venerdì 26 luglio 2019

Jean-Baptiste Brenet, Averroès l'inquiètant




Per la teologia cristiana l’atto della creazione è avvenuto una volta per tutte, all’inizio dei tempi. L’universo continua a esistere per partecipazione della volontà divina, secondo San Tommaso. La teologia ebraica, anch’essa, pone all’inizio dei tempi la creazione. Ma poi correnti mistiche, e soprattutto la Kabalah, tendono a vedere nella realtà emanazioni della Potenza Divina. Schematizzo, e molto. Ultima, arriva la teologia islamica, che del pensiero ebraico conserva molto di più di quanto facciano i teologi cristiani. E si arriva perfino a pensare che l’atto della creazione non sia compiuto una volta per tutte, ma che la realtà esista perché Dio continuamente la ricrea. La volontà divina, nel pensiero islamico, ha dunque una funzione molto più cogente che nel pensiero cristiano, nel cui ambito, se mai, costituisce una corrente diversa dall’ortodossia tomista il pensiero di un Dun Scoto, che insiste sul primato della Volontà: il mondo è razionale non perché Dio si sia adeguato a principi razionali di costruzione, ma perché la Volontà Divina fa che sia razionale ciò che decide. Dante, per lo più tomista, per molti aspetti sembra talora, però, seguire Duns Scoto, per esempio quando considera l’armonia dell’universo “forma” della volontà divina. Tra i filosofi, e scienziati, arabi, che ebbero un immenso peso nello sviluppo del pensiero cristiano occidentale, c’è Averroè, che il gran Commento feo”, Abū l- Walīd Muḥammad ibn Rushd (Cordova 1126 - Marrākesh 1198). San Tommaso ne dipende, ma anche lo critica aspramente, anzi addirittura lo demonizza, come fomentatore di eresie. E non tanto per l’accusa di avere seguito troppo alla lettera Aristotele e decretare dunque che l’anima muore con il corpo:

Suo cimitero da questa parte hanno
con Epicuro tutt’i suoi seguaci
che l’anima col corpo morta fanno.

(Inferno, X, 13-15)

