precisa Brenet, a superare i limiti dell’individualità. Per Averroè, che riprende l’analisi di Aristotele, ad appagarsi nel puro atto di pensare, a trovare rifugio, e quiete, nell’impersonalità del pensare. Νόησις νοήσεως, pensiero del pensiero, pensiero che si pensa, per il filosofo greco, Dio, per il filosofo, e scienziato, arabo di Cordoba. Gli si attribuisce, falsamente, quella che poi venne chiamata la teoria della doppia verità. Una per i filosofi e gli scienziati, che spiega razionalmente la composizione del mondo, e l’altra, mitica, della religione, per il popolo. Averroè sostiene invece che la verità della fede e quella della scienza sono verità complementari, ma che mentre la religione spiega la realtà con le immagini e con i miti, solo la filosofia, solo la scienza ne comprendono l’essenza razionale allo stesso modo con cui la coglie Dio. Il filosofo, nel momento in cui pensa la realtà, la pensa con lo stesso pensiero di Dio. E ha perfettamente ragione. Nel senso che la razionalità non è qualcosa d’individuale, ma preesiste al pensiero individuale, in qualche modo il pensiero individuale si adegua a un principio esterno, non individuale, ma universale. Un teorema matematico non è valido perché lo impostano Pitagora o Euclide, ma perché chiunque voglia reimpostarlo deve impostarlo come lo impostano Pitagora ed Euclide. Ma lasciamo la parola allo stesso Brenet.

Ce qui ainsi est mortifère pour le composé hylémorphique1 n'est que la traduction, au lieu mème de sa souffrance, d'une positivité plus fondamentale, celle d’un désir de la matière du monde de correspondre à la plénitude actuelle de son Premier principe. Si l'étre flanche, s’épuise, et s'abat, c'est du fait que, à la racine de tout, la puissance .des choses tashe de:se diviniser. Parler de négatìvité, de retour à l'inanimé, à la mort, n'est pas assez, puisque la mort de l’individu manifeste la « vie» générale de la matière comme puissance de toutes les autres formes possibles. Le thanatos de l'étant, c'est l'eros de cette matière globale.
C'est cela que marque la compulsion de répétition noétique; c'est cela qui vient perturber les Latins – lesquels par ailleurs lisaient ce texte sans souci. Le concept qui se répète, l'intelligible pur qui se répète, se répète comme le signe d'une inclination de la matière première à retourner, en deçà de la vie de I'individu, de cet individu-ci, de cette personne, en deçà de toute privatisation, de toute appropriation, à son lieu commun, à sa nature de puissance commune tendue par l'attraction divine vers la réalisation de toutes les formes. Le plus pulsionnel de la pulsion n'est pas anti-vital, il est anti-personnel ; la répétition de la Pensée n’exprime pas un désir de retourner à l'anorganique, c'est-à-dire à la mort, mais un désir de contourner, de récouvrir la limite insignifiante de la vie singulière..
Principe typiquement averroïste : la personne ne compte pas. Nul n'est justifié comme personne en particulier, Pas d'élus - mème s'il faut une élite. Ce qui vaut, c’est l’espèce. C'est la permanence supra-individuelle de l'intelligible en acte, laquelle ne demande rien sinon la succession ininterrompue de corps humains quelconques. L’homme est mort, vive l'Homme ! On entend cela dans l'eternité de l'intellect. Et dans cela, l'érotique démoniaque de la matière anonyme”.
(Ciò che così è mortifero per il composto hylemorfico non è che la traduzione, nel luogo stesso della sua sofferenza, di una positività più fondamentale, quella di un desiderio della materia del mondo di corrispondere alla pienezza in atto del suo Primo principio. Se l’essere crolla, si esaurisce e si abbatte, ciò avviene perché, alla radice di tutto, la potenza delle cose tenta di divinizzarsi. Parlare di negatività, di ritorno all’inanimato, alla morte, non è affatto troppo, poiché la morte dell’individuo manifesta la “vita” generale della materia come potenza di tutte le altre forme possibili. Il thanatos dell’ente, è l’eros di questa materia globale.
Ed è quello che che marca la compulsione della ripetizione noetica; è quello che viene a perturbare i Latini – i quali d’altronde leggevano questo testo senza preoccupazione. Il concetto che si ripete, l’intelligibile puro che si ripete, si ripete come il segno di un’inclinazione della materia prima a ritornare, a dispetto della vita dell’individuo, di questo individuo qui, di questa persona, a dispetto di ogni privatizzazione, al suo luogo comune, alla sua natura di potenza comune tesa dall’attrazione divina verso la realizzazione di tutte le forme, Ciò che vi è di più pulsionale nella pulsione non è anti-vitale, è anti-personale; la ripetizione del Pensiero non esprime un desiderio di ritornare all’anorganico, cioè alla morte, ma un desiderio di aggirare, di ricoprire il limite insignificante della vita singola.
Principio tipicamente averroista: la persona non conta niente. Nessuno è giustificato come persona, in particolare. Non ci sono eletti – anche se c’è bisogno di un’élite. Ciò che conta, è la specie. E’ la permanenza sopra-individuale dell’intelligibile in atto, la quale non chiede niente altro se non la successione ininterrotta di corpi umani qualunque. L’uomo è morto, viva l’Uomo! Lo s’intende nell’eternità dell’intelletto. E in esso, l’erotico demoniaco della materia anonima).

