DINO VILLATICO
IL CANTO DEL MUEZZIN
Alla
memoria di Francesco Pennisi
PERSONAGGI:
LA
SIBILLA TIBURTINA
FAKHR-AD-DIN,
emiro di Gerusalemme
FEDERICO
II DI SVEVIA
HASSAN
SABBAH, capo della setta degli Assassini
COSTANZA
D’ALTAVILLA
PAPA
GREGORIO IX
UNA
CANTATRICE ARABA
UNA
DANZATRICE
DUE
GIOVANI SCHIAVI NUDI
DUE
GIOVANI ARMATI
CORO DI CROCIATI, CRISTIANI DI GERUSALEMME, PELLEGRINI, ARABI, EBREI.
GERUSALEMME, la notte tra il 17 e il 18 marzo 1229, nella casa
dell’emiro Fakhr-ad-Din.
Nebbia. E’ l’alba. Una figura femminile emerge a poco a poco,
indistinta, dal lucore opaco.
LA
SIBILLA TIBURTINA Si disperdesse
pulviscolo
di sillabe
il
canto che ti attende,
e
contorcendosi
ti
generasse
una
vergine Notte,
mai
l’incompiuto spasimo
s’arresterebbe
al
disatteso e vano nominarti.
Ma
io sussurrerò, profonda Notte,
dall’infuocata
sabbia
granello
per granello
l’esile
striscia che trascorre
trasvolando
dall’Indo
alle
porte di Gade
il
tenue filo di memoria
che
solitario insegue
l’ombra
che trasmigra.
Nel
luminoso ultimo strascico
dell’orizzonte
la bava lieve
rifletto
di quest’ombra
dentro
il bozzolo argenteo
non
ancora dischiusosi
al
crepitio del Sole,
per
l’inatteso vocio di silenzi
che
sorridendo bacerà
la
bocca del giorno che si chiude.
Adonai!
E’ giorno. Due CORI avanzano verso la Sibilla, uno di
EBREI e l’altro di CRISTIANI.
CORO
DI EBREI Nehbel, tōpoh, nālîl, kinnôr
t’esaltino,
t’esaltino
le
voci che t’invocano:
scendi,
Adonai,
raduna
le disperse
moltitudini
della
tua gente.
CORO
DI CRISTIANI Chi vendica l’oltraggio
del
Sepolcro violato?
Christus
vincit.
SIBILLA
TIBURTINA O Giorno, Giorno! Quanto
dalla
profonda Notte
ti
aspetto! È senza limite
la
misura di lacrime
che
colma le mie palpebre.
Se
ripeto il mio pianto
- Adonai, Adonai -
un nuovo Sole, un nuovo Apollo,
un rinato Alessandro,
potrà rispondermi?
CORO
DI EBREI Adonai, Adonai.
CORO
DI CRISTIANI Chi strappa dalla perfida
mano l’indegna spada?
Christus regnat!
SIBILLA
TIBURTINA Ma sarà Giorno, Apollo,
nel
regno di Diana.
L’albero
rinsecchito
nel
Giardino paterno
germoglierà
di nuovo,
e
sarà Giorno, Apollo,
nella
Casa del Sole
dalla
Notte d’Oriente.
Il
cammino retrocede,
oggi,
da Occidente ad Oriente.
CORO
DI EBREI Fiumi di Babilonia,
noi
vi lasciammo, e liberi
tornammo
nella terra:
ma
quale ne fu il prezzo?
e
per quanto tempo, liberi?
La
nostra terra da secoli
non
è più la nostra
terra.
Perciò, ah! torna,
torna,
Adonai.
CORO
DI CRISTIANI Il sangue dei Cristiani
col
sangue dei Pagani
-
Christus imperat! -
si
riscatta, noi soli
la
verità, la vita,
Christus
vincit!
non
c’è giusto nel mondo
se
non giusto cristiano,
Christus
regnat!
Il
dominio di Dio
è
dominio cristiano,
Christus
imperat.
SIBILLA
TIBURTINA Sgabello sotto i piedi
ho
teste conficcate
sulle
picche di cedro,
una
messe selvaggia.
Risorgi,
Apollo!
Toglimi
l’arsura
del
Deserto dalla bocca!
