Per la teologia cristiana
l’atto della creazione è avvenuto una volta per tutte, all’inizio
dei tempi. L’universo continua a esistere per partecipazione della
volontà divina, secondo San Tommaso. La teologia ebraica, anch’essa,
pone all’inizio dei tempi la creazione. Ma poi correnti mistiche, e
soprattutto la Kabalah, tendono a vedere nella realtà emanazioni
della Potenza Divina. Schematizzo, e molto. Ultima, arriva la
teologia islamica, che del pensiero ebraico conserva molto di più di
quanto facciano i teologi cristiani. E si arriva perfino a pensare
che l’atto della creazione non sia compiuto una volta per tutte, ma
che la realtà esista perché Dio continuamente la ricrea. La volontà
divina, nel pensiero islamico, ha dunque una funzione molto più
cogente che nel pensiero cristiano, nel cui ambito, se mai,
costituisce una corrente diversa dall’ortodossia tomista il
pensiero di un Dun Scoto, che insiste sul primato della Volontà: il
mondo è razionale non perché Dio si sia adeguato a principi
razionali di costruzione, ma perché la Volontà Divina fa che sia
razionale ciò che decide. Dante, per lo più tomista, per molti
aspetti sembra talora, però, seguire Duns Scoto, per esempio quando
considera l’armonia dell’universo “forma” della volontà
divina. Tra i filosofi, e scienziati, arabi, che ebbero un immenso
peso nello sviluppo del pensiero cristiano occidentale, c’è
Averroè, che il gran Commento feo”,
Abū
l- Walīd Muḥammad ibn Rushd
(Cordova 1126 - Marrākesh 1198).
San Tommaso ne dipende, ma anche lo critica aspramente, anzi
addirittura lo demonizza, come fomentatore di eresie. E non tanto per
l’accusa di avere seguito troppo alla lettera Aristotele e
decretare dunque che l’anima muore con il corpo:
Suo
cimitero da questa parte hanno
con
Epicuro tutt’i suoi seguaci
che
l’anima col corpo morta fanno.
(Inferno,
X, 13-15)
Dante
giustamente nomina Epicuro e non Averroè, perché sa benissimo che
la teoria dell’anima e dell’intelletto, in Averroè, è un’altra.
Ciò che del pensiero di Averroè scandalizza i cristiani – e gli
stessi teologi islamici – è la separazione dell’intelletto
dall’individuo. L’uomo, quando pensa, non pensa individualmente,
ma in lui pensa un intelletto separato, immateriale e immortale. Tale
idea sembra distruggere l’unità dell’individuo, perché
l’intelletto non è più concepito come la forma del corpo umano,
ma un agente esterno che pensa in tutti i corpi degli uomini allo
stesso modo, una sorta di Pensiero autonomo, immortale, che rende
vero il pensiero umano. L’intelletto agente, insomma, è una
sostanza puramente formale che pensa autonomamente riguardo
all’individuazione particolare degli individui. Anche qui sto
schematizzando molto. E’ quasi come se dicesse che quando pensiamo
a pensare in noi è Dio stesso.
Quest’idea
ha tormentato non solo i cristiani del Medio Evo, ma tutto il
pensiero occidentale fino ad oggi. Si pensi, per esempio, alla
violenza con cui è attaccata l’idea della Sostanza Unica concepita
da Spinoza. Ed è su quest’orrore, su questo rifiuto della
spersonalizzazione dell’individuo, che una società, come quella
occidentale, fondata essenzialmente sull’esaltazione
dell’individuo, fiera, anzi narcisisticamente della propria
individualità, che ancora oggi lo scontro è violento, anche
all’interno della stessa società occidentale, per esempio tra
l’oggettività per alcuni inaccettabile, della scienza, nei
confronti del comune sentire. Che poi non si tratti di vera
oggettività (la scienza non ha mai sostenuto un’oggettività
assoluta del sapere), ma solo di analisi non individualistica, non
emotiva, della realtà è un altro discorso.