In un epoca come la nostra, nella quale l’egocentrismo, l’egolatria, il narcisismo imperano. E tutti, invece di analizzare scientificamente, o quanto meno con il necessario distacco, la realtà, qualsiasi realtà, e argomentare la propria analisi, dicono io io io, io sento, io credo, io vedo, io penso, e non ascoltano, non si ascoltano, non accettano contraddittori, confutazioni, o semplicemente si rifiutano di discutere quanto si è affermato, questa del filosofo arabo, e dello studioso francese che ne riesamina il pensiero, mi sembra una bella lezione di umiltà. Un alto là necessario all’arroganza degl’impulsi prevaricatori, un sano e risanatore richiamo a confrontarsi con la concretezza delle cose in discussione, con la precisione dei termini e dei concetti. Pena, altrimenti, come sta avvenendo, il precipitare di tutti nella confusione di una generale incomprensione reciproca, dove a prevalere sono soltanto i puerili vagiti di meschini e infantili conati di potenza. E che un simile messaggio ci arrivi dal riflettere sul detestato e Islam, non è questione secondaria. Come al solito, si ripudia, si scaccia, e si teme, ciò che non si conosce.

Jean-Baptiste Brenet, Averroès l’inquiétant, Paris, Les Belles Lettres, 2017. pagg. 146, € 19 in Francia, 21,90 in Italia.
1Da hyle, ὕλη, materia, contrapposta a dynamis, δύναμις, potenza, nella terminologia aristotelica e scolastica. Potremmo volgarizzare in materiomorfico.

giovedì 25 luglio 2019

Le donne al Parlamento






Le Ἐκκλησιάζουσαι, Ekklesiázousai, le donne al parlamento, come di solito si traduce, di Aristofane, sono una commedia politica di circa 2.400 anni fa (391 a. C.), che al solito, ridicolizza le teorie di Socrate, Platone e compagni. In questo caso l’idea della comunione dei beni, auspicata da Platone nella Repubblica, per la formazione della classe dirigente dello Stato. Che cosa può conservare oggi di attuale una commedia smaccatamente reazionaria, come questa? A parte il fatto che un dramma o una commedia riusciti sono sempre attuali, con i venti che tirano, l’attacco a una gestione comunitaria del potere non può che trovare consensi nel pubblico di oggi. Aristofane poi immagina che la riforma, o rivoluzione, sia compiuta dalle donne. Proprio a sminuirne, dunque, l’importanza e l’efficacia. Ma il teatro è rappresentazione, non comizio, e la rappresentazione può offrirsi a molte e divergenti interpretazioni. Abilissimo drammaturgo, Aristofane dà voce anche a personaggi che detesta, sa incarnare anche idee che non gli piacciono. Atene da Stato democratico stava diventando preda di demagoghi, oggi diremmo populisti. L’aristocratico Aristofane li bersaglia. E coglie nel segno, ma nello stesso tempo solleva questioni che ancora oggi tormentano popoli e statisti. A cominciare dalle discriminazioni di genere. 

