lunedì 29 marzo 2021

Mompou, Música callada: il suono del silenzio


 



Federico Mompou, Música callada (voices of silence)

Giancarlo Simonacci, Piano

Da Vinci Classics C00358


1 cd


La noche sosegada
en par de los levantes del aurora,
la música callada,
la soledad sonora,
la cena que recrea y enamora1.


Sono versi di San Juan de la Cruz, San Giovanni della Croce, grande poeta e mistico spagnolo del Cinquecento, al secolo Juan de Yepes Álvarez, amico di Santa Teresa di Avila. Canonizzato nel 1726. Con la santa condusse una profonda riforma dell’ordine carmelitano. Fu perfino incarcerato come eretico. L’esperienza del carcere approfondì la sua vena mistica, con un linguaggio che assorbe le figurazioni del Cantico dei cantici biblico. Capolavoro di questa esperienza è la Noche Obscura, Notte Oscura: Dio come buio, come silenzio, come Nulla, in cui si affonda e ci si annienta. La poesia affascinò anche Goffredo Petrassi, nel 1950. Tra il 1959 e il 1967 Federico Mompou si ispira invece al Cantico spirituale, dal quale sono tratti i versi posti come esergo ai quattro quaderni della Música callada, musica taciuta o, meglio, zittita. Un ossimoro significativo: suono negato. Tomás Marco, compositore e musicologo spagnolo contemporaneo, nel suo volume della Historia de la música española. Siglo XX (Madrid, Alianza Música, 1983) afferma che Mompou non può essere inserito in nessuna corrente della musica del Novecento, nemmeno spagnola. Lo stesso influsso di Debussy sarebbe superficiale. Tuttavia per l’ascoltatore di oggi, oltrepassata l’ubriacatura delle avanguardie e delle post avanguardie, spesso più dogmatiche e rancorose delle avanguardie stesse, l’impressione che se ne riceve rinvia comunque a un’esperienza musicale, e non solo musicale, tipicamente spagnola. Ma non per motivi folcloristi. C’è, infatti, nell’arte spagnola, una sorta di filo rosso che la percorre fin dai romances e dal Cantar de mio Cid. Non si saprebbe meglio definire questo filo che come un’ossessione dell’interiorità. Ma ciò significa anche una percezione acutissima delle contraddizioni, delle ambiguità, dei contrasti di ogni esperienza interiore. Spesso non definibile appunto che con un ossimoro. Si pensi al terribile Cristo di Velázquez, sul quale Miguel de Unamuno ha scritto un mirabile poema non meno terribile. E’ un dio o un uomo la figura sofferente inchiodata alla croce, con il capo reclinato, e sospeso nel vuoto di uno spazio oscuro, buio, tenebroso? L’inesplicabile del divino e l’indicibile del dolore si fanno un’unica figura. O le messe e i mottetti di Tomás Luis de Victoria, in cui l’equilibrio palestriniano è infranto, ma lo stesso non c’è grido, non c’è urlo. C’è frattura, irrequietezza armonica, quasi una sfida al silenzio, come se la vera musica in cui si debba confluire sia l’assenza di musica. Quanto influisce su simili percezioni il cante jondo, la musica dei gitani, e prima ancora, la musica degli arabi, fino a tutto il secolo XV spagnoli come il resto degli abitanti della penisola? Mompou è catalano, ma è probabile che anche lui sia rimasto colpito dalla rivisitazione che il poeta Lorca fa del cante jondo. O Juan Ramón Jiménez. E poi ci sono Gaudì, Mirò, c’è la poesia di un immenso poeta catalano del XV secolo – agli italiani pressoché ignoto – Ausiaàs March: “Oh fort dolor, jo·t preg que mi perdons / si no enseguesc la tua voluntat: / la que jo am contra tu ha manat2. Ecco, l’arte spagnola penetra come poche altre i contrasti della vita, e sua figura retorica prevalente è l’ossimoro. Tutta la vita è sogno e i sogni sogni sono, dichiara Sigismondo nel dramma La vita è sogno, di Calderón de la Barca. Un poeta meno grande o meno acuto avrebbe scritto che i sogni sono immaginazione, fantasia; no: sono sogni, come la vita. Entriamo dunque in questo ossimoro che è la vita, la poesia, la musica. Ci guiderà Federico Mompou. E a guidarci, o meglio: a introdurci nel mondo di Mompou sarà Giancarlo Simonacci. Difficile immaginare una sintonia più perfetta tra interprete e musica di quella che rivela l’ascolto di questi quattro quaderni della Música callada di Mompou suonati da Giancarlo Simonacci. Sembra possederne la chiave segreta. Ricordiamo le sue interpretazioni di Cage, di Schoenberg, di Pennisi (altro misterioso, solitario, compositore). E un filo rosso c’è può darsi anche con loro. Cage ha intitolato un suo libro di divagazioni musicali Il silenzio. Ha scritto una composizione senza suoni apparenti: 4’ 33”. Il pianista alza il coperchio del pianoforte. Colloca la partitura sul leggio. Il brano si compone di tre movimenti, il primo di 30 secondi, il secondo di 2 minuti e 23 secondi, il terzo di un minuto e 40 secondi. Ma le mani del pianista non toccano mai la tastiera. La musica saranno i rumori della sala, le voci del pubblico che si spazientisce. Ecco il suono apprente che abolisce il suono inapparente della musica. Schoenberg, nei Pezzi op. 19 concentra nei pochi secondi di ciascun pezzo il respiro di una sonata. Come una memoria condensata di Chopin e di Brahms. Mompou non fa niente di tutto questo. Eppure ogni accordo, ogni intervallo è carico di memorie. Da Debussy gli viene, forse, l’attenzione al suono in quanto tale, al puro vibrare delle corde. Ma non altro. Così come si può credere di cogliere frammenti di melodie modali, cantori notturni per le ramblas deserte, accordi che possono evocare strappi di chitarra, cori di voci. Ma le pause tra un accordo e un altro, tra un accenno di melodia e un altro, non collegano nessun pensiero di concatenazione modale, tonale, contrappuntistica. Eppure modi ce ne sono, anche fantasmi tonali, e contrappunto a non finire. Ma l’evocazione prevale sulla realizzazione. Come, quasi, che proprio le pause siano la musica, la musica “callada”, cosa che in realtà non è, perché la musica sono appunto gli accordi, gli accenni melodici, i fantasmi tonali. Se per il mistico San Giovanni della Croce Dio è il Nulla – Buddha direbbe il Vuoto - ecco allora che per Mompou il suono è quel che resta del silenzio, quello che il silenzio lascia percepire di un mondo sonoro irraggiungibile. E’ qui che le mani – no, il cervello, i sensi, o che altro? - di Giancarlo Simonacci non solo ci guidano in questo mondo irraggiungibile, ma ce lo fanno percepire, toccare. Tecnicamente si dirà che ciò è ottenuto con una varietà illimitata di sfumature di tocco, e una non minore libertà di respiro, di fraseggiare, si direbbe, perfino l’istante, il singolo accordo. Ma detto questo non si sarà detto niente, perché in realtà ciò che si percepisce è dell’altro, e ci tocca profondamente. Come se guardassimo sul ciglio di un abisso giù nel vuoto. Ma invece di restarne terrorizzati, ne venissimo catturati, come da una carezza, da un abbraccio. Ecco l’ossimoro di cui dicevo all’inizio: il silenzio canta, si fa musica, e questa musica quasi impercepibile, fratturata, che ci assale o ci accarezza con frammenti, spezzoni, grumi di musica, questa musica è voce di qualcosa che non udiamo, non vediamo, ma che miracolosamente riconosciamo dentro di noi. Quel mondo è irraggiungibile, indicibile, non ha parole, non ha suono, ma lo sentiamo, lo ascoltiamo, ci parla, e vi ci riconosciamo la nostra stessa voce. Eh sì! L’Ossimoro del Vero. Dio che è Nulla. Noi che siamo e l’attimo dopo scompariamo. Sigismondo che scopre di sognare la propria vita. Velázquez che nel Dio morto sospeso nel vuoto dello spazio ci addita la speranza di risorgere alla vita: l’ossimoro di un dio immortale che muore per ridare vita agli uomini mortali. Santa Teresa scrive: “Vivo sin vivir en mí / y de tal manera espero, / que muero porque no muero”, vivo senza vivere in me, / e in questo modo spero, / che muoio perché non muoio. Il contrario di Parmenide, che afferma che l’essere è, il non essere non è. L’essere invece non è e il non essere è. Siamo noi a percepirlo come vita, come suono, come parola, come musica. E Giancarlo Simonacci di questa percezione è l’evangelista o, se si preferisce, il comunicatore perfetto. “Salí tras ti clamando, y eras ido”, sono uscito dietro di te chiamando, e te n’eri andato, riferisce San Giovanni della Croce.