CORO
DI EBREI Adonai, Adonai!
CORO
DI CRISTIANI Domine Deus Omnipotens,
Iesu
Christe!
SIBILLA
TIBURTINA Fenice d’Occidente!
Fridericus
Apollo!
Adonai.
CORO
DI EBREI Adonai, Adonai.
CORO
DI CRISTIANI Christus vincit,
Christus
regnat,
Christus
imperat!
SIBILLA
TIBURTINA Fridericus Apollo,
Adonai!
Scende la notte e la scena si fa buia. Al riapparire della luce,
compare la SALA per il banchetto nella casa dell’Emiro di
Gerusalemme FAKHR-AD-DIN, la notte tra il 17 e il 18 marzo
1229, poche ore prima dell’Incoronazione di Federico II nella
cappella del Santo Sepolcro.
FAKHR-AD-DIN
Il Sole esalta, entrando in questa casa,
la
Notte della mia bassezza. Caro
m’è
il buio, se il tuo sguardo lo rischiara.
Eppure
misericordioso tocca
il
cielo qualche volta il nostro nulla,
luminoso
risplende sui tuguri
della
nostra miseria, ma superbi
noi
ci ostiniamo a chiamarli palazzi.
L’omaggio
che si deve al suo Signore,
impossibile
al servo che si prostra
davanti
alla grandezza che l’abbaglia
del
suo splendore, l’ultimo dei miei
schiavi
lo compirebbe, se bruciato
d’Amore
come tu per te mi fai
dal
midollo dell’essere bruciare.
Entra,
dunque: respira nel profumo
degl’incensi
l’aroma che a te manda
l’anima
mia felice di vederti.
Entra
FEDERICO. I due si abbracciano e si baciano.
FAKHR-AD-DIN teneramente avvinto a Federico, quasi gli sussurra le
parole nell’orecchio: M’è testimone Dio, Amico, e legge
in questo istante il mio pensiero e muove
la mia lingu’a parlare. La mia lingua,
ispirata così da Lui, ti dice
ora che in questa notte ascolteremo
parole che nessuna bocca, prima,
ha pronunciato. I nostri cuori, uniti,
stupiranno di quello che diranno
le nostre bocche, e faranno silenzio.
Memoria un giorno serberà la mente
delle parole, ricordando questo
silenzio e i nostri cuori tremeranno
di lontananza per il desiderio.
Parlami, Amico. Intatta pergamena,
la mia mente ti si offre e aspetta il segno
che la tua bocca parlando v’incida.
FEDERICO Vivere sospirando a chi non nega
grovigli di ragione e sospirare
vivendo da chi al culmine mi lega
di un più folle sospiro di guardare.
Ma perdo i giorni e l’ore e chi mi prega
è muta bocca e non oso sperare
che nel silenzio degli occhi la piega
delle sue labbra m’inviti a parlare.
Dunque un solo sospiro è a me silenzio
e canto, un solo sguardo mi si dona
e mi respinge: amaro e dolce, assenzio
e smarrimento, ogni ora mi perdona
ciò che mi toglie e io così presenzio
il gelo e il fuoco che da me s’intona.
FAKHR-AD-DIN Grazia concede la tua bocca all’aria
di trasportare fiori di parole,
sulle tue labbra il pensiero le spinge
a germogliare. Sono fatto, udendoti
parlare, ape che succhia il dolce nettare
d’Amore dal superno ultimo favo
stesso in cui tutto l’essere s’addensa.
Amico.
Si divincola dolcemente dall’amplesso, s’inchina, scivolando
con la mano sui tappeti.
Via! distendi le tue membra
su questa seta del Katai lontano,
abbandona il tuo corpo alla delizia
di sospendere il Tempo e di svuotare
il cuore, i sensi lasciati da molli
affetti gentilmente accarezzare.
D’ogni parte Bellezza qui t’avvolge:
e dovunque è profumo, sguardo, canto,
abbandono d’amplessi e di sapori.
