giovedì 8 agosto 2019

Domenico Scarlatti. Alio Modo




 
Domenico Scarlatti, Alio Modo
Scarlatti, Soler, De Albéniz, De Albero, López. Sic! Sulla copertina.

Amaya Fernández Pozuelo, clavicembalo

stradivarius STR 37140

Premessa linguistica: in spagnolo il de davanti al cognome non fa parte, diversamente dall’italiano, del cognome. Si usa solo dopo il nome personale. Miguel de Cervantes. Ma Cervantes, senza il nome. Pertanto l’elenco dei musicisti nella copertina – Scarlatti, Soler, De Albéniz, De Albero, López – è sbagliato. La scrittura corretta è: Scarlatti, Soler, Albéniz, Albero, López. I nomi e cognomi completi sono: Domenico Scarlatti, Antonio Soler, Marco Pérez de Albéniz, Sebastián de Albero (da accentarsi Albéro, e non Álbero), Félix Máximo López. Inoltre il de va scritto sempre con l’iniziale minuscola. Ciò dimostra, certo, la poca dimestichezza che in genere gli italiani hanno con la lingua spagnola e le sue tradizioni. Il discorso, però, si potrebbe allargare anche al francese e al tedesco, perché anche in francese il de e in tedesco il von non fanno parte del cognome. Alfred de Musset. Ma Musset, senza il nome. E così Herbert von Karajan. Ma Karajan, senza il nome.

Ma – ciò premesso – su questa bellissima incisione di sonate scarlattiane e pagine di altri musicisti coevi o di poco posteriori si potrebbe tenere un corso universitario di filologia musicale – anzi, di filologia tout court - e d’interpretazione. E cominciamo dal sottotitolo: Alio Modo. In altro modo. Si sarebbe potuto anche scrivere: Unus ex multis modis. Uno dei molti modi. Perché qui sta il nodo della bella proposta interpretativa di Amaya Fernández Pozuelo . Oggi è di moda dire spesso di un’interpretazione musicale che è un’interpretazione di riferimento, e in genere ci si riferisce a qualche incisione discografica, come questa del resto, che tuttavia non si propone affatto come modello definitivo, ma solo come un’indicazione di possibile interpretazione della pagina scritta. Il discorso è complesso, e si presta a molti equivoci. Nell’opinione corrente, poi, regna la massima confusione, anche tra musicisti. Ci sono musicisti che si vantano di eseguire solo ciò ch’è scritto. Si vantano di una cosa impossibile. Quanto allegro un allegro e quanto adagio un adagio? O che mezzo forte rispetto a quale forte?

Ma, sgomberato il terreno da questo primo equivoco, che cioè esista un’unico modo d’interpretare una partitura, quello, cioè, di eseguire alla lettera ciò ch’è scritto, si aprono un’infinità di problemi, dei quali alcuni risolve la filologia, altri la ricerca storica, ma i più restano affidati a ciò che Frescobaldi chiama “rimettersi al buon gusto e fino giuditio del sonatore”. Come a dire che, prima di sedersi davanti alla tastiera di un clavicembalo o di un organo, o di salire su un podio a dirigere un complesso strumentale o vocale, o misto, all’interprete occorre possedere la cultura condivisa dal compositore che interpreta e magari anche del proprio tempo per cogliere le differenze d’impostazione della lettura musicale tra la propria epoca e quella del compositore interpretato. Ma esaminiamo più a fondo la questione.

L’idealizzazione romantica dell’opera d’arte ci ha abituati a considerare sacro, intoccabile il modo in cui essa ci si presenta. Ma riteniamo che l’opera sia la pagina scritta. E pensiamo perciò che una sonata di Beethoven sia la sua partitura. In realtà la partitura è un’indicazione, un manuale per come la si debba realizzare. La sonata si ha realmente solo quando essa viene realizzata sullo strumento al quale è dedicata (poco importa, poi, se questa realizzazione possa essere puramente mentale, nel senso che il lettore la realizza nella propria testa). Non diversamente, tutto questo, da quanto si pensa esi dice del teatro, altra arte che richiede l’attuazione di un interprete. Il dramma si ha quando lo si rappresenta sulla scena. Per quanto alta sia la scrittura letteraria dell’Edipo a Colono di Sofocle o del Re Lear di Shakespeare, la tragedia di Sofocle e quella di Shakespeare conoscono la loro realizzazione solo quando sono rappresentate sulla scena (anche qui, poco importa se questa realizzazione è immaginata dal lettore). Il testo letterario è, in effetti, nella sua vera funzione, un copione. Così come una partitura è l’appunto per un’esecuzione.