                                                Giancarlo Simonacci


Fiano Romano, 29 marzo 2021

1La notte placata / nel punto in cui sorge l’aurora, / la musica zittita, / la solitudine sonora, / la cena che ristora ed innamora. San Juan de la Cruz, Cantico spirituale.

2Oh gran dolore, io ti prego di perdonarmi / se non eseguo la tua volontà: / quella che io amo contro di te mi ha comandato.


sabato 27 marzo 2021

Il canto del muezzin

 









DINO VILLATICO




IL CANTO DEL MUEZZIN1





Alla memoria di Francesco Pennisi


PERSONAGGI:



LA SIBILLA TIBURTINA

FAKHR-AD-DIN, emiro di Gerusalemme

FEDERICO II DI SVEVIA

HASSAN SABBAH, capo della setta degli Assassini

COSTANZA D’ALTAVILLA

PAPA GREGORIO IX

UNA CANTATRICE ARABA

UNA DANZATRICE

DUE GIOVANI SCHIAVI NUDI

DUE GIOVANI ARMATI


CORO DI CROCIATI, CRISTIANI DI GERUSALEMME, PELLEGRINI, ARABI, EBREI.


GERUSALEMME, la notte tra il 17 e il 18 marzo 1229, nella casa dell’emiro Fakhr-ad-Din.

Nebbia. E’ l’alba. Una figura femminile emerge a poco a poco, indistinta, dal lucore opaco.


LA SIBILLA TIBURTINA Si disperdesse

pulviscolo di sillabe

il canto che ti attende,

e contorcendosi

ti generasse

una vergine Notte,

mai l’incompiuto spasimo

s’arresterebbe

al disatteso e vano nominarti.


Ma io sussurrerò, profonda Notte,

dall’infuocata sabbia

granello per granello

l’esile striscia che trascorre

trasvolando dall’Indo

alle porte di Gade

il tenue filo di memoria

che solitario insegue

l’ombra che trasmigra.


Nel luminoso ultimo strascico

dell’orizzonte la bava lieve

rifletto di quest’ombra

dentro il bozzolo argenteo

non ancora dischiusosi

al crepitio del Sole,

per l’inatteso vocio di silenzi

che sorridendo bacerà

la bocca del giorno che si chiude.


Adonai!


E’ giorno. Due CORI avanzano verso la Sibilla, uno di EBREI e l’altro di CRISTIANI.


CORO DI EBREI Nehbel, tōpoh, nālîl, kinnôr

t’esaltino, t’esaltino

le voci che t’invocano:

scendi, Adonai,

raduna le disperse

moltitudini

della tua gente.


CORO DI CRISTIANI Chi vendica l’oltraggio

del Sepolcro violato?

Christus vincit.

SIBILLA TIBURTINA O Giorno, Giorno! Quanto

dalla profonda Notte

ti aspetto! È senza limite

la misura di lacrime

che colma le mie palpebre.

Se ripeto il mio pianto

- Adonai, Adonai -

un nuovo Sole, un nuovo Apollo,

un rinato Alessandro,

potrà rispondermi?


CORO DI EBREI Adonai, Adonai.


CORO DI CRISTIANI Chi strappa dalla perfida

mano l’indegna spada?

Christus regnat!


SIBILLA TIBURTINA Ma sarà Giorno, Apollo,

nel regno di Diana.

L’albero rinsecchito

nel Giardino paterno

germoglierà di nuovo,

e sarà Giorno, Apollo,

nella Casa del Sole

dalla Notte d’Oriente.

Il cammino retrocede,

oggi, da Occidente ad Oriente.


CORO DI EBREI Fiumi di Babilonia,

noi vi lasciammo, e liberi

tornammo nella terra:

ma quale ne fu il prezzo?

e per quanto tempo, liberi?

La nostra terra da secoli

non è più la nostra

terra. Perciò, ah! torna,

torna, Adonai.


CORO DI CRISTIANI Il sangue dei Cristiani

col sangue dei Pagani

- Christus imperat! -

si riscatta, noi soli

la verità, la vita,

Christus vincit!

non c’è giusto nel mondo

se non giusto cristiano,

Christus regnat!


Il dominio di Dio

è dominio cristiano,

Christus imperat.


SIBILLA TIBURTINA Sgabello sotto i piedi

ho teste conficcate

sulle picche di cedro,

una messe selvaggia.

Risorgi, Apollo!

Toglimi l’arsura

del Deserto dalla bocca!


CORO DI EBREI Adonai, Adonai!


CORO DI CRISTIANI Domine Deus Omnipotens,

Iesu Christe!


SIBILLA TIBURTINA Fenice d’Occidente!

Fridericus Apollo!

Adonai.


CORO DI EBREI Adonai, Adonai.


CORO DI CRISTIANI Christus vincit,

Christus regnat,

Christus imperat!


SIBILLA TIBURTINA Fridericus Apollo,

Adonai!


Scende la notte e la scena si fa buia. Al riapparire della luce, compare la SALA per il banchetto nella casa dell’Emiro di Gerusalemme FAKHR-AD-DIN, la notte tra il 17 e il 18 marzo 1229, poche ore prima dell’Incoronazione di Federico II nella cappella del Santo Sepolcro.


FAKHR-AD-DIN Il Sole esalta, entrando in questa casa,

la Notte della mia bassezza. Caro

m’è il buio, se il tuo sguardo lo rischiara.

Eppure misericordioso tocca

il cielo qualche volta il nostro nulla,

luminoso risplende sui tuguri

della nostra miseria, ma superbi

noi ci ostiniamo a chiamarli palazzi.

L’omaggio che si deve al suo Signore,

impossibile al servo che si prostra

davanti alla grandezza che l’abbaglia

del suo splendore, l’ultimo dei miei

schiavi lo compirebbe, se bruciato

d’Amore come tu per te mi fai

dal midollo dell’essere bruciare.

Entra, dunque: respira nel profumo

degl’incensi l’aroma che a te manda

l’anima mia felice di vederti.


Entra FEDERICO. I due si abbracciano e si baciano.


FAKHR-AD-DIN teneramente avvinto a Federico, quasi gli sussurra le parole nell’orecchio: M’è testimone Dio, Amico, e legge

in questo istante il mio pensiero e muove

la mia lingu’a parlare. La mia lingua,

ispirata così da Lui, ti dice

ora che in questa notte ascolteremo

parole che nessuna bocca, prima,

ha pronunciato. I nostri cuori, uniti,

stupiranno di quello che diranno

le nostre bocche, e faranno silenzio.