Batte le mani. UN GIOVANE SCHIAVO completamente ignudo
porta un piatto d’oro ricolmo di frutta e lo depone ai piedi
dell’ospite imperiale, dopo di che gli si sdraia accanto sul
tappeto. UN ALTRO SCHIAVO, anch’egli appena adolescente e
nudo, entra con una brocca d’oro e versa il vino nelle coppe che
Federico e Fakhr-ad-Din ricevono colme dal primo schiavo. Quindi
anch’egli si distende sul tappeto e poggia il capo sulle ginocchia
di Federico. Suoni di danza. Entra UNA DANZATRICE e comincia
una danza che danzerà fino a quando Fakhe-ad-Din non le farà cenno
di smettere.
FAKHR-AD.DIN Non è divina questa quiete in mezzo
agli orrori di guerra che da Oriente
e Occidente minaccia i nostri regni?
Che cos’è il Tempo, se possiamo, vedi,
per una sola notte qui fermarlo?
Al-Kamil dall’Egitto, oltre a donarti
salute e offrirti grazia di perpetua
amicizia, ti manda questo foglio.
E’ un’insidia del Papa: suggerisce
di ucciderti, cogliendoti a sorpresa
sulla Via del Sepolcro. Vecchio infame!
E costui vi governa? Si fa Dio
sulla Terra? Potere così grande,
da voi, chi gli concede?
FEDERICO La paura.
Tu guardi nella rete delle stelle,
guardi il volto mutevole del Cielo
e osservi il lento muoversi degli astri.
Ma chi discopre o vede, oltre quei fuochi,
oltre il cristallo azzurro che ci copre,
chi la presenza indovina di un Dio?
O Dio si manifesta di Pensiero,
anzi Pensiero del Pensiero, il Dio
che lassù muove tutte quelle stelle
e che da noi, quaggiù, muove la vita
con il solo respiro di pensarla?
Un Dio tranquillo, un Dio di pura quiete,
come la chiara pagina ci dice
del Filosofo e come ci commenta
da Cordoba il Filosofo di Spagna.
Ma tu, che nel trascorrere dei giorni
affondi il tuo passare, e solo assorbi
dal rapido fluire di stagioni
che nascono e tramontano il tuo fiato,
cui solo dal finire del piacere
t’è concesso di cogliere e fermare
il piacere che resta, tu che ignori
permanenza che il breve permanere
non sia degli eccitati sensi al fioco
fremito di un contatto, il trasalire
del cuore se osa un labbro trasmutarsi
nell’offerta di un nodo, tu che cedi
all’illusione di restare quando
intorno la mutevole incostanza
dei venti ti convince a disperare,
tu che non dormi, ma che invece guardi
in sogno il tuo delirio e ne catturi
rabbrividendo il muto arrestarsi
e più fosco, nel fremito del sangue,
trasenti, quasi ardente, nelle vene,
il suo inarrestabile diluvio,
di Dio, che sai? e svaporata in aria
della tua luce l’ultima scintilla,
ritornato alla Notte, in quel tuo Buio,
dell’anima che viaggio prefiguri?
Eppure per il popolo, davanti
al muftì, giudicato dallo sguardo
severo di un imàm, di Dio non parli
anche tu? Ne parliamo tutti quanti,
quando parliamo con chi a Dio devolve
il senso intero della propria vita.
O con chi sa che Dio nasconde quanto
vogliamo che tra noi resti nascosto.
Il popolo ci crede, e questo basta.
Ma tra te stesso sai che se ne parli,
quando ne parli, nomini un Assente.
Noi due, amico mio, di queste cose
siamo da lungo tempo esperti. Voce
del cuore c’è più spesso la ragione.
E ne ridiamo. Ma che cosa sanno
quelli che ancora spaventa la morte?
FAKHR-AD-DIN Il popolo? Un potente ciò che vuole
gli fa credere. Ma costui comanda
ai potenti: lo temi anche tu.
FEDERICO Devo
temerlo, devo rispettarlo, devo
inchinarmi davanti a lui, calzarmi
calzari di umiltà, come un suo servo,
e come un pellegrino, un penitente,
indossare gli stracci di ubbidienza.
Lo fanno tutti. Devo conformarmi
al costume comune. Basta un niente,
una parola fuori posto, un gesto
incontinente, per mandarlo in bestia,
la bestia più feroce tra le bestie,
la bestia della religione. Devo
dunque adeguarmi per restare in sella,
volentieri la belva mi vorrebbe
disarcionare, un giorno, se potesse.