 

La trama è stranota. Con un colpo di mano le donne s’impossessano della maggioranza dell’assemblea popolare. E sta iliscono che tutti i beni siano messi in comune. Anche il sesso: uomini e donne possono copulare quando, come e con chi vogliono. A patto, però, che prima di far capriole con un fico fresco e sbarbato, se donna, o con una fica giovane e seducente, se uomo, si sbatta prima un vecchio o una vecchia. Anche il cazzo moscio e la fica spelacchiata (Aristofane quanto a linguaggio non ha imparato dalle Orsoline) hanno diritto alla chiavata che li facciano godere. Lo esige l’uguaglianza dei diritti. Su questa tragica e paradossale sconfitta del piacere la commedia si chiude. E sembra suggerire che il piacere non fa parte dei propositi di una democrazia. Oppure che invece proprio in questo consiste la democrazia, che il piacere sia di tutti. La risposta se la dia ciascuno, tra di sé, quando ha finito di vedere la commedia. Il teatro non giudica, ma rappresenta.



E proprio il piacere della beffa sembra muovere gli attori di questa rappresentazione. Che il pubblico condivide con loro. Con i caldi venti estivi non cerchiamo cogitazioni più profonde. Bravissima Prassagora è Giorgia Trasselli. Giancarlo Ratti dà voce al marito Blepiro. Ma bravi tutti quanti, e agile, spedita l’azione sulla scena. Che magari, però, la si sarebbe voluta, più scatenata, più vivacemente teatrale nei ritmi. La traduzione di Ettore Romagnoli funziona ancora (non così la sua traduzione delle tragedie). Giancarlo Sammartano ha immaginato la regia, senza gli orpelli antiquari, che spesso affliggono queste riprese moderne di commedie antiche. Piacevoli le musiche di Stefano Marcucci, che poteva anche osare di più sul pedale del musical. Scene essenziali, praticamente un fondale, di Daniela Catone. Se da qualche parte d’Italia riappare, andatela a vedere, questa commedia che sembra uno scherzo, ma ci demolisce, uno per uno, tutti i malsicuri pre-giudizi di genere e di democrazia che crediamo di possedere.


FONDAMENTA
Teatro e Teatri
Anfiteatro Romano di Sutri
Teatri di Pietra
Le Donne al Parlamento di Aristofane
traduzione di Ettore Romagnoli