Memoria un giorno serberà la mente

delle parole, ricordando questo

silenzio e i nostri cuori tremeranno

di lontananza per il desiderio.

Parlami, Amico. Intatta pergamena,

la mia mente ti si offre e aspetta il segno

che la tua bocca parlando v’incida.


FEDERICO Vivere sospirando a chi non nega

grovigli di ragione e sospirare

vivendo da chi al culmine mi lega

di un più folle sospiro di guardare.


Ma perdo i giorni e l’ore e chi mi prega

è muta bocca e non oso sperare

che nel silenzio degli occhi la piega

delle sue labbra m’inviti a parlare.


Dunque un solo sospiro è a me silenzio

e canto, un solo sguardo mi si dona

e mi respinge: amaro e dolce, assenzio


e smarrimento, ogni ora mi perdona

ciò che mi toglie e io così presenzio

il gelo e il fuoco che da me s’intona.


FAKHR-AD-DIN Grazia concede la tua bocca all’aria

di trasportare fiori di parole,

sulle tue labbra il pensiero le spinge

a germogliare. Sono fatto, udendoti

parlare, ape che succhia il dolce nettare

d’Amore dal superno ultimo favo

stesso in cui tutto l’essere s’addensa.

Amico.

Si divincola dolcemente dall’amplesso, s’inchina, scivolando con la mano sui tappeti.

Via! distendi le tue membra

su questa seta del Katai lontano,

abbandona il tuo corpo alla delizia

di sospendere il Tempo e di svuotare

il cuore, i sensi lasciati da molli

affetti gentilmente accarezzare.

D’ogni parte Bellezza qui t’avvolge:

e dovunque è profumo, sguardo, canto,

abbandono d’amplessi e di sapori.


Batte le mani. UN GIOVANE SCHIAVO completamente ignudo porta un piatto d’oro ricolmo di frutta e lo depone ai piedi dell’ospite imperiale, dopo di che gli si sdraia accanto sul tappeto. UN ALTRO SCHIAVO, anch’egli appena adolescente e nudo, entra con una brocca d’oro e versa il vino nelle coppe che Federico e Fakhr-ad-Din ricevono colme dal primo schiavo. Quindi anch’egli si distende sul tappeto e poggia il capo sulle ginocchia di Federico. Suoni di danza. Entra UNA DANZATRICE e comincia una danza che danzerà fino a quando Fakhe-ad-Din non le farà cenno di smettere.


FAKHR-AD.DIN Non è divina questa quiete in mezzo

agli orrori di guerra che da Oriente

e Occidente minaccia i nostri regni?

Che cos’è il Tempo, se possiamo, vedi,

per una sola notte qui fermarlo?

Al-Kamil dall’Egitto, oltre a donarti

salute e offrirti grazia di perpetua

amicizia, ti manda questo foglio.

E’ un’insidia del Papa: suggerisce

di ucciderti, cogliendoti a sorpresa

sulla Via del Sepolcro. Vecchio infame!

E costui vi governa? Si fa Dio

sulla Terra? Potere così grande,

da voi, chi gli concede?

FEDERICO La paura.

Tu guardi nella rete delle stelle,

guardi il volto mutevole del Cielo

e osservi il lento muoversi degli astri.

Ma chi discopre o vede, oltre quei fuochi,

oltre il cristallo azzurro che ci copre,

chi la presenza indovina di un Dio?

O Dio si manifesta di Pensiero,

anzi Pensiero del Pensiero, il Dio

che lassù muove tutte quelle stelle

e che da noi, quaggiù, muove la vita

con il solo respiro di pensarla?

Un Dio tranquillo, un Dio di pura quiete,

come la chiara pagina ci dice

del Filosofo e come ci commenta

da Cordoba il Filosofo di Spagna.

Ma tu, che nel trascorrere dei giorni

affondi il tuo passare, e solo assorbi

dal rapido fluire di stagioni

che nascono e tramontano il tuo fiato,

cui solo dal finire del piacere

t’è concesso di cogliere e fermare

il piacere che resta, tu che ignori

permanenza che il breve permanere

non sia degli eccitati sensi al fioco

fremito di un contatto, il trasalire

del cuore se osa un labbro trasmutarsi

nell’offerta di un nodo, tu che cedi

all’illusione di restare quando

intorno la mutevole incostanza

dei venti ti convince a disperare,

tu che non dormi, ma che invece guardi

in sogno il tuo delirio e ne catturi

rabbrividendo il muto arrestarsi

e più fosco, nel fremito del sangue,

trasenti, quasi ardente, nelle vene,

il suo inarrestabile diluvio,

di Dio, che sai? e svaporata in aria

della tua luce l’ultima scintilla,

ritornato alla Notte, in quel tuo Buio,

dell’anima che viaggio prefiguri?

Eppure per il popolo, davanti

al muftì, giudicato dallo sguardo

severo di un imàm, di Dio non parli

anche tu? Ne parliamo tutti quanti,

quando parliamo con chi a Dio devolve

il senso intero della propria vita.

O con chi sa che Dio nasconde quanto

vogliamo che tra noi resti nascosto.

Il popolo ci crede, e questo basta.

Ma tra te stesso sai che se ne parli,

quando ne parli, nomini un Assente.

Noi due, amico mio, di queste cose

siamo da lungo tempo esperti. Voce

del cuore c’è più spesso la ragione.

E ne ridiamo. Ma che cosa sanno

quelli che ancora spaventa la morte?

FAKHR-AD-DIN Il popolo? Un potente ciò che vuole

gli fa credere. Ma costui comanda

ai potenti: lo temi anche tu.

FEDERICO Devo

temerlo, devo rispettarlo, devo

inchinarmi davanti a lui, calzarmi

calzari di umiltà, come un suo servo,

e come un pellegrino, un penitente,

indossare gli stracci di ubbidienza.

Lo fanno tutti. Devo conformarmi

al costume comune. Basta un niente,

una parola fuori posto, un gesto

incontinente, per mandarlo in bestia,

la bestia più feroce tra le bestie,

la bestia della religione. Devo

dunque adeguarmi per restare in sella,

volentieri la belva mi vorrebbe

disarcionare, un giorno, se potesse.

Disarcionato, mi vedrei finito.

Egli lo sa, perciò mi bracca e insegue,

mi calunnia, sobilla i miei vassalli,

devasta le mie terre, muove contro

di me predicatori e cavalieri.

Mi odia, e l’odio suo è, come il mio,

smisurato, implacabile, costante.

Un Dio gli arma la mano, un Dio che scaglia

contro di me, contro l’Impero, Roma.

Quel Dio, devo ammazzarlo. Nell’Impero

pace nessuna, potere nessuno,

sarà mai saldo, se da me distrutto

quel Dio non è, o da me stesso Dio

sul trono io non mi ponga. Ecco la lotta,

ecco l’odio che il campo dei Cristiani

divide in schiere opposte e lo sconvolge.

FAKHR-AD-DIN Angoscia tanta, come regge il cuore?

FEDERICO Pensando che una notte come questa

può, per un breve istante, cancellarla.

Bevi, dunque. Dimentica per questa

notte l’angoscia che divide gli uomini.