Esistono culture musicali che fanno a meno della scrittura, ma non per questo la loro musica è meno musica di quella scritta. E non mi riferisco solo al jazz, alla musica popolare. Ma penso per esempio alla tradizione classica indiana o persiana o cinese, nelle quali la scrittura non ha assunto la funzione invasiva della nostra musica occidentale, e anche in questa comunque il fenomeno è relativamente recente. I cori della tragedia greca, i canti liturgici cristiani, non erano scritti, furono tramandati per via orale. Solo dall’VIII secolo si comincia a parlare, in Occidente, di scrittura musicale nel senso con cui l’intendiamo oggi (nella chiesa bizantina qualche secolo prima). Ma ciò non significa che la scrittura fosse allora o più rozza o insufficiente, era ciò che serviva ai cantori per realizzare un canto. E così pure in seguito non è che, per esempio, che so, le intavolature per liuto o le partiture dei madrigali fossero troppo scarne, bastavano per ciò che si chiedeva all’esecutore.

Siamo noi che oggi abbiamo problemi a realizzare le musiche del passato, perché non possediamo più le cognizioni necessarie a realizzarla che allora si tramandavano con la pratica. Ecco quindi a che cosa serve la filologia da una parte, cioè la disciplina che restituisce le scritture nella maniera più fedele possibile a come furono scritte, e la conoscenza storica, lo studio di testimonianze, manuali, opere teoriche dell’epoca, che c’informano appunto su quella pratica di cui non abbiamo più cognizione. Oggi è assolutamente non già impossibile, ma scorretto, suonare Bach senza conoscere la cultura musicale da cui nasce la sua musica. Anche si volesse stravolgerla, o reinventarlo, si deve comunque partire da quella cultura. 

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Ma c’è un altro tassello da aggiungere. Altro luogo comune è, infatti, che la musica, tra le arti, sia quella che ha bisogno di un intermediario, l’interprete. A parte il fatto che ciò è vero solo in parte e solo per gli ultimi due secoli, e anche qui non sempre, c’è da dire che anche la poesia, anche un quadro, un romanzo non ci arrivano direttamente dalla mente dell’autore. La poesia la leggo con la mia cultura, la mia sensibilità di oggi, non con la cultura e la sensibilità del poeta che l’ha scritta. Il quadro non lo vedo con gli occhi del pittore che l’ha dipinto, ma con i miei occhi che associano a disegno e colore tutt’altre sensazioni e idee da quelle del pittore. Se poi l’epoca è distante, le differenze sono spesso causa di fraintendimenti. Le lingue cambiano. Le parole di “Tanto gentile e tanto onesta pare”, sonetto famosissimo di Dante oggi significano tutt’altro da ciò che significavano nel Duecento. Gentile significa nobile, pare significa appare, non sembra. Per non parlare del teatro. Chi rimprovera ai registi moderni di travisare il testo, ignora o trascura il fatto che già il testo è un travisamento della storia che porta sulla scena. Teseo, eroe mitico, e signore assoluto di Atene, nell’Edipo a Colono di Sofocle, dice di dover consultare l’assemblea popolare, prima di poter deliberare di accogliere il profugo Edipo. Parla insomma come un arconte dell’Atene democratica, perché il pubblico che l’ascolta è il pubblico dell’Atene democratica del V sec. a. C. Ma torniamo, finalmente, alla scrittura musicale.

Non solo. Ma dimentichiamo anche che i committenti e i consumatori dell’arte del passato condividevano la cultura degli artisti, e anzi spesso ne condividevano anche le conoscenze tecniche, almeno fino al Romanticismo. Baltasar Castiglione nel Cortegiano scrive che un cortegiano, oggi diremmo un uomo colto, un intellettuale, che non conosca la musica, non solo non è un buon cortegiano, ma non è degno nemmeno di essere considerato un cortegiano, cioè un uomo colto. All’università, fino al Rinascimento, la musica era una disciplina obbligatoria. Dante la conosceva. E conosceva la polifonia. Gesualdo da Venosa era un principe. E ha composto madrigali sublimi. Il poligrafo fiorentino Antonfracesco Doni ci ha lasciato un Dialogo della Musica, nel quale ha inserito due madrigali da lui composti. Federico II di Prussia conosceva la musica, suonava il flauto e componeva. La distanza tra compositore e pubblico comincia nel secondo Ottocento, in Italia molto prima, perché l’esperienza musicale fondamentale era il melodramma, dunque un’esperienza passiva. Senza contare che tra gli intellettuali italiani, con l’eccezione di pochi, Leopardi, Mazzini, la musica non era considerata, a differenza dei francesi e dei tedeschi o degli inglesi, un’attività intelettuale. E Francesco De Sanctis vi diede il colpo di grazia estromettendone lo studio nell’istruzione superiore e universitaria, quando fu nominato ministro dell’Educazione. Croce riconfermò questa posizione, al punto di scrivere I teatri di Napoli, senza accennare al ruolo della musica napoletana nell’invenzione della musica moderna. Ma torniamo alla scrittura musicale.