Regia di Giancarlo Sammartano

giovedì 18 luglio 2019

L'accostamento all'opera d'arte




L’arte, in ogni epoca, in ogni popolo, in ogni cultura, si è sempre rivolta a un pubblico che ne condividesse i presupposti ideologici e culturali, ma soprattutto i codici d’interpretazione. L’arte universale, che tutti capiscono all’istante, al primo impatto, è una bufala inventata da alcuni scrittori romantici (non da tutti) e diventata epidemica nella società di massa. Ma perfino i romantici, quando parlavano di arte popolare, intendevano per popolo solo quello della cultura in cui una certa arte sorge, i greci per i poemi omerici, i popoli di lingua germanica per i canti nibelungici. Nasce questa idea subito fomentando un grande equivoco dalle conseguenze catastrofiche: l’assimilazione dell’identità linguistica con l’identità nazionale, e da qui i dilaganti nazionalismi, che hanno scatenato due guerre mondiali, e che oggi si sono trasformati, lillipuzianamente, in sovranismi. Ma proprio questo radicamento nella cultura del tempo e in quella di una ristretta fascia del popolo che la produce, richiede oggi a chi vuole godere dell’arte del passato la fatica di fornirsi degli strumenti culturali per intenderne i codici. La lingua in cui è scritta la Divina Commedia si parlava solo a Firenze e non era intesa che dai fiorentini. L’operazione di Dante fu di allargarne il campo semantico e di renderla comprensibile anche a chi non parlava fiorentino. Ma ci vollero decenni. Già poco dopo la sua pubblicazione fiorirono i commenti al poema, per renderne più corretta la comprensione. Anche ai fiorentini stessi, visto il profluvio di parole non fiorentine (latinismi, grecismi, veneziano, lucchese, bolognese, e altre parlate locali) che sono disseminate nel poema. Per non parlare dei termini tecnici, scientifici, filosofici, poetici, artistici (la divagazione sulle miniature, nel Purgatorio, per esempio) che lo percorrono da cima a fondo (“l’amor che move il sole e l’altre stelle”, verso che chiude il poema, non si capisce se non si fa riferimento alla teoria del Primo Motore Immobile della cosmologia aristotelica tolemaica tomistica).

E' sgradevole, certo, per molti, riconoscerlo. Ma l'arte del passato non si rivolgeva a tutti, bensì solo alla ristretta, anzi ristrettissima élite - si élite! - che ne condivideva cultura e codici. Anche il teatro, che sembra fenomeno più "popolare", aveva, rispetto alla massa degli analfabeti, un pubblico piccolo, ristretto, borghesia, artigiani, non certo contadini, operai, schiavi. E anche se non capivano tutto, come non capivano, capivano il linguaggio, condividevano le convenzioni. Quando si fa la retorica del melodramma "popolare", nel nostro Risorgimento, si dimentica che quel "popolo" non raggiungeva il 10 % della popolazione della penisola. il Risorgimento fu un movimento d'élite, ristretto, per niente popolare, anzi alla fine solo politico, Mazzini tentò di farlo diventare un movimento di massa, ma non ci riuscì. Il fallimento di Mazzini resta il problema irrisolto dello Stato italiano. Se ne può piangere, ma questi sono i fatti. La società italiana si rispecchia nei Crispi, nei Mussolini, nei Berlusconi, nei Salvini, e non certo nei Gobetti, nei Salvemini, negli Spadolini. Togliatti lo aveva capito. Ma il suo patto con i cattolici ha prodotto la catastrofe di oggi.

Ecco, oggi. La società di massa permette a tutti di usufruire di tutto. Anche di ciò che non è possibile capire al primo impatto. E l’uomo-massa pretende invece di capire tutto e subito e di avere il diritto di giudicare tutto e subito. Pensa che questo sia democratico. Ma democratico non è che tutti possano capire tutto e subito, bensì democratico è permettere a tutti di avere la possibilità di fornirsi quegli strumenti necessari a capire anche ciò che non si afferra subito, anche ciò che richiede informazioni e cultura, oltre che conoscenze specifiche. La fisica quantistica non è democratica perché tutti la conoscono e la capiscono, ma perché tutti, in uno Stato democratico che abbia un sistema d’istruzione democratico, possano studiarla, conoscerla e capirla. Robert Schumann, alle origini della moderna società di massa, scrive al riguardo, in un bellissimo aforisma: “Il filisteo vuole capire in un attimo ciò che all’artista è costato giorni, magari mesi, forse addirittura anni di lavoro”. Il filisteo schumanniano è quello che oggi è chiamato piccolo borghese. Perché poi alla fine si ritorna lì, anche l’arte è una questione di classe. E’ scritta, prodotta da una classe. Per una classe. Se un’altra classe vuole conoscerla e appropriarsene, deve impararla. Non lo dico io: lo scrive Marx nel Manifesto. La cultura di un’altra epoca, di un’altra classe, non la si consuma come un hamburger. La si apprende. Oggi invece la si vuole consumare, subito e in fretta. Un quadro richiede tempo a essere guardato, un libro a essere letto, una musica a essere ascoltata – ascoltata, non semplicemente udita: la differenza è sostanziale.