FAKHR-AD-DIN Nella casa del Kadì Shams-ed-Din,

che qui a Gerusalemme ospite accoglie

la tua persona, benigno cantare

lasciasti i nostri muezzìn. Votava

a silenzioso invito di preghiera

il muezzìn, per tuo rispetto, il caro

Shams-ed-Din. Ma rispetto dimostrasti

invece tu per la sua fede. Dunque

cantano i muezzìn nella sua casa,

cantano i muezzìn per cinque volte,

dall’alba all’ombra dolce della sera,

nella casa del Kadì Shams-ed-Din.

Ebbene, Amico, guarda come adesso

l’Emiro Fakhr-ad Din, per tuo rispetto,

la Legge Santa infrange del Corano:

per questa sola notte, a te cristiano,

perfuse le sue vene di dolcezza,

l’oblio ti dona dell’Islàm, e questa

coppa tracanna colma fino all’orlo,

omaggio del profeta galileo.

Beve.

E’ vino greco. Rosso come il sangue.

E come il sangue inebria, Federico.

FEDERICO A me cristiano? Non più di te, forse;

né più di me tu sogni oltre la vita

il sogno del profeta. Allah, Gesù,

perché mentirci? Dio noi non abbiamo

che quest’istante, il saengue che ci scorre

nelle vene e che per un Dio versare

ci disgusta. Perciò tu m’offri vino

greco, ch’io bevo a tutto ciò che fugge.

Beve.

Perciò tu m’offri questi due fanciulli,

e m’offri la tua bella danzatrice…


Fakhr-ad-Din fa cenno alla danzatrice di accostarsi a Federico. Ella esegue.


FEDERICO … che qui, davanti a te, con la mia bocca,

ora per amor tuo commosso bacio.

Porge una mano alla danzatrice, che soridendo gli offe la sua. Egli l’attira dolcemente a sé, la cinge con le braccia e la bacia. I due, piano, si lasciano cadere sul tappeto e si perdono in un dolcissimo amplesso.


FAKHR-AD-DIN sorride, beve, e affonda una mano nella chioma di uno dei due giovinetti, i quali, abbandonato Federico alle carezze della danzatrice, si erano andati a coricare ai piedi dell’Emiro, che li accoglie gioioso, scherzando anzi con loro, carezzandoli e stuzzicandone con un dito l’amabile sesso, ancora quasi infantile. Canta:

Dolcezza è il sogno della vita, dolce

quanto più breve il sogno. Amaro, Amico,

ogni altro dolce che d’oblio non sogna.

Bacia sul collo prima uno, poi l’altro giovinetto. Piange e invoca la cantatrice:


Oh! Nuzhat-az-Zamàn2, dolce Delizia

del Tempo, dove sei? Continua il canto.


Entra NUZHAT-AZ-ZAMAN la cantatrice, con un liuto (un ‘ud iraqeno). Dopo in breve, ma dolcissimo, preludio, canta:


NUZHAT-AZ-ZAMAN Sognata ogni dolcezza, vivi sogni,

ma non lo sai. Se lo sapessi, quanto

vivendo credi il sogno in cui ti sogni,

non sarebbe che l’ultimo tuo schianto.


Ma coraggio! Che serve? Bevi ancora

dalla tua coppa la fragile speranza

che quanto il cuore tuo seppe finora,

non era inganno, ma verosimiglianza.


Inseguire non fosse che il tuo sogno,

la tua fuga dal tempo, quale giorno

misurerebbe il fragile bisogno

che dove c’è un addio sogna un ritorno?


Dolcezza è il sogno della vita e agogna

quanto più lungo il sogno. Amaro, Amico,

ogni altro dolce che d’oblio non sogna.

Più dolce se dal sogno ti districo.


FEDERICO si alza, fissa l’Emiro e scoppia in una fragorosa risata.

FAKHR-AD-DIN batte le mani e NUZHAT-AZ-ZAMAN scappa via. La DANZATRICE si rannicchia ai piedi di Federico e gli avvolge le gambe con le braccia.

FEDERICO E tutto questo, perderlo dovremmo,

dimmi, per chi? per quale fede? quale

infimo sogno di supremazia?

quale Dio decretò che superiore

fosse l’arabo al popolo cristiano,

che un rozzo contadino di Biscaglia

insultare potesse impunemente

il rabbino di Troyes3? forse il mento

sbarbato del Tedesco è più gradito

a Dio dell’unta barba di un Ebreo?

l’occhio celeste di una incantatrice

Irlandese attraente più del nero

sguardo di una Persiana? Guarda i campi

di battaglia: tra Franchi e Bizantini,

Dio chi favorirà? tra Curdi e Turchi,

Allah chi sceglie? Ma di che colore,

il tuo sangue, di che colore il mio?

A volte penso che soltanto un nome

è Dio, quello che diamo a tutti i nostri

crimini, per giustificarli agli occhi

di chi altrimenti ce ne chiederebbe

ragione. Forse so più cose, amico,

di quante viste abbia la tua prudenza.

FAKHR-AD-DIN batte le mani e la DANZATRICE fugge via insieme ai due GIOVINETTI: Adesso siamo soli. E ti rispondo.

FEDERICO Ti sgomenta una donna, una tua schiava?

e due fanciulli?

FAKHR-AD-DIN Dire posso tutto

quello che voglio, anche davanti a loro.

Sono soltanto servi. Discrezione

mi consiglia, però, di non turbare

la loro ingenua fede. Tu, superbo,

dal tuo scranno di faticata scienza,

chi sa, potresti riderne, sarebbe,

però, credimi, un passo falso. Sono

loro che saldo tengono il tuo trono,

e proprio perché sono ingenui. Il bene

sta raramente dove ci aspettiamo

di trovarlo. Più spesso, dove il pegno

è perdere la nostra millantata

sapienza. Da costoro un sì lo afferri

non già con gli argomenti, ma con una

carezza o, meglio, corrugando il ciglio.

Non siamo uguali. Anche se di diversa

fede, e forse, anzi, di nessuna, uguali

dirci noi due possiamo. Ma la figlia

d’un panettiere di Friburgo meno

ti conosce del gran vizir di Bursa.

Puoi scopare una contadina, l’occhio

di un conte o di un emiro sempre un muro

alzerà tra il tuo stemma e la sua faccia.

Dunque, che cerchi? Il mondo non è fatto

come ti piacerebbe che lo fosse.

I ragazzi t’avrebbero concesso

il culo volentieri, e la sua fica

la danzatrice. Ma da loro nulla

più ti sarebbe stato regalato.

Non lo sperare. Avvezzi sono i loro

corpi al sopruso, tutti i giorni, tutti

i momenti, da tutti – n’hai goduto

anche tu, no, dell’arrendevolezza

dei loro corpi? - ma sopruso, dimmi,

perché, perché violenza perpetrare

ai loro cuori ignari di violenza,

che non sia la violenza dello stupro?

C’è una violenza assai peggiore, amico,

della violenza che oltraggia un corpo. Quella

che fa violenza all’anima.

FEDERICO Violenza

all’anima? che dici? La conosco

questa violenza, su di me non solo,

da Innocenzo, ma tra le vostre file

di fedeli e devoti musulmani.

FAKHR-AD-DIN Federico, che fai? mi lasci solo?

Vuoi dirmi che non so le nefandezze

della mia parte? Le ignorassi, cosa

che non posso, il giudizio cambierebbe?

Esamina le tue. Ma enumerare

nefandezze, di quale nefandezza

ci scagiona?

FEDERICO La storia ci racconta

favole incomprensibili. La storia

che vorrei raccontata, c’è qualcuno

che possa raccontarmela, e non dirmi

ch’è stata invece tutta un’invenzione?

Violenza usare all’anima! Violenza,

il desiderio? Ma comprendi, Emiro,

desiderare, fuori d’ogni legge,

che cosa sia? c’è legge che un confine

possa configurarci al desiderio,

di oltrepassare il nostro desiderio?