Da settecento in poi i compositori infittiscono sulla pagina le notazioni perché gli interpreti non si sbaglino sulla corretta interpretazione di ciò che leggono. Ma nonostante questa preoccupazione di scrivere meglio e di più, di pubblicare anzi perfino dei manuali in cui si spiega come risolvere, per esempio, gli abbellimenti (ed è assai divertente, ma soprattutto istruttivo, vedere come essi differiscano tra loro), la scrittura non può registrare tutto, non può suggerire le intenzioni, o meglio, le suggerisce attraverso notazioni che rinviano a una pratica nota. Resta comunque sempre un ampio margine lasciato al “buon gusto e fine giuditio del sonatore”.
Ecco, questa registrazione vuole rendere udibile, far percepire quel margine. Alcune scelte potranno sembrare arbitrarie, abituati come siamo a una restituzione pedantesca della lettera. Ma – state attenti - l’inserimento di fioriture e abbellimenti, di variazioni, la libertà del fraseggiare, fermarsi un po’ sulla dissonanza prima della sua risoluzione, la realizzazione arpeggiata degli accordi, e altre varianti che sembrano tradire il testo, erano invece pratica abituale, diffusa. Tanto più che spesso l’interprete era sovente lo stesso compositore. E spesso improvvisava. Ma bisogna intendersi tuttavia sull’improvvisazione. Non è buttare giù note senza regole, ma seguire un piano strutturale suggerito da un intervallo, da un ritmo. E Scarlatti spesso improvvisava le sue “sonate” (il termine non è usato da lui, che nella raccolta pubblicata le chiama “essercizi”, un po’ come Bach chiama le sue scritture per tastiera “Übung”), prima di scriverle o di dettarle.

Nell’attuale insegnamento italiano l’improvvisazione, a differenza di quanto accade nei conservatori francesi, è trascurata. Ed è un peccato. Aiuterebbe gli interpreti a capire meglio certe particolarità della scrittura non solo di Scarlatti, ma anche di Mozart, per esempio, e soprattutto, di Beethoven, e poi di Schumann e di Chopin. A capire, soprattutto, la libertà della scrittura, che non è mancanza di rigore, ma controllo dello stesso procedimento improvvisativo.

Nel cd la bravissima Amaya Fernández Pozuelo associa pagine di compositori contemporanei o di poco posteriori a Domenico Scarlatti. Pagine godibilissime, che oltretutto testimoniano la comune ispirazione dal canto popolare iberico. Ma che mettono in evidenza anche l’abisso tra l’imprevedibile invenzione scarlattiana e la pratica comune degli altri, pur bravissimi, musicisti. Non si tratta di maggiore o minore fantasia melodica e ritmica, ma di una radicale differenza d’impostazione della scrittura. Ogni sonata scarlattiana è un monumento di coerenza strutturale, che riconduce a un’unica idea generatrice anche le più diverse invenzioni. C’è un’arte consumata della variazione – o piuttosto della variante - ch’è del resto bagaglio indispensabile d’ogni pratica d’improvvisazione.


Amaya Fernández Pozuelo


Ed è proprio questo aspetto che risalta nelle interpretazioni della clavicembalista spagnola: l’arbitrio, l’originalità, la scelta audace di sospensione o di accelerazione, rientrano in questa architettura dell’improvvisazione. E non sembri un ossimoro: perché sta proprio qui l’originalità e la genialità della scrittura clavicembalistica di Domenico Scarlatti, che l’improvvisazione si costruisce, che il discorso musicale poggia su una solida architettura di elaborazione ritmica o intervallare o di entrambe le cose. Un solo esempio: si prenda la sonata K. 184. Le battute 35-46 sembrano l’irruzione di una nuova idea ritmica e di una nuova mobilissima linea melodica. Ma una lettura più attenta fa riconoscere nelle prime sei battute della sonata l’idea generatrice di quella che sembra una parentesi, una novità. Abbiamo una scala discendente scandita simmetricamente prima da due semiminime puntate che scendono di un tono, seguono due terzine di crome, la prima scende per gradi congiunti, la seconda fa un salto di terza da mi a do, ma il do viene dapprima intonato una sesta sopra, invece di essere ribattuto (il particolare non è secondario). Infine di nuovo due semiminime puntate che questa volta scendono di un semitono. Ebbene la battuta 35 ripropone la terza e il semitono discendente (cui seguirà un tono discendente). Ma la terza è presentata come accordo, e il semitono come appoggiatura. Accordo e appoggiatura costituiscono l’ossatura di tutt’e dodici le battute, ripetuta ciascuna con la stessa impostazione ritmica e intervallare. Amaya Fernández Pozuelo le esegue con mirabile e accattivante libertà, facendo supporre quasi una sospensione dubitativa dell’improvvisatore. Il resto è tutto della stessa intelligenza e altezza interpretative.

Fiano Romano, 8 agosto 2019

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