Invece per un’interpretazione musicale, per esempio, oggi spesso si parla di Pathos partecipato, condiviso, di emozione o di noia. Le emozioni, certo, sono legittime, e anzi fanno parte del rapporto con un’opera d’arte, ma non sono un metro di giudizio, quando se ne voglia parlare o addirittura scriverne. Bach non lo si può ascoltare senza filtri culturali con l’orecchio di oggi, e tanto meno è lecito discuterne. Un musicista così intellettuale come Bach richiede che entrino in campo altri fattori, come appunto la costruzione musicale, il senso di quella costruzione, le teorie musicali del tempo. Non si tratta di essere "ragionieri", come qualcuno mi rimprovera, quando scrivo queste cose, si tratta, più semplicemente, di rispettare la scrittura, la cultura del compositore e del suo tempo. Bach non è un compositore romantico, che si rivolga all’ascoltatore “ingenuo”, anche se certamente si rivolge anche al sentimento dell’ascoltatore, i suoi intenti sono altri. Allora, ecco che se si entra nella sua logica costruttiva, nel suo bisogno di discorsività, e le si ascolta rispettate, si prova sicuramente un’emozione, anzi un'emozione immensa, molto più profonda di quella, superficialissima, futile, che si prova quando si pensa di avere sentito ciò che ci commuove al primo ascolto.

Faccio un confronto letterario. Dante è un poeta immenso, ed è così efficace, che può colpire anche a una prima lettura. ma questa lettura può essere fuorviante. Tutti si commuovono alla storia di Francesca e pensano che Dante le abbia reso omaggio dimenticandosi che è una dannata. Ed è una lettura romantica, totalmente sbagliata, anche se è per esempio la lettura di un de Sanctis. Dante si commuove, invece, per tutt'altre ragioni. Francesca gli si rivolge con il linguaggio dello Stil Novo. “Amor che al cor gentil ratto s'apprende”. ma poi introduce in questo linguaggio particolari di un realismo spiazzante: “la bocca mi baciò tutto tremante”. Non è più il linguaggio dello Stil Novo, ma della poesia realistica, e, anche, o soprattutto, dei poemi cavallereschi che Paolo e Francesca leggono e che inducono all’adulterio, com’è adultero l’amore di Ginevra e Lancillotto. Ed è ciò che l'ha dannata. Dante sente crollare tutta la sua impostazione spirituale, lo Stil Novo che idealizza la donna, ne fa un angelo salvatore, lo scopre invece ambiguo, deviante, scopre che l'amore non salva, ma può invece portare anche alla dannazione, la donna angelo non è solo angelo, ma è anche un corpo che ti seduce e ti travolge, una bocca che ti bacia. E alla fine del racconto, Dante perciò sviene. Il mondo, un intero mondo filosofico, poetico, una visione della vita, una condotta di vita, gli erano crollati addosso. Doveva pertanto ridiscuterla tutta quanta, la propria vita. Ed è quello che fa con il viaggio nell'oltretomba, per guida la Ragione di Virgilio nei primi due regni, e poi l’angelo divenuto Sapienza, Teologia, Beatrice, alla lettera: che dà beatitudine, nel Paradiso. Ci si rende conto di quanto sia più complessa questa lettura rispetto alla pur affascinante lettura romantica, ma che non riguarda Dante, bensì il lettore romantico? La storia di Paolo e Francesca non è una semplice storia di amore, di adulterio, ma una storia che ridiscute i principi della vita, la filosofia della vita. E la Commedia è un poema filosofico.