Per qualcuno è sopruso già l’avvio

del desiderio. Ma per chi confine

del desiderio è il suo desiderare,

quale bocca concederà il suo bacio?

Lo inganneranno i sensi? E sarà bocca

per lui qualunque favola gliene apra

una, dovunque in corpo di ragazzo

o di donna gli sembrerà che bocca

sia l’apertura che l’accoglie? oltraggio,

gli parrebbe la verità? o sempre

è vero, da qualunque parte arrivi,

il piacere che appaga?

FAKHR-AD-DIN Per qualcuno,

anche uccidere dà piacere. Vero

piacere. Dal dolore procurato

che s’infligge. Sarebbe da cercare

anche questo, anche questo sembrerebbe

una bocca che accoglie? il bacio freddo

dell’angelo che a tutti chiude gli occhi,

bacio d’amore? Verità tu quale

potresti al cuore che ti si abbandona

con certezza affermare, e con certezza,

anche, nel tuo segreto, confermare?

FEDERICO E sia. Non capirebbero. Tacere

perciò si deve a loro da chi a loro

chiede la vita, vita mai che cosa

sia, e se bene toglierla, donarla,

o male sia, raccoglierla perduta

nel momento in cui l’alito finisce,

senza che sappia chi la lascia il vero

prezzo di ciò che lascia. La parola

offendere potrebbe la coscienza

di un giovinetto, quando lo degrada

a mente di un adulto e gli propone

non una bella fiaba, ma l’incerta

verità ch’è la sola verità

che un adulto conosce. La violenza

di un’illusione può più duramente

ferire di una verità svelata.

E paradiso si promette quale,

dimmi, dopo la morte, da chi crede,

a questi vostri giovinetti? Pazzi!

Ieri ho parlato con Hassan Sabbah.


UNA CELLA SULLA CIMA DI UNA TORRE. IN FONDO UNA GRANDE FINESTRA APERTA.


IL VECCHIO DELLA MONTAGNA e FEDERICO si guardano, l’uno di fronte all’altro, fisso negli occhi. DUE GIOVANI ARMATI stanno ritti ai lati del Vecchio.


FEDERICO Vi chiamano Assassini. Vostra vita

è la morte. Vi teme anche il Sultano

al-Malik al-Kamil, là nell’Egitto,

più di quanto non tema in Occidente,

da noi l’Imperatore il Papa. Quale

forza vi dà potere? quale mente

vi guida? armato avete con che scopo

la fedele follia di una masnada

imberbe, giovinetti che al suicidio

aspirano, che cercano la morte,

quasi la vita un incubo paresse

dal quale risvegliarsi. Parla, Vecchio.

Il colore degli abiti, lo sguardo

corrucciato, la fronte corrugata,

mi mostrano la nera cerimonia

d’una spietata idolatria. T’indigna,

forse quanto ti dico, ma t’indigna,

chi sa, di più, la libertà che ostento.

Ebbene, a questa libertà ti chiedo

di rispondere: a nulla gioverebbe

eliminarmi, conosciamo questo

tuo rifugio, sarebbe un gioco farti

fuori insieme alla tua ghenga di pazzi.

Ti conviene parlare. A me conviene

risparmiarti la vita, per ognuno

dei cavalieri che m’ammazzi, quasi

vinco la mia battaglia, senza alzare

per colpirvi una lancia. Cresce l’odio

per voi perfino tra le vostre fila.

E insieme all’odio cresce la paura.

E chi ha paura, assai pericoloso

può diventarti. Dura molto poco

il potere che nasca dal terrore.

Ma spiegami il mistero che li acceca,

e spiegami di questa disperata

fedeltà la radice che non vedo,

il nodo che li stringe come un cappio

alla gola. Non sembrano ragazzi.

Non sembrano guardare. Il loro sguardo

è vuoto. Come di un automa, come

l’occhio del Golem. Sembrano accecati.

Si offrono lieti al bacio della morte,

e sorridenti, quasi fosse il bacio

tiepido di una donna. Li ho veduti

morire, ad Acri, sotto il mio pugnale:

ma non era un morire l’amoroso

languore che nel volto li sbiancava.

E quale vita può per loro darsi,

oltre questa, più bella della loro

stupita giovinezza? Parla, Vecchio.

Ti ascolto in un silenzio disperato.

HASSAN SABBAH Ma nel Silenzio si rivela il Nulla.

Tu sei di molti principi sovrano,

come dicono, ma così lontana

è la tua terra che di queste cose

digiuna serbi ancora la tua mente?

Viaggio, dai Franchi fino a questa Torre,

così lungo sofferse la tua vela

che per strada dimenticasti leggi

e costumi di chi lo scettro in pugno

stringe? o davvero la radice dove

s’interri del potere non conosci?

T’accolse alunno la Sicilia.. Seme

di saggezza, la lingua del Profeta

al Vero t’educava. Delle antiche

carte, quasi a te solo in Occidente,

il suo segreto l’Ellade t’apriva.

Ed osasti perfino profanare

la tua intelligenza con la lingua

dei rinnegati figli di Giudea.

Tutto il bene, ma pure tutto il male,

sembri avido di bere, da qualunque

fonte ti scaturisca il suo liquore.

Questo ti rende strabico. Minacci?

Spocchioso nanerottolo tedesco!

La morte non mi fa paura. E mille,

dopo di me, vedresti dalla terra

sorgere che calpesto, armate guardie

dell’Islàm, a distruggerti e annientarti!

Mi stupisci e - permetti? - mi deludi.

Piccolo, calvo, rossa e rada intorno

alla bocca la barba, corto il raggio

dello sguardo, saresti un re? del Caso

dunque sarebbe figlia la corona

d’Imperatore che ti cinge il capo?

Principe dei Credenti qui si chiama

chi ci governa, principe di Dio,

perché solo da Dio forza gli viene

di reggere la Terra e di guidarla.

FEDERICO Che credi? anche per noi da Dio deriva

ogni potere. Ma non ho bisogno

di un prete che si faccia mediatore,

tra Dio e me, di quel potere. Questo

mi divide dal Papa e mi condanna

all’esilio tra il popolo cristiano

che beve la sua bava come fosse

sputata dalla bocca di Dio Padre!

HASSAN SABBAH Tu, principe dei principi, non vedi?

Tu, Re dei Re, o, come nella vostra

lingua ti fai chiamare, Imperatore,

ignori ancora, come fossi imberbe,

da dove nasca il grande tuo potere?

Oh, non da Dio. Ma da chi crede in Dio.

Ascoltami. Non parlo invano, quando

parlo, chiunque mi si piazzi in faccia!

Per ognuno dei vostri cavalieri

che ammazo, diecimila nuove bocche

mi aspettano nel luogo a te proibito

per soddisfare tutte le mie voglie.

E dunque: ascolta quanto devo dirti.

Oltre l’istante che c’ingoia, il Tempo

all’occhio si squaderna della mente

e vi leggo segreti che nessuno,

nato di donna, oggi, conosce. Posso

fartene parte, posso reclutarti

tra gl’iniziati. Posso il suo Sigillo

dischiuderti, che mano di mortale

non disserra. Ma tu non sei mortale.

Perciò ti parlo. Sgombro dai tuoi occhi

la nebbia che ti rende cieco. Ascolta.

Nessuna forza magica sostiene

il mio potere. Oltre la mia, nessuna

mente mi guida. Un esaltato, forse,

mi crederai. Ma perché non piuttosto

un Veggente? Uno sperimentatore?

uno che ha visto il Nulla, ed è convinto

che quel Nulla sia Dio? potresti, forse,

per ubbidire al tuo razionalismo,

credermi un sognatore, un impostore.

ma perché no, dimmi, un illuminato?