Dante giustamente nomina Epicuro e non Averroè, perché sa benissimo che la teoria dell’anima e dell’intelletto, in Averroè, è un’altra. Ciò che del pensiero di Averroè scandalizza i cristiani – e gli stessi teologi islamici – è la separazione dell’intelletto dall’individuo. L’uomo, quando pensa, non pensa individualmente, ma in lui pensa un intelletto separato, immateriale e immortale. Tale idea sembra distruggere l’unità dell’individuo, perché l’intelletto non è più concepito come la forma del corpo umano, ma un agente esterno che pensa in tutti i corpi degli uomini allo stesso modo, una sorta di Pensiero autonomo, immortale, che rende vero il pensiero umano. L’intelletto agente, insomma, è una sostanza puramente formale che pensa autonomamente riguardo all’individuazione particolare degli individui. Anche qui sto schematizzando molto. E’ quasi come se dicesse che quando pensiamo a pensare in noi è Dio stesso.
Quest’idea ha tormentato non solo i cristiani del Medio Evo, ma tutto il pensiero occidentale fino ad oggi. Si pensi, per esempio, alla violenza con cui è attaccata l’idea della Sostanza Unica concepita da Spinoza. Ed è su quest’orrore, su questo rifiuto della spersonalizzazione dell’individuo, che una società, come quella occidentale, fondata essenzialmente sull’esaltazione dell’individuo, fiera, anzi narcisisticamente della propria individualità, che ancora oggi lo scontro è violento, anche all’interno della stessa società occidentale, per esempio tra l’oggettività per alcuni inaccettabile, della scienza, nei confronti del comune sentire. Che poi non si tratti di vera oggettività (la scienza non ha mai sostenuto un’oggettività assoluta del sapere), ma solo di analisi non individualistica, non emotiva, della realtà è un altro discorso.
Ebbene, su questo complesso insieme di problemi ha scritto un libro denso, intenso, stimolante, e perfino eccitante, lo storico francese del pensiero arabo Jean-Baptiste Brenet, Averroès, l’inquiétant (Les Belles Lettres). Come si sa, gli studiosi francesi hanno prestato sempre una grande attenzione al pensiero islamico. Si pensi a Henry Corbin, allievo del grande studioso di filosofia medievale Etienne Gilson, e alla su Histoire de la philosophie islamique (folio-essais), e, tradotto in italiano, per Adelphi, a Corpo spirituale e Terra celeste. Libro splendido sul misticismo islamico. Brenet, a spiegare il turbamento, e il rifiuto, latino del pensiero di Averroè ricorre a un’idea di Freud: l’unheimlich, il perturbante. Il ritornare di esperienze infantili, o addirittura prenatali, della specie, della stessa materia vivente, come se anelasse a fermare, appagare l’irrequietezza, il desiderio che inquieta i viventi di esperienza in esperienza, fino alla quiete dell’imperturbabilità, al silenzio della non vita, all’inorganico. O, meglio, come precisa Brenet, a superare i limiti dell’individualità. Per Averroè, che riprende l’analisi di Aristotele, ad appagarsi nel puro atto di pensare, a trovare rifugio, e quiete, nell’impersonalità del pensare. Νόησις νοήσεως, pensiero del pensiero, pensiero che si pensa, per il filosofo greco, Dio, per il filosofo, e scienziato, arabo di Cordoba. Gli si attribuisce, falsamente, quella che poi venne chiamata la teoria della doppia verità. Una per i filosofi e gli scienziati, che spiega razionalmente la composizione del mondo, e l’altra, mitica, della religione, per il popolo. Averroè sostiene invece che la verità della fede e quella della scienza sono verità complementari, ma che mentre la religione spiega la realtà con le immagini e con i miti, solo la filosofia, solo la scienza ne comprendono l’essenza razionale allo stesso modo con cui la coglie Dio. Il filosofo, nel momento in cui pensa la realtà, la pensa con lo stesso pensiero di Dio. E ha perfettamente ragione. Nel senso che la razionalità non è qualcosa d’individuale, ma preesiste al pensiero individuale, in qualche modo il pensiero individuale si adegua a un principio esterno, non individuale, ma universale. Un teorema matematico non è valido perché lo impostano Pitagora o Euclide, ma perché chiunque voglia reimpostarlo deve impostarlo come lo impostano Pitagora ed Euclide. Ma lasciamo la parola allo stesso Brenet.