Torniamo a Bach. La sua musica si prefigge, tra l’altro, ma non solo, di rispecchiare l'ordine del cosmo con la geometria della costruzione contrappuntistica. Un po' come tre secoli prima (la cultura di derivazione pitagorica e neoplatonica è la stessa) Dufay nel mottetto per l'inaugurazione della cupola del Brunelleschi aveva costruito il tenor del mottetto sulle proporzioni dei raggi della cupola. E' un mottetto sublime. Commovente: nuper rosarum flores, Santa Maria del Fiore. Ma la commozione nasce non solo dalla bellezza oggettiva della musica, bensì anche (o soprattutto?) se si pensa alla complessità del messaggio trasmessa attraverso la complessità della costruzione musicale. Bach, quasi allo stesso modo, vuole utopisticamente rispecchiare l'ordine dell'universo nella sua musica, come fa Brunelleschi nell’architettura, Dufay nel mottetto, come fa Dante, nel suo poema al quale hanno messo mano cielo e terra, ma vuole farlo – e qui sta la novità, la modernità - attraverso un procedere discorsivo, parlante, della musica: l’architettura contrappuntistica c’è, ma non è esibita, non è l’intento poetico, bensì lo strumento della poetica. Lo sforzo, dunque, non si deve sentire, il calcolo (nelle variazioni Goldberg ci sono canoni a tutti gli intervalli e l'intervallo di ciascun canone è dato progressivamente dalla sua collocazione nella serie delle variazioni divisa per tre: la terza variazione è un canone all'unisono, la sesta alla seconda, la nona alla terza, e così via). Ma quest'intelaiatura artificiosa e intellettualistica deve sfociare in un discorso scorrevole, risultare all’ascolto fluida come l’acqua che scorre. Ora, per esempio, tutto ciò nell'interpretazione di Gould si perde. Non c'è l'intelaiatura e non c'è la scorrevolezza.

Molti, anche, avanzano come argomento di giudizio sul valore dell’interpretazione di un musicista, la propria reazione emotiva. Legittima, si badi. Ma non è argomento di giudizio, bensì di gusto. Dire di un’esecuzione: mi fa dormire, è noiosa, non resisto per più di qualche minuto, non è un giudizio: è solo la registrazione di un personale riflesso emotivo, non riguarda né l’interpretazione, né l’opera, ma il proprio reagire all’interpretazione e all’opera. Molti dormono anche alla lettura di un dialogo di Platone, o alle interpretazioni mozartiane di Bruno Walter. O esaltano, in contrasto, le inattendibili ed enfatiche interpretazioni di Karajan (sublime in Wagner e Bruckner, ma non certo in Mozart). Reazioni individuali che non costituiscono argomentazione. Si ascoltino con attenzione le interpretazioni scarlattiane o bachiane di Ross sul clavicembalo. E mi si dica solo quanto di quella fluidità discorsiva resta nell'interpretazione di un sempre troppo osannato Glenn Gould. Ecco: zero. E proprio sulla discorsività si regge invece tutta la costruzione musicale bachiana. Tanto che il suo amico Birnbaum, per difenderlo dagli attacchi di un altro professore dell’Università di Lipsia, che accusava Bach di non essere moderno, di essere artificioso, di essere noioso (gli stessi argomenti di alcuni ascoltatori di oggi!) paragona la sua costruzione musicale alla tradizionale (Quintiliano) costruzione retorica di un discorso. Se non si capisce che la musica dal seicento al settecento, prima dell'irruzione dei romantici, che comunque non abbandonano questa impostazione discorsiva, si regge proprio sulla discorsività, sul confronto tra le figure retoriche dell'orazione e il procedere di figure musicali che ne imitano musicalmente il procedimento, si rinuncia a capire due secoli di musica, per intenderci la musica da Frescobaldi a Mozart. L'eccitazione epidermica non ha niente a che vedere con la sensibilità musicale. "Affetto", o come diremmo oggi, sentimento e sensiblerie, per quanto possa apparire strano, sono un atteggiamento intellettuale e non un solleticamento dei sensi. Avete mai sentito parlare di una Affektenlehre? Manuale dei sentimenti, eh già: manuale! mica istinto incolto. La reazione immediata, dunque, può cogliere il vero senso di un’opera solo se confortata dal necessario bagaglio culturale che l’opera richiede.