Ebbene,
su questo complesso insieme di problemi ha scritto un libro denso,
intenso, stimolante, e perfino eccitante, lo storico francese del
pensiero arabo Jean-Baptiste Brenet, Averroès, l’inquiétant
(Les Belles Lettres). Come si sa, gli studiosi francesi hanno
prestato sempre una grande attenzione al pensiero islamico. Si pensi
a Henry Corbin, allievo del grande studioso di filosofia medievale
Etienne Gilson, e alla su Histoire de la philosophie islamique
(folio-essais), e, tradotto in italiano, per Adelphi, a Corpo
spirituale e Terra celeste. Libro splendido sul misticismo
islamico. Brenet, a spiegare il turbamento, e il rifiuto, latino del
pensiero di Averroè ricorre a un’idea di Freud: l’unheimlich, il
perturbante. Il ritornare di esperienze infantili, o addirittura
prenatali, della specie, della stessa materia vivente, come se
anelasse a fermare, appagare l’irrequietezza, il desiderio che
inquieta i viventi di esperienza in esperienza, fino alla quiete
dell’imperturbabilità, al silenzio della non vita, all’inorganico.
O, meglio, come precisa Brenet, a superare i limiti
dell’individualità. Per Averroè, che riprende l’analisi di
Aristotele, ad appagarsi nel puro atto di pensare, a trovare rifugio,
e quiete, nell’impersonalità del pensare. Νόησις
νοήσεως, pensiero del pensiero,
pensiero che si pensa, per il filosofo greco, Dio, per il filosofo, e
scienziato, arabo di Cordoba. Gli si
attribuisce, falsamente, quella che poi venne chiamata la teoria
della doppia verità. Una per i filosofi e gli scienziati, che spiega
razionalmente la composizione del mondo, e l’altra, mitica, della
religione, per il popolo. Averroè sostiene invece che la verità
della fede e quella della scienza sono verità complementari, ma che
mentre la religione spiega la realtà con le immagini e con i miti,
solo la filosofia, solo la scienza ne comprendono l’essenza
razionale allo stesso modo con cui la coglie Dio. Il filosofo, nel
momento in cui pensa la realtà, la pensa con lo stesso pensiero di
Dio. E ha perfettamente ragione. Nel senso
che la razionalità non è qualcosa d’individuale, ma preesiste al
pensiero individuale, in qualche modo il pensiero individuale si
adegua a un principio esterno, non individuale, ma universale. Un
teorema matematico non è valido perché lo impostano Pitagora o
Euclide, ma perché chiunque voglia reimpostarlo deve impostarlo come
lo impostano Pitagora ed Euclide. Ma lasciamo la parola allo stesso
Brenet.
“Ce
qui ainsi est mortifère pour le composé hylémorphique1
n'est que la traduction, au lieu mème de sa souffrance, d'une
positivité plus fondamentale, celle d’un désir de la matière du
monde de correspondre à la plénitude actuelle de son Premier
principe. Si l'étre flanche, s’épuise, et s'abat, c'est du fait
que, à la racine de tout, la puissance .des choses tashe de:se
diviniser. Parler de négatìvité, de retour à l'inanimé, à la
mort, n'est pas assez, puisque la mort de l’individu manifeste la «
vie» générale de la matière comme puissance de toutes les autres
formes possibles. Le thanatos de l'étant, c'est
l'eros de cette matière globale.
C'est
cela que marque la compulsion de répétition noétique; c'est cela
qui vient perturber les Latins – lesquels par ailleurs lisaient ce
texte sans souci. Le concept qui se répète, l'intelligible pur qui
se répète, se répète comme le signe d'une inclination de la
matière première à retourner, en deçà de la vie de
I'individu, de cet individu-ci, de cette
personne, en deçà de toute privatisation, de
toute appropriation, à son lieu commun, à sa nature de puissance
commune tendue par l'attraction divine vers la réalisation de toutes
les formes. Le plus pulsionnel de la pulsion n'est pas anti-vital, il
est anti-personnel ; la répétition de la Pensée n’exprime pas un
désir de retourner à l'anorganique, c'est-à-dire à la mort, mais
un désir de contourner, de récouvrir la limite insignifiante de la
vie singulière..