Ce qui ainsi est mortifère pour le composé hylémorphique1 n'est que la traduction, au lieu mème de sa souffrance, d'une positivité plus fondamentale, celle d’un désir de la matière du monde de correspondre à la plénitude actuelle de son Premier principe. Si l'étre flanche, s’épuise, et s'abat, c'est du fait que, à la racine de tout, la puissance .des choses tashe de:se diviniser. Parler de négatìvité, de retour à l'inanimé, à la mort, n'est pas assez, puisque la mort de l’individu manifeste la « vie» générale de la matière comme puissance de toutes les autres formes possibles. Le thanatos de l'étant, c'est l'eros de cette matière globale.
C'est cela que marque la compulsion de répétition noétique; c'est cela qui vient perturber les Latins – lesquels par ailleurs lisaient ce texte sans souci. Le concept qui se répète, l'intelligible pur qui se répète, se répète comme le signe d'une inclination de la matière première à retourner, en deçà de la vie de I'individu, de cet individu-ci, de cette personne, en deçà de toute privatisation, de toute appropriation, à son lieu commun, à sa nature de puissance commune tendue par l'attraction divine vers la réalisation de toutes les formes. Le plus pulsionnel de la pulsion n'est pas anti-vital, il est anti-personnel ; la répétition de la Pensée n’exprime pas un désir de retourner à l'anorganique, c'est-à-dire à la mort, mais un désir de contourner, de récouvrir la limite insignifiante de la vie singulière..
Principe typiquement averroïste : la personne ne compte pas. Nul n'est justifié comme personne en particulier, Pas d'élus - mème s'il faut une élite. Ce qui vaut, c’est l’espèce. C'est la permanence supra-individuelle de l'intelligible en acte, laquelle ne demande rien sinon la succession ininterrompue de corps humains quelconques. L’homme est mort, vive l'Homme ! On entend cela dans l'eternité de l'intellect. Et dans cela, l'érotique démoniaque de la matière anonyme”.
(Ciò che così è mortifero per il composto hylemorfico non è che la traduzione, nel luogo stesso della sua sofferenza, di una positività più fondamentale, quella di un desiderio della materia del mondo di corrispondere alla pienezza in atto del suo Primo principio. Se l’essere crolla, si esaurisce e si abbatte, ciò avviene perché, alla radice di tutto, la potenza delle cose tenta di divinizzarsi. Parlare di negatività, di ritorno all’inanimato, alla morte, non è affatto troppo, poiché la morte dell’individuo manifesta la “vita” generale della materia come potenza di tutte le altre forme possibili. Il thanatos dell’ente, è l’eros di questa materia globale.
Ed è quello che che marca la compulsione della ripetizione noetica; è quello che viene a perturbare i Latini – i quali d’altronde leggevano questo testo senza preoccupazione. Il concetto che si ripete, l’intelligibile puro che si ripete, si ripete come il segno di un’inclinazione della materia prima a ritornare, a dispetto della vita dell’individuo, di questo individuo qui, di questa persona, a dispetto di ogni privatizzazione, al suo luogo comune, alla sua natura di potenza comune tesa dall’attrazione divina verso la realizzazione di tutte le forme, Ciò che vi è di più pulsionale nella pulsione non è anti-vitale, è anti-personale; la ripetizione del Pensiero non esprime un desiderio di ritornare all’anorganico, cioè alla morte, ma un desiderio di aggirare, di ricoprire il limite insignificante della vita singola.
Principio tipicamente averroista: la persona non conta niente. Nessuno è giustificato come persona, in particolare. Non ci sono eletti – anche se c’è bisogno di un’élite. Ciò che conta, è la specie. E’ la permanenza sopra-individuale dell’intelligibile in atto, la quale non chiede niente altro se non la successione ininterrotta di corpi umani qualunque. L’uomo è morto, viva l’Uomo! Lo s’intende nell’eternità dell’intelletto. E in esso, l’erotico demoniaco della materia anonima).

In un epoca come la nostra, nella quale l’egocentrismo, l’egolatria, il narcisismo imperano. E tutti, invece di analizzare scientificamente, o quanto meno con il necessario distacco, la realtà, qualsiasi realtà, e argomentare la propria analisi, dicono io io io, io sento, io credo, io vedo, io penso, e non ascoltano, non si ascoltano, non accettano contraddittori, confutazioni, o semplicemente si rifiutano di discutere quanto si è affermato, questa del filosofo arabo, e dello studioso francese che ne riesamina il pensiero, mi sembra una bella lezione di umiltà. Un alto là necessario all’arroganza degl’impulsi prevaricatori, un sano e risanatore richiamo a confrontarsi con la concretezza delle cose in discussione, con la precisione dei termini e dei concetti. Pena, altrimenti, come sta avvenendo, il precipitare di tutti nella confusione di una generale incomprensione reciproca, dove a prevalere sono soltanto i puerili vagiti di meschini e infantili conati di potenza. E che un simile messaggio ci arrivi dal riflettere sul detestato e Islam, non è questione secondaria. Come al solito, si ripudia, si scaccia, e si teme, ciò che non si conosce.

Jean-Baptiste Brenet, Averroès l’inquiétant, Paris, Les Belles Lettres, 2017. pagg. 146, € 19 in Francia, 21,90 in Italia.
1Da hyle, ὕλη, materia, contrapposta a dynamis, δύναμις, potenza, nella terminologia aristotelica e scolastica. Potremmo volgarizzare in materiomorfico.

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