Già immagino l’obiezione. Ma come faccio, allora, proprio io che sostengo così decisamente l’indispensabilità di una bagaglio culturale per accostarsi all’opera d’arte, ad amare poi così spudoratamente le messe in scena moderne di opere classiche e barocche, e del teatro in genere? Non tradiscono, queste messe in scena che sfigurano e deformano l’opera, che stravolgono la collocazione temporale dell’azione, non deturpano di fatto l’opera stessa? Ma ci si rifletta. Le messe in scena moderne sono riscritture di opere del passato, riattualizzano il messaggio dell’opera o, più esattamente, lo rendono comprensibile al pubblico di oggi, che non condivide più i codici di quel tempo. L’impressione che una Traviata in costumi della metà dell’Ottocento sia più fedele all’idea che ne ha Verdi di una Traviata ambienta invece nella società di oggi, è un’impressione che nasce da una falsa idea. Perché a Verdi non interessava rappresentare una storia d’amore, ma contava invece proprio sulla percezione della contemporaneità dell’azione, per trasmettere un messaggio sociale, di denuncia sociale. Verdi, in qualche modo, anticipa il teatro borghese di Ibsen, anticipa Casa di bambola. Al pubblico di oggi una Traviata in abiti ottocenteschi fa l’impressione di una storia romantica, sentimentale, strappalacrime. Proprio ciò che Verdi non vuole rappresentare. Sfugge, cioè, la violenza con cui Verdi denuncia l’ipocrisia di una società che impone il rispetto dei ruoli sociali, un matrimonio tra Alfredo e Violetta è insostenibile, inammissibile, perché Violetta è una puttana (così Verdi la chiama nelle sue lettere). Poi, certo, c’è anche la passione di Violetta (di lei, più che di Alfredo), ma è una passione che si scontra contro le convenzioni sociali. La messa moderna mette in rilievo proprio questo scontro, porta in scena il conflitto sociale insuperabile, e perciò Violetta muore come un’eroina tragica, schiacciata dal conflitto. In questo caso, la messa in scena moderna svolge la stessa funzione che in un libro ha la nota a piè di pagina: commenta, spiega, ciò che accade sulla scena, lo illustra allo spettatore di oggi.

Del resto il teatro lo ha sempre fatto, ha sempre rappresentato le storie come storie contemporanee, anche quando sulla scena agivano gli antichi greci o gli antichi romani. Nella Bérénice di Racine, Tito chiama Berenice “Madame” e le dà del voi. Linguaggio della corte di Versailles, e non certo del Palazzo degli Imperatori Romani. Andiamo ancora più indietro: nell’Edipo a Colono di Sofocle, Teseo afferma che prima di decidere se accogliere o no il profugo Edipo, deve consultare l’assemblea, la Bulè, organo certo dell’Atene democratica e non certo dell’Atene monarchica del mito. Ma il pubblico al quale si rivolge Sofocle è il pubblico dell’Atene democratica. La pittura non agisce diversamente. L’Annunciazione di Leonardo non ambienta la scena nel primo secolo avanti Cristo, ma ci mostra una Madonna che è una gran Dama fiorentina del Quattrocento.