Ti sembrerebbe cinico e banale?

Può darsi. I nostri mistici da molte

parti del mondo ci hanno spalancato

questo Mistero. Noi li credevamo

visionari poeti, credevamo

di dovere tradurre in quotidiana

esperienza il linguaggio fiammeggiante

delle loro visioni: interpretare

quelle strane, volubili figure.

Dicono la realtà. Vedono Dio

così com’è, l’Abisso senza fondo

in cui s’annega l’essere. Una meta

che il termine dei pochi e brevi giorni

a me predestinati mi oltrepassi

e il fragile respiro dei miei anni

dopo di me prolunghi, non conosco.

La mia parola è disperata quanto

il tuo silenzio. Ed è guardando dentro

il vuoto Abisso, nell’oscuro Nulla,

che m’arriva la forza, con cui reggo

le sorti del mio popolo. Nel cuore

posso allora di questi giovinetti,

senza turbarmi, insieme alla certezza

di una fede, con arte distillare

a goccia a goccia, lentamente, il dolce,

seducente terrore della vita.

FEDERICO Da lungo tempo, Vecchio, volgo in mente

pensieri come questi. Ma credevo,

da vero rozzo figlio di Tedeschi,

che solo in Occidente le radici

s’interrassero dello scetticismo,

del disinganno, e di quella mortale

malattia ch’è il tedio della vita.

HASSAN SABBAH No, non tedio: terrore. Mi fraintendi.

FEDERICO Non ti fraintendo affato. A passi lenti,

ma ti sto dietro, Vecchio, e ti raggiungo.

Mi sbagliavo, naturalmente. Prima

ancora che da noi, tra le brumose

pianure del lontano Nord, m’accorgo

che invece qui, tra le assolate dune

del deserto, già qui, nell’afa spessa

di fiumi sonnolenti, Dio si veste

da giullare, si maschera da guitto,

e gioca a nascondino con i saggi.

Sotto il cielo purissimo d’Oriente,

niente ci appare allora meno impuro

della faccia invisibile di Dio.

Vesta la mitra o indossi caffettano

e turbante, il suo grido è sempre un grido

di morte che si espande tra la gente,

e spada o scimitarra, d’ogni lato

rotolare vedrai a centinaia,

a migliaia, le teste di Cristiani

e Musulmani. Che sia croce o luna

lo stendardo, distinguere non conta:

ma chiedilo ai decapitati quanto

valga uno stemma, quanto li assecondi

il colpo di una lancia, quanto appaghi

il sapore del sangue nella bocca,

a che giovi la fulminante asprezza

d’una freccia che a un tratto si conficca

nell’occhio. Chiedi, chiedi, e se resisti

al loro sguardo, interroga i fanciulli

che con animo lieve mandi tutti

a morire. Non credo che al tuo Dio,

che al Dio di Roma o di Bisanzio, o Dio

quale che sia nel mondo, la mattanza

inutile, ingiustificata, folle,

che tra noi si perpetua e si comanda,

possa sembrare un simbolo di gloria.

E dunque Allah, Maometto, Islàm, o Cristo,

Bursa, Costantinopoli, se questa

guerra santa la chiamano Cristiani

e Musulmani, un gioco vi è giocato,

certo, da tutti noi, ciascuno trova

poi l’interesse che gli piace, trova

la giustificazione. Ma del gioco

chi conosce le regole? Chi muove

le pedine? Chi sa tutte le mosse?

Forse appieno nessuno. Può cadere

la Regina, può cedersi un Cavallo.

Ma poi lo scacco al Re, lo Scacco

Matto, non è la fine della nostra

partita, ne prepara un’altra, forse

di rivincita. Ma di quale parte?

Di tutte e di nessuna. L’una e l’altra

sgominate sul campo. Sterminate.

Ebbene, allora più di una pedina

non vale il Dio che chiede il nostro sangue.

O la partita se la gioca tutta

quanta da sé, figura, segno, stampo,

di cosa indecifrabile, di cosa

che non ha nome o che il suo nome prende

d’accatto. E dunque dietro questo nome

- se di cosa o di Dio, non so - non altra

è l’ambizione che corrode il gelo

di quella mente, se non l’intenzione

di dominare e di delimitare

un dominio: tu, uomo, qui non passi!

Non è così? Ma questo, lo sapevo!

Di tale gioco, Vecchio, già conosco

tutte le mosse e tutte le varianti.

HASSAN SABBAH Ma quello che non sai e che divide

in aspre lotte l’Impero Cristiano,

è che tu dio non sei, ma invece un altro

nell’Impero, ne assume, non il nome,

che non può, ma l’ufficio di vicario,

se ne proclama delegato in terra,

per mandato divino. Ogni potere,

non è dall’uomo, ma da Dio concesso.

Diventa tu dio, Federico, e tutto

da tutti avrai. Non d’essere sfamato

ti fa preghiera il popolo, ma dagli

l’illusione di vincere la gloria

dei secoli, ti seguirà dovunque.

FEDERICO Divide anche l’Islàm quel sacro nome,

Dio non la pace, ma la spada in terra

ha condotto, lui stesso condottiero

delle schiere avversarie, delle opposte

fazioni, degli eserciti nemici.

Divide Dio vassallo da vassalo,

califfo da califfo, e sparge sangue

musulmano per mano musulmana,

così com’è cristiana molto spesso

quella mano che sangue di cristiano

fa scorrere nei campi di battaglia.

HASSAN SABBAH Gioco anche questo. Esercizio di morte.

Non so nel vostro campo di Cristiani.

Ma chi combatte, qui, combatte sempre

per l’Islàm. E perciò m’infastidisce

che tu ti ostini a fare paragoni.

Nessun confronto tra l’Islàm e voi

centra davvero la questione, tocca

il nodo della fede musulmana.

Nell’Islàm si ubbidisce a chi comanda.

Non importa per chi, né sotto quale

insegna, se un’insegna c’è, e se insegna

musulmana sarà quella che guida,

basta che venga stretta forte in pugno

da mano salda che ai credenti mostri

la strada da percorrere. Ci andranno

giubilando, convinti di parlare

con Dio stesso, di cui sei l’inviato.

Il popolo è una cagna che al mendico

mostra le zanne, ma lecca la mano

che la percuote. Libero, si perde.

E s’affretta a inventare altri padroni.

FEDERICO Ma fino al punto di avere paura

della vita, ottenerlo come puoi?

HASSAN SABBAH Bastano pochi eletti, i più reattivi,

i cuori più sensibili, i più puri.

Saranno agli altri esempio di devota

fedeltà, di coraggio, d’ardimento.

Li chiameranno eroi, li ammireranno.

Invidieranno la loro immatura

felicità. Ti sembra poco? Guarda.

Fa un cenno ai due giovani armati, che cacciano subito un urlo stridulo di gioia e si buttano giù dalla finestra della torre.


LA SCENA DI PRIMA. L’EMIRO sdraiato fuma oppio dal becco del narghilè. FEDERICO, cupo, in piedi, l’osserva.


FEDERICO Li strappano così alla vita. Il Vecchio

li alleva nel più rigido ascetismo

per anni: ma descrive il paradiso

di delizie, piaceri voluttuosi,

destinato ai campioni della fede.

Un giorno li stordisce con hashìsh4.

Per quest’erba li chiamano Assassini.

Poi li risveglia in mezzo al paradiso

promesso, dove il murmure leggero

delle fronde li adesc’a dolci sguardi.