Principe
typiquement averroïste : la personne ne compte pas. Nul n'est
justifié comme personne en particulier, Pas d'élus - mème s'il
faut une élite. Ce qui vaut, c’est l’espèce. C'est la
permanence supra-individuelle de l'intelligible en acte, laquelle ne
demande rien sinon la succession ininterrompue de corps humains
quelconques. L’homme est mort, vive l'Homme ! On entend cela dans
l'eternité de l'intellect. Et dans cela, l'érotique démoniaque de
la matière anonyme”.
(Ciò
che così è mortifero per il composto hylemorfico non è che la
traduzione, nel luogo stesso della sua sofferenza, di una positività
più fondamentale, quella di un desiderio della materia del mondo di
corrispondere alla pienezza in atto del suo Primo principio. Se
l’essere crolla, si esaurisce e si abbatte, ciò avviene perché,
alla radice di tutto, la potenza delle cose tenta di divinizzarsi.
Parlare di negatività, di ritorno all’inanimato, alla morte, non è
affatto troppo, poiché la morte dell’individuo manifesta la “vita”
generale della materia come potenza di tutte le altre forme
possibili. Il thanatos dell’ente, è l’eros
di questa materia globale.
Ed
è quello che che marca la compulsione della ripetizione noetica; è
quello che viene a perturbare i Latini – i quali d’altronde
leggevano questo testo senza preoccupazione. Il concetto che si
ripete, l’intelligibile puro che si ripete, si ripete come il segno
di un’inclinazione della materia prima a ritornare, a
dispetto della vita dell’individuo, di questo individuo
qui, di questa persona, a
dispetto di ogni privatizzazione, al suo luogo comune, alla sua
natura di potenza comune tesa dall’attrazione divina verso la
realizzazione di tutte le forme, Ciò che vi è di più pulsionale
nella pulsione non è anti-vitale, è anti-personale; la ripetizione
del Pensiero non esprime un desiderio di ritornare all’anorganico,
cioè alla morte, ma un desiderio di aggirare,
di ricoprire il limite insignificante della vita singola.
Principio
tipicamente averroista: la persona non conta niente. Nessuno è
giustificato come persona, in particolare. Non ci sono eletti –
anche se c’è bisogno di un’élite. Ciò che conta, è la specie.
E’ la permanenza sopra-individuale dell’intelligibile in atto, la
quale non chiede niente altro se non la successione ininterrotta di
corpi umani qualunque. L’uomo è morto, viva l’Uomo! Lo s’intende
nell’eternità dell’intelletto. E in esso, l’erotico demoniaco
della materia anonima).
In
un epoca come la nostra, nella quale l’egocentrismo, l’egolatria,
il narcisismo imperano. E tutti, invece di analizzare
scientificamente, o quanto meno con il necessario distacco, la
realtà, qualsiasi realtà, e argomentare la propria analisi, dicono
io io io, io sento, io credo, io vedo, io penso, e non ascoltano, non
si ascoltano, non accettano contraddittori, confutazioni, o
semplicemente si rifiutano di discutere quanto si è affermato,
questa del filosofo arabo, e dello studioso francese che ne riesamina
il pensiero, mi sembra una bella lezione di umiltà. Un alto là
necessario all’arroganza degl’impulsi prevaricatori, un
sano e risanatore richiamo a confrontarsi con la concretezza delle
cose in discussione, con la precisione dei termini e dei concetti.
Pena, altrimenti, come sta avvenendo, il precipitare di tutti nella
confusione di una generale incomprensione reciproca, dove a prevalere
sono soltanto i puerili vagiti di meschini e infantili conati di
potenza. E che un simile messaggio ci arrivi dal riflettere sul
detestato e Islam, non è questione secondaria. Come al solito, si
ripudia, si scaccia, e si teme, ciò che non si conosce.
Jean-Baptiste
Brenet, Averroès l’inquiétant,
Paris, Les Belles Lettres, 2017. pagg. 146, € 19 in Francia, 21,90
in Italia.
1Da
hyle, ὕλη, materia,
contrapposta a dynamis, δύναμις,
potenza, nella terminologia aristotelica e
scolastica. Potremmo volgarizzare in materiomorfico.
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