In conclusione: l’opera d’arte del passato, o di altri popoli e culture, che sia un libro, un quadro, una musica richiede la conoscenza della cultura che l’ha prodotta, e dunque tempo, fatica, studio. L’impatto immediato è consumistico, falso, fuorviante, a meno che non si possiedano gli strumenti culturali che lo favoriscano. Faccio un esempio estremo: se conosco il greco antico posso permettermi di commuovermi a leggere in greco l’Edipo Re di Sofocle. E ci si commuove, velo assicuro, Assai più che se lo si legge tradotto in italiano o lo si vede a teatro (ma dipende!). Se conoscete il greco antico, provate a leggere Saffo in greco. Nessuna traduzione rende la violenza espressiva del verso “μόνα κατεύδω” (sola giaccio, sto nel mio letto) che conclude un frammento famoso. Troppo radical chic? E se fosse solo competenza? Oggi tutto si consuma e si vuole consumare in fretta e subito. L’Anello del Nibelungo richiede almeno 20 ore di ascolto. L’Orlando Furioso giornate, mesi di lettura. La Tempesta di Giorgione qualche ora di osservazione per coglierne l’interminabile complessità.

Diverso è il discorso per l’arte di oggi, ma per il semplice fatto che il pubblico al quale è destinata ne condivide, spesso, anche se non sempre, e non per tutti, le premesse culturali. Il che, però, non impedisce che invece a molti, che hanno idealizzato in un passato immaginario il proprio modello di arte, l’arte di oggi appaia astrusa, incomprensibile, cervellotica, o perfino brutta. E così si ritorna al punto di partenza: che l’arte non è rivolta a tutti, ma solo a coloro che hanno gli strumenti culturali per capirne di volta in volta la particolare realizzazione. L’arte sarebbe, dunque, antidemocratica? Un affare di élite? Di élite, in un certo senso sì, se per élite però s’intenda chi possieda i codici per entrarvi dentro. Può essere dunque anche un intero popolo, o addirittura il mondo intero, per esempio nel caso di un film. O di una fortunata serie televisiva (che può essere arte, non arriccino il naso gli snob che disdegnano ciò che piace a tutti). Ma l’arte non è mai antidemocratica, perché – e ci s’intenda bene - vera democrazia non è essere subito capiti da tutti, ma fornire a tutti, di qualsiasi classe sociale siano, quegli strumenti adatti a far capire un’opera d’arte. A questo servono, tra l’altro, i commenti e le messe in scena moderne. Ma a questo dovrebbe servire soprattutto un’istruzione che permetta a tutti, a chi è interessato, a chi vuole, quegli strumenti senza i quali non è possibile accedere al godimento di un’opera d’arte, e non solo di essa, ma di tante altre cose. La più chiara confutazione, infatti, della concezione estetica che Croce ha dell’arte come pura intuizione è dimostrata dal fatto che poi Croce stesso si dimostra incapace di comprendere l’arte che non rientri nei codici di una certa ristretta tradizione letteraria, in particolare di quella italiana postrinascimentale. Dante gli è estraneo, come gli è estranea tutta la poesia moderna da Pascoli a Mallarmé (ma già Leopardi gli riesce estraneo). Poi, per una certa affinità diremmo sentimentale, gli riesce di scrivere pagine mirabili su Ariosto, su Corneille, e perfino su Goethe. Ma di Ariosto non coglie l’irrequietezza, lo scetticismo morale, di Corneille il disincanto barocco nei confronti della realtà – lo stesso di un Pascal, di un Calderón, di uno Shakespeare -, di Goethe l’inquietudine demoniaca, ciò che Freud avrebbe chiamato l’ “inquietante”. Del resto, di Freud Croce si liberò liquidandolo con un motto sprezzante, che non gli fa onore. Se vivesse, gli farebbe bene, gli schiarirebbe anzi, forse, le idee, un breve saggio, pubblicato da poco, di uno studioso francese di filosofia araba, Jean-Baptiste Brenet, Averroès, l’inquiétant. Dante, ammiratore del filosofo arabo, l’avrebbe divorato sillaba per sillaba, infischiandosene della condanna di San Tommaso (che però non esita a saccheggiarlo).

Fiano Romano, 18 luglio 2019



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