E vedono ruscelli che hanno le acque

gialle, bianche e vermiglie per il miele,

il latte e il vino che vi scorre dentro.

Zampilli di fontane, ombre vaganti

di rondini, usignoli e pettirossi

fanno bordone al lieto e vario aspetto

del giardino, e col dolce e lieve suono

del mormorio dell’acqua e dei bei canti,

s’intenerisce ai giovinetti il cuore,

si ridestano gli assopiti sensi.

Soavi donne e teneri fanciulli

fingono urì graziose e delicati

efèbi, donne e ragazzi nell’arte

esperti d’ogni vincolo d’amore,

disposti ai più volubili viluppi,

pronti a spillare dagli estenuati corpi

dei giovani guerrieri i più estasiati

effluvi, le più torbide effusioni.

Un attimo di questo paradiso

basta a bruciare in loro la memoria

d’ogni altro tempo che non sia l’istante

di quell’intensa voluttà, di quella

perenne ebbrezza, che li succhia, esausti,

nel vortice di quello sfinimento.

Da quel momento, non aspira ognuno

che a rinnovare quelle sensazioni,

che a ripetere il dolce ultimo istante

che li ha sfiniti e dunque il desiderio

s’aggroviglia nell’ansia di un’attesa.

Il Vecchio lo sa bene. Li addormenta

un’altra volta. Quando li risveglia,

rivedono le mura della torre:

e anelano alla morte per lo spasmo

disperato di quel perduto istante.

FAKHR-AD-DIN Felice istante! più felice morte!

che da vivace morire a immortale

vita i sensi trapassa e in un istante

immortalmente fa morire il cuore!


L’INTERNO DEL DUOMO DI MESSINA. E’ il settembre 1197. COSTANZA D’ALTAVILLA fissa, torva, il feretro su cui giace il cadavere di ENRICO VI.


COSTANZA Annegato nell’acqua del tuo corpo,

o stupratore, non esisti più!

Ora sei - finalmente! – ciò che fosti

sempre: pietra - , o predone della figlia

di Ruggero e del Regno dei Normanni.

Te lo dice, al tuo sangue raggelato,

la madre di tuo figlio Costantino5.

Grida, adesso, il tuo grido di selvaggio!


LA SCENA DI PRIMA. L’EMIRO annega nell’oppio, FEDERICO lo guarda, tra il compassionevole e il disgustato, gli si accosta, lo scuote.


FEDERICO Amico, e se ragione avesse il Vecchio?

Se prigionieri d’un errore, i nostri

pensieri vaneggiassero? Se un sogno,

solo un sogno, la mente vagheggiasse?

Forse il mondo non sa, non vuole fare

a meno dell’idea d’un Dio sapiente,

di uno sguardo indulgente che ci guidi.

Piuttosto morirebbe, che accettare

un mondo senza Dio o senza un Dio

provvidenziale. Che la provvidenza

possa imporsi con la violenza di una

guerra, non lo spaventa. Poco importa

il mucchio di cadaveri che funge

da basamento a quest’imposizione

di un ordine. Che sciocco quel sovrano

che crede invece di consolidarlo,

un ordine, con patti e con trattati

di riconciliazione! La rivolta

non gli verrà dal popolo o dagli altri

sovrani: gli verrà dal bianco e bieco

spettro di Roma, dal vicario in terra

del giudizio divino! Giudicare!

Qual è più sogno, dimmi: il mio, d’un regno

senza fede o la fede che organizza

un regno? Bah! Diverso non mi pare

l’ostinato Gregorio da quel Vecchio

farneticante. Sono entrambi un calco

di fanatismo cieco, ottuso e pazzo!

FAKHR-AD-DIN Tu possiedi un Impero vasto quasi

quanto il mondo, soltanto il nostro Impero,

e, dicono, in un più lontano Oriente,

nei deserti dell’Asia, un altro Impero,

fors’è più vasto. Ma perché temerlo,

se puoi parlare, come in questa notte,

la nostra lingua e abbandonarti al sonno

tra i nostri incensi? Dormi, Federico.

Oltre i sensi, conosci qualche cosa

che puoi chiamare, senz’ombra di dubbio,

verità? quanto al vero che dai sensi

t’è mostrato, se senza te lo pensi,

puoi ancora pensarlo vero? Dormi.

E respira con me l’oblio del mondo.

FEDERICO Dimenticare il mondo? Non è quello

che cerco. A piene mani è sparsa in terra

la tenerezza della vita, il bello

m’assale e mi commuove. Ma veloce

trascorre il giorno ch’è concesso ai sensi.

Rapida giunge a chiuderlo la notte.

Prima di quella notte voglio bere

con i miei occhi dallo spazio aperto

tutta la luce che mi raggia il sole.

FAKHR-AD-DIN Lontano è il sole, assai lungo il cammino

che il suo raggio percorrerebbe fino

a sfiorarti le palpebre socchiuse.

La luce che ci arriva è solo un’ombra,

un’offuscata macchia, di quel fuoco.

FEDERICO Mai dunque il Sole? mai la pura luce

del suo perenne fuoco nello sguardo?

Una volta vederla. Una soltanto,

e di dolce pienezza poi morire.

FAKHR-AD-DIN Ti basti ‘l sogno che sognò tua madre.

Brevi minuti dura il nostro giorno.

E dunque quando noi guardiamo il giorno,

e c’illudiamo di ficcare l’occhio

nella sua luce, non vediamo invero

nient’altro che lo sfarfallio di un’ombra,

il breve istante che s’imprime come

una traccia volubile nel cuore.

Ma tu nemmeno di quest’ombra sembri

ricevere un riflesso. Che pienezza

vuoi dunque catturare, se la vita

che vivi ti si sfila tra le dita

come una tenue e vuota ragnatela?

Pertanto non guardare oltre lo spazio

che il tuo sguardo misura, Federico.

Che cosa troveresti? Altri confini,

altre misure, altri modelli. Un altro

chiuso spazio, che come questo nostro,

scandiscono ordinate altre figure

del Tempo.

FEDERICO Il tempo!

FAKHR-AD-DIN Puoi fermarlo, dimmi?

dominarlo?

FEDERICO Nemico m’è da sempre.

Mentre parlo mi sfugge, s’allontana.

E sento che lo perdo. Che svanisce.

Non è sostanza: non posso toccarlo

né pensarlo. Potrei una parvenza

supporlo tutt’al più del movimento

delle stelle, rispecchierebbe allora

quaggiù la geometria del loro passo.

Se così fosse, il tempo esiste, esiste

anche se non l’afferro, anche se sfugge

al mio pensarlo. Ma se il tempo esiste

fuori di me, senza di me; se scorre

senza ch’io possa regolarlo, senza

ch’io sappia anche minimamente agire

sul suo flusso e determinarlo, allora

il tempo mi sconfigge, esattamente

come la morte.

FAKHR-AD-DIN E dunque? che concludi?

dove ti perdi? Dormi, Federico, dormi.

Non è sostanza, certo, e non lo tocchi,

il tempo, né lo pensi: non almeno

come definizione, inadeguata

qualsiasi idea che tenti contenerlo

nei termini ristretti di un concetto.

Perché dunque ti ostini ad affermare

che il tempo esiste? L’ombra di se stesso,

chi sa, l’anafferrabile misura

del nostro scomparire, l’incompiuto

tentativo di chiudere il fermaglio

del domani, sospendere la corsa

della ruota che muove ciò che ancora

non accade. Ma, più probabilmente,

l’ombra del suo dissolversi nel punto

in cui ci sembra già di trattenerlo,

anzi l’ombra dell’ombra, che a guardarla

voltandoci ci mostra le sue spalle

e si disperde al passo della sera.

