Tarde para la ira è un film
bellissimo, e terribile, in italiano: La vendetta di un uomo tranquillo,
titolo sbagliatissimo , che oltretutto toglie senso alla
sorpresa della vendetta, che esplode solo nella seconda parte del
film. Il titolo originario spagnolo è secco, spietato, concreto: Tarde para la ira, tardi per la
rabbia. Ma storpiare i titoli originali sembra una costante della
distribuzione italiana. Valga per tutti il bellissimo Domicile
conjugal di Truffaut trasformato in Non
drammatizziamo, è solo una questione di corna. Non perdiamo
un’occasione per confermarci cialtroni e volgari o, piuttosto, le
case distributrici italiane sembrano avere un’opinione assai
mediocre del pubblico italiano. Si è scritto e parlato molto, spesso
a sproposito, sul film di Luis Arévalo, 36 anni.
Si è citato Tarantino, certa filmografia latinoamericana. Si è tirato in ballo anche il
gusto splatter, che qui non c’è .Il film è, invece,
tipicamente spagnolo, sobrio, duro, come da secoli certa tradizione
drammaturgica spagnola: A secreto agravio secreta venganza (a
segreta offesa segreta vendetta, Calderón
de la Barca), El condenado por desconfiado (Il condannato per
mancanza di fede, Tirso de Molina, di cui si può
ricordare anche El burlador de Sevilla, L’ingannatore
di Siviglia, dramma che fonda il mito di Don Giovanni). La
violenza, la morte, sono insieme frutto del caso e della volontà
interiore, o
piuttosto dell’impulso irrefrenato e irrefrenabile
del personaggio. Niente a che vedere con la violenza di una banda
criminale, anche se il film comincia proprio mostrando la ferocia di
una banda che assale una gioielleria. Ma non è Gomorra, né il film né la serie televisiva . Non è Pulp Fiction.
Se mai può
ricordare, ma molto alla lontana,
l’argentino Plata quemada (denaro bruciato), di Marcelo Piñeyro, dallo
straordinario romanzo di Ricardo Piglia. Il
titolo del film di Arévalo, Tarde para la ira,
spiega il senso della violenza: non serve a niente, è sempre “tardi”
per sfogare la propria rabbia. Il dolore provato per l’assassinio
della propria donna e del proprio padre da
parte dei rapinatori non è calmato, ripagato dal dolore di altri. La
morte non è una medicina della sofferenza, ma se mai sale sulle
ferite. Ci sarebbe molto da dire su come è girato il film: tutti
primi piani, efficacissimi, intensissimi, splendido l’incidente
iniziale filmato dall’interno dell’automobile, o la scena in cui
il vendicatore fissa la donna, nella discoteca, ed è fissato da lei.
Se la porta a
letto. E’ la moglie del palo della banda e sorella dell’assassino.
Le vite s’intrecciano e si accartocciano, incomunicanti, solo
travolte insieme dalla durezza del vivere. E vivere per la morte. Gli
attori, Antonio de la Torre, Luis Callejo (il palo, stupendo), Ruth
Diaz, Alicia Rubio, Manolo Solo, uno più bravo dell’altro. Il
finale è di una desolazione senza speranza. Il vendicatore ha
ammazzato tre uomini. Ma non ha trovato la pace. E ha provocato altra
sofferenza. Il merito maggiore del film sta proprio in questa sua
secchezza, nei dialoghi scarni, nell’uso drammaturgico dei primi
piani, intere scene
del film non
hanno dialoghi. Funzionale a questa drammaturgia della nudità
narrativa è la colonna sonora, secca e brutale, come il film. Spesso
solo rumori di strada, di una palestra, di un bar. E la percussione
che martella nei momenti che precedono l’esplosione della violenza.
Si pensa a Manuel de Falla. Ma qui è qualcosa di più duro, di più
spietato, e, soprattutto, di più sobrio. Il cinema italiano , che
questa sobrietà la conosceva bene decenni fa, e
oggi sembra averla dimenticata, avrebbe
molto da imparare da film come questo.
Fiano
Romano, 3 marzo 2017