Disarcionato, mi vedrei finito.
Egli lo sa, perciò mi bracca e insegue,
mi calunnia, sobilla i miei vassalli,
devasta le mie terre, muove contro
di me predicatori e cavalieri.
Mi odia, e l’odio suo è, come il mio,
smisurato, implacabile, costante.
Un Dio gli arma la mano, un Dio che scaglia
contro di me, contro l’Impero, Roma.
Quel Dio, devo ammazzarlo. Nell’Impero
pace nessuna, potere nessuno,
sarà mai saldo, se da me distrutto
quel Dio non è, o da me stesso Dio
sul trono io non mi ponga. Ecco la lotta,
ecco l’odio che il campo dei Cristiani
divide in schiere opposte e lo sconvolge.
FAKHR-AD-DIN Angoscia tanta, come regge il cuore?
FEDERICO Pensando che una notte come questa
può, per un breve istante, cancellarla.
Bevi, dunque. Dimentica per questa
notte l’angoscia che divide gli uomini.
FAKHR-AD-DIN Nella casa del Kadì Shams-ed-Din,
che qui a Gerusalemme ospite accoglie
la tua persona, benigno cantare
lasciasti i nostri muezzìn. Votava
a silenzioso invito di preghiera
il muezzìn, per tuo rispetto, il caro
Shams-ed-Din. Ma rispetto dimostrasti
invece tu per la sua fede. Dunque
cantano i muezzìn nella sua casa,
cantano i muezzìn per cinque volte,
dall’alba all’ombra dolce della sera,
nella casa del Kadì Shams-ed-Din.
Ebbene, Amico, guarda come adesso
l’Emiro Fakhr-ad Din, per tuo rispetto,
la Legge Santa infrange del Corano:
per questa sola notte, a te cristiano,
perfuse le sue vene di dolcezza,
l’oblio ti dona dell’Islàm, e questa
coppa tracanna colma fino all’orlo,
omaggio del profeta galileo.
Beve.
E’ vino greco. Rosso come il sangue.
E come il sangue inebria, Federico.
FEDERICO A me cristiano? Non più di te, forse;
né più di me tu sogni oltre la vita
il sogno del profeta. Allah, Gesù,
perché mentirci? Dio noi non abbiamo
che quest’istante, il saengue che ci scorre
nelle vene e che per un Dio versare
ci disgusta. Perciò tu m’offri vino
greco, ch’io bevo a tutto ciò che fugge.
Beve.
Perciò tu m’offri questi due fanciulli,
e m’offri la tua bella danzatrice…
Fakhr-ad-Din fa cenno alla danzatrice di accostarsi a Federico.
Ella esegue.
FEDERICO … che qui, davanti a te, con la mia bocca,
ora per amor tuo commosso bacio.
Porge una mano alla danzatrice, che soridendo gli offe la sua.
Egli l’attira dolcemente a sé, la cinge con le braccia e la bacia.
I due, piano, si lasciano cadere sul tappeto e si perdono in un
dolcissimo amplesso.
FAKHR-AD-DIN sorride, beve, e affonda una mano nella chioma di uno
dei due giovinetti, i quali, abbandonato Federico alle carezze della
danzatrice, si erano andati a coricare ai piedi dell’Emiro, che li
accoglie gioioso, scherzando anzi con loro, carezzandoli e
stuzzicandone con un dito l’amabile sesso, ancora quasi infantile.
Canta:
Dolcezza è il sogno della vita, dolce
quanto più breve il sogno. Amaro, Amico,
ogni altro dolce che d’oblio non sogna.
Bacia sul collo prima uno, poi l’altro giovinetto. Piange e
invoca la cantatrice:
Oh! Nuzhat-az-Zamàn,
dolce Delizia
del Tempo, dove sei? Continua il canto.
Entra NUZHAT-AZ-ZAMAN la cantatrice, con un liuto (un ‘ud
iraqeno). Dopo in breve, ma dolcissimo, preludio, canta:
NUZHAT-AZ-ZAMAN Sognata ogni dolcezza, vivi sogni,
ma non lo sai. Se lo sapessi, quanto
vivendo credi il sogno in cui ti sogni,
non sarebbe che l’ultimo tuo schianto.