Sei potente. Ti credono sapiente.

Puoi dischiudere ai popoli un Impero,

rivelare una nuova fede, aprire

nuovi confini al regno della Legge.

Ma non è senza prezzo questo immenso

potere che t’acquisti. Ogni potere

sembra quasi racchiudere in se stesso

un germe infetto, sprigionare forze

terribili, non già divine, quanto

piuttosto demoniache. Una tale

possessione non può colmare il cuore,

ma lo svuota. Più si è perciò potenti,

più si spalanca immenso dentro il vuoto.

Ai sudditi dai terra, fede, legge.

Ma per te non hai terra, non hai fede,

non hai legge. Per questo sei potente.

Diventa uno dei sudditi che muore

in una delle tue battaglie, lascia

il possesso di tutte le tue terre,

invéntati una fede ed ubbidisci

a una legge, invece di crearla,

non cercheresti più nessuna luce.

FEDERICO Nel mio sangue c’è febbre di predone,

da mia madre ho bevuto latte amaro

di nomade. Non possedessi imperi,

il mio pensiero vagabonderebbe

per sentieri mascosti, nei deserti

del cuore e, chi sa, nuovi sapori

succhierebbe da qualche ignoto frutto,

qualche vista vedrebbe che lo appaghi,

dai deserti dell’anima.

FAKHR-AD-DIN tornando in sé, dai fumi dell’oppio:

Torniamo

dunque ai deserti della vita. Ascolta.

Il Sultano d’Egitto ti concede

quello che chiedi: puoi comunicare

ai tuoi Crociati che Gerusalemme

da domani si schiude ai pellegrini

del Sepolcro. E non uno fu trafitto

sul campo dei tuoi uomini o dei nostri.

Nessun Arabo ottenne dal Sultano

dono più grande di questo che, vinto

da folle amore per la tua saggezza,

graziosamente a te Cristiano dona

al-Kamil al- Malik, nostro Sultano,

Principe ovunque amato dei Credenti.

FEDERICO s’inchina all’Emiro, chiude le braccia in croce sul petto e, curvandosi fino al pavimento, gli bacia i piedi:

A questo folle amore saggiamente

risponderà la mia follia e il cuore

follemente dirà la mia saggezza.

Ai tuoi piedi s’inchina in questo bacio

d’immensa gratitudine un Impero.

Nemmeno il Papa ottenne un tale ossequio

dalla mia dignità d’Imperatore,

e con tanta umiltà concesso. Pensa

che alla tua Notte, indecifrato Amico,

ora s’inchina per Amore il Sole.

FAKHR-AD-DIN Siamo dunque al commiato? Non partire.

FEDERICO Se mi si desse scelta tra lasciarti

e morire, direi: morire. Tanto,

però non m’è permesso. Doloroso

desiderio m’accende di follia

la mente. Il mare del ritorno s’apre

come un deserto davanti al mio sguardo.

Ma non è quella di chi parte vera

partenza e di chi resta non è vera

separazione l’allontanamento,

se oltre il deserto degli sguardi dolce

memoria stringe in petto nostalgia

di ritorno e la mente solo trema

a pensarlo. Ma udrò la vostra voce,

la sera, dalla torre di Palermo,

nel canto del muezzìn. E voi, da questa

terra, la mia, nei canti del Sepolcro.

FAHKR-AD-DIN Immemori deserti, Amico, lascia

dietro di sé la Notte: e nessun fiore,

per noi, dopo, dischiuderà la Luce

che da segrete vene noi beviamo,

ogni ora che tra noi senza parole

nel muto incanto scorre di uno sguardo.

Ciò che dicemmo, che ascoltammo, è niente:

ciò che ancora vorremmo dire, meno

che niente. Ricordarlo sarà poca

cosa. Ma ciò che invece ci tacemmo,

questo sarà per noi nostra memoria,

dolore di dolcezza non dischiusa.

Io non penso, non penso più. Sì, certo:

è come dici. Udrai la nostra voce,

la sera, dalla torre di Palermo,

nel canto del muezzìn. E noi, da questa

terra, la tua, nei canti del Sepolcro.

Ma nessuno la voce udrà dell’altro.

La voce, dico, che tra noi respira

anche in silenzio l’eco della voce

che interrogando aspetta la risposta.

Il Silenzio in cui ora annegheranno

le parole che ci vorremmo dire,

non sarà più di attesa, ma di vano

desiderio e sospiro di un Assente.


IL SANTO SEPOLCRO. Una folla immensa assiste all’incoronazione di FEDERICO. Si odono, mescolati, canti arabi, canti arabi dei Cristiani di Siria e d’Iraq, canti dei Cristiani Latini, Greci e Slavi, e infine canti ebraici. FEDERICO avanza lentamente fino all’altare, davanti al quale il Vescovo lo aspetta con la corona d’Imperatore. Ma, giunto davanti a lui, FEDERICO gli strappa la corona dalle mani e se la pone da sé sul capo. I canti diventano grida di acclamazione e di esultanza. Improvvisamente, in alto, sinistramente illuminata, compare, assisa sul trono di Pietro, la figura solenne di Papa GREGORIO IX.


GREGORIO IX L’empio ha colmato intera la misura

della sua smisurata empietà. Fino

alla fine ha finito l’infinita

operazione della finitezza

del Male. Per un’opera dannata

di dannazione universale, stringe

la Croce sul Sepolcro la perversa

mano di un rinnegato. La Superbia

di Satana condusse a patteggiare

con l’Infedele un infedele Servo

della Chiesa, di modo che un’impresa

cui solo una conquista giusta e santa

poteva imporre crisma di cristiana

e misericordiosa spedizione,

oggi sembra graziosa concessione

di un idolatra falso e usurpatore.

Nessun patto intercorrere può mai

tra il Dio cristiano e quello musulmano,

nessuna tregua si concede al Male,

quando l’armata che lo sfida in campo

è l’armata del Bene: perché Cristo

è il bene, e non c’è Bene se non Lui.

Questo superbo Staufen, Federico,

che dite Imperatore, troppi segni

lo dichiarano come l’Anticristo!

L’Apocalisse dunque s’avvicina.

Ma noi, Servo dei Servi di Dio, noi

da questo soglio, qui, che fu di Pietro,

e che fu benedetto dal suo sangue

di martire, lanciamo l’anatema!

E rinneghiamo il patto, noi, Gregorio

Nono, noi, Papa e Vescovo di Roma,

noi, Vicario di Cristo sulla terra,

dal profondo odio di Dio, dal profondo

odio nostro essere condanniamo

all’eterna e totale interdizione

dai Sacramenti, a dannazione eterna,

il peccatore che lo sottoscrisse,

e gli proibiamo accesso ai luoghi sacri,

gli proibiamo di chiedere ubbidienza,

d’imporre leggi, d’essere un sovrano:

è un reietto di Dio, finché la morte

a sguardo umano il suo fetido corpo

non sottragga e finché l’anima dannata

non bruci al fuoco eterno dell’Inferno!


FINE

Bettona, agosto 1978.

Prima revisione: Roma, 19 ottobre 1994.

Ultima revisione: Roma, sabato 1 gennaio 2005.

1 Pronunciare muezzìn, col la zeta dolce di zefiro.

2 La z si pronuncia dolce e sonora come la s dell’italiano bisogno.

3 Pronunciare, all’antica: Tróies.

4 Far sentire l’aspirazione iniziale.

5 Il primo nome di Federico.