Ma coraggio! Che serve? Bevi ancora
dalla tua coppa la fragile speranza
che quanto il cuore tuo seppe finora,
non era inganno, ma verosimiglianza.
Inseguire non fosse che il tuo sogno,
la tua fuga dal tempo, quale giorno
misurerebbe il fragile bisogno
che dove c’è un addio sogna un ritorno?
Dolcezza è il sogno della vita e agogna
quanto più lungo il sogno. Amaro, Amico,
ogni altro dolce che d’oblio non sogna.
Più dolce se dal sogno ti districo.
FEDERICO si alza, fissa l’Emiro e scoppia in una fragorosa
risata.
FAKHR-AD-DIN batte le mani e NUZHAT-AZ-ZAMAN scappa via. La
DANZATRICE si rannicchia ai piedi di Federico e gli avvolge le
gambe con le braccia.
FEDERICO E tutto questo, perderlo dovremmo,
dimmi, per chi? per quale fede? quale
infimo sogno di supremazia?
quale Dio decretò che superiore
fosse l’arabo al popolo cristiano,
che un rozzo contadino di Biscaglia
insultare potesse impunemente
il rabbino di Troyes?
forse il mento
sbarbato del Tedesco è più gradito
a Dio dell’unta barba di un Ebreo?
l’occhio celeste di una incantatrice
Irlandese attraente più del nero
sguardo di una Persiana? Guarda i campi
di battaglia: tra Franchi e Bizantini,
Dio chi favorirà? tra Curdi e Turchi,
Allah chi sceglie? Ma di che colore,
il tuo sangue, di che colore il mio?
A volte penso che soltanto un nome
è Dio, quello che diamo a tutti i nostri
crimini, per giustificarli agli occhi
di chi altrimenti ce ne chiederebbe
ragione. Forse so più cose, amico,
di quante viste abbia la tua prudenza.
FAKHR-AD-DIN batte le mani e la DANZATRICE fugge via
insieme ai due GIOVINETTI: Adesso siamo soli. E ti
rispondo.
FEDERICO Ti sgomenta una donna, una tua schiava?
e due fanciulli?
FAKHR-AD-DIN Dire posso tutto
quello che voglio, anche davanti a loro.
Sono soltanto servi. Discrezione
mi consiglia, però, di non turbare
la loro ingenua fede. Tu, superbo,
dal tuo scranno di faticata scienza,
chi sa, potresti riderne, sarebbe,
però, credimi, un passo falso. Sono
loro che saldo tengono il tuo trono,
e proprio perché sono ingenui. Il bene
sta raramente dove ci aspettiamo
di trovarlo. Più spesso, dove il pegno
è perdere la nostra millantata
sapienza. Da costoro un sì lo afferri
non già con gli argomenti, ma con una
carezza o, meglio, corrugando il ciglio.
Non siamo uguali. Anche se di diversa
fede, e forse, anzi, di nessuna, uguali
dirci noi due possiamo. Ma la figlia
d’un panettiere di Friburgo meno
ti conosce del gran vizir di Bursa.
Puoi scopare una contadina, l’occhio
di un conte o di un emiro sempre un muro
alzerà tra il tuo stemma e la sua faccia.
Dunque, che cerchi? Il mondo non è fatto
come ti piacerebbe che lo fosse.
I ragazzi t’avrebbero concesso
il culo volentieri, e la sua fica
la danzatrice. Ma da loro nulla
più ti sarebbe stato regalato.
Non lo sperare. Avvezzi sono i loro
corpi al sopruso, tutti i giorni, tutti
i momenti, da tutti – n’hai goduto
anche tu, no, dell’arrendevolezza
dei loro corpi? - ma sopruso, dimmi,
perché, perché violenza perpetrare
ai
loro cuori ignari di violenza,
che
non sia la violenza dello stupro?
C’è
una violenza assai peggiore, amico,
della
violenza che oltraggia un corpo. Quella
che
fa violenza all’anima.
FEDERICO Violenza
all’anima?
che dici? La conosco
questa
violenza, su di me non solo,
da
Innocenzo, ma tra le vostre file
di
fedeli e devoti musulmani.
FAKHR-AD-DIN Federico,
che fai? mi lasci solo?
Vuoi
dirmi che non so le nefandezze
della
mia parte? Le ignorassi, cosa
che
non posso, il giudizio cambierebbe?
Esamina
le tue. Ma enumerare
nefandezze,
di quale nefandezza
ci
scagiona?
FEDERICO
La storia ci racconta
favole
incomprensibili. La storia
che
vorrei raccontata, c’è qualcuno
che
possa raccontarmela, e non dirmi
ch’è
stata invece tutta un’invenzione?
Violenza
usare all’anima! Violenza,
il
desiderio? Ma comprendi, Emiro,
desiderare,
fuori d’ogni legge,
che
cosa sia? c’è legge che un confine
possa
configurarci al desiderio,
di
oltrepassare il nostro desiderio?
Per
qualcuno è sopruso già l’avvio
del
desiderio. Ma per chi confine
del
desiderio è il suo desiderare,
quale
bocca concederà il suo bacio?
Lo
inganneranno i sensi? E sarà bocca
per
lui qualunque favola gliene apra
una,
dovunque in corpo di ragazzo
o
di donna gli sembrerà che bocca
sia
l’apertura che l’accoglie? oltraggio,
gli
parrebbe la verità? o sempre
è
vero, da qualunque parte arrivi,
il
piacere che appaga?
FAKHR-AD-DIN
Per qualcuno,
anche
uccidere dà piacere. Vero
piacere.
Dal dolore procurato
che
s’infligge. Sarebbe da cercare
anche
questo, anche questo sembrerebbe
una
bocca che accoglie? il bacio freddo
dell’angelo
che a tutti chiude gli occhi,
bacio
d’amore? Verità tu quale
potresti
al cuore che ti si abbandona
con
certezza affermare, e con certezza,
anche,
nel tuo segreto, confermare?
FEDERICO E
sia. Non capirebbero. Tacere
perciò
si deve a loro da chi a loro
chiede
la vita, vita mai che cosa
sia,
e se bene toglierla, donarla,
o
male sia, raccoglierla perduta
nel
momento in cui l’alito finisce,
senza
che sappia chi la lascia il vero
prezzo
di ciò che lascia. La parola
offendere
potrebbe la coscienza
di
un giovinetto, quando lo degrada
a
mente di un adulto e gli propone
non
una bella fiaba, ma l’incerta
verità
ch’è la sola verità
che
un adulto conosce. La violenza
di
un’illusione può più duramente
ferire
di una verità svelata.
E
paradiso si promette quale,
dimmi,
dopo la morte, da chi crede,
a
questi vostri giovinetti? Pazzi!
Ieri
ho parlato con Hassan Sabbah.
UNA CELLA SULLA CIMA DI UNA TORRE. IN FONDO UNA GRANDE FINESTRA
APERTA.
IL VECCHIO DELLA MONTAGNA e FEDERICO si guardano, l’uno
di fronte all’altro, fisso negli occhi. DUE GIOVANI ARMATI
stanno ritti ai lati del Vecchio.
FEDERICO Vi chiamano Assassini. Vostra vita
è la morte. Vi teme anche il Sultano
al-Malik al-Kamil, là nell’Egitto,
più di quanto non tema in Occidente,
da noi l’Imperatore il Papa. Quale
forza vi dà potere? quale mente
vi guida? armato avete con che scopo
la fedele follia di una masnada
imberbe, giovinetti che al suicidio
aspirano, che cercano la morte,
quasi la vita un incubo paresse
dal quale risvegliarsi. Parla, Vecchio.
Il colore degli abiti, lo sguardo
corrucciato, la fronte corrugata,
mi mostrano la nera cerimonia
d’una spietata idolatria. T’indigna,
forse quanto ti dico, ma t’indigna,
chi sa, di più, la libertà che ostento.
Ebbene, a questa libertà ti chiedo
di rispondere: a nulla gioverebbe
eliminarmi, conosciamo questo
tuo rifugio, sarebbe un gioco farti
fuori insieme alla tua ghenga di pazzi.
Ti conviene parlare. A me conviene
risparmiarti la vita, per ognuno
dei cavalieri che m’ammazzi, quasi
vinco la mia battaglia, senza alzare
per colpirvi una lancia. Cresce l’odio
per voi perfino tra le vostre fila.
E insieme all’odio cresce la paura.
E chi ha paura, assai pericoloso
può diventarti. Dura molto poco
il potere che nasca dal terrore.
Ma spiegami il mistero che li acceca,
e spiegami di questa disperata
fedeltà la radice che non vedo,
il nodo che li stringe come un cappio
alla gola. Non sembrano ragazzi.
Non sembrano guardare. Il loro sguardo
è vuoto. Come di un automa, come
l’occhio del Golem. Sembrano accecati.
Si offrono lieti al bacio della morte,
e sorridenti, quasi fosse il bacio
tiepido di una donna. Li ho veduti
morire, ad Acri, sotto il mio pugnale:
ma non era un morire l’amoroso
languore che nel volto li sbiancava.
E quale vita può per loro darsi,
oltre questa, più bella della loro
stupita giovinezza? Parla, Vecchio.
Ti ascolto in un silenzio disperato.
HASSAN SABBAH Ma nel Silenzio si rivela il Nulla.
Tu sei di molti principi sovrano,
come dicono, ma così lontana
è la tua terra che di queste cose
digiuna serbi ancora la tua mente?
Viaggio, dai Franchi fino a questa Torre,
così lungo sofferse la tua vela
che per strada dimenticasti leggi
e costumi di chi lo scettro in pugno
stringe? o davvero la radice dove
s’interri del potere non conosci?
T’accolse alunno la Sicilia.. Seme
di saggezza, la lingua del Profeta
al Vero t’educava. Delle antiche
carte, quasi a te solo in Occidente,
il suo segreto l’Ellade t’apriva.
Ed osasti perfino profanare
la tua intelligenza con la lingua
dei rinnegati figli di Giudea.
Tutto il bene, ma pure tutto il male,
sembri avido di bere, da qualunque
fonte ti scaturisca il suo liquore.
Questo ti rende strabico. Minacci?
Spocchioso nanerottolo tedesco!
La morte non mi fa paura. E mille,
dopo di me, vedresti dalla terra
sorgere che calpesto, armate guardie
dell’Islàm, a distruggerti e annientarti!
Mi stupisci e - permetti? - mi deludi.
Piccolo, calvo, rossa e rada intorno
alla bocca la barba, corto il raggio
dello sguardo, saresti un re? del Caso
dunque sarebbe figlia la corona
d’Imperatore che ti cinge il capo?
Principe dei Credenti qui si chiama
chi ci governa, principe di Dio,
perché solo da Dio forza gli viene
di reggere la Terra e di guidarla.
FEDERICO Che credi? anche per noi da Dio deriva
ogni potere. Ma non ho bisogno
di un prete che si faccia mediatore,
tra Dio e me, di quel potere. Questo
mi divide dal Papa e mi condanna
all’esilio tra il popolo cristiano
che beve la sua bava come fosse
sputata dalla bocca di Dio Padre!
HASSAN SABBAH Tu, principe dei principi, non vedi?
Tu, Re dei Re, o, come nella vostra
lingua ti fai chiamare, Imperatore,
ignori ancora, come fossi imberbe,
da dove nasca il grande tuo potere?
Oh, non da Dio. Ma da chi crede in Dio.
Ascoltami. Non parlo invano, quando
parlo, chiunque mi si piazzi in faccia!
Per ognuno dei vostri cavalieri
che ammazo, diecimila nuove bocche
mi aspettano nel luogo a te proibito
per soddisfare tutte le mie voglie.
E dunque: ascolta quanto devo dirti.
Oltre l’istante che c’ingoia, il Tempo
all’occhio si squaderna della mente
e vi leggo segreti che nessuno,
nato di donna, oggi, conosce. Posso
fartene parte, posso reclutarti
tra gl’iniziati. Posso il suo Sigillo
dischiuderti, che mano di mortale
non disserra. Ma tu non sei mortale.
Perciò ti parlo. Sgombro dai tuoi occhi
la nebbia che ti rende cieco. Ascolta.
Nessuna forza magica sostiene
il mio potere. Oltre la mia, nessuna
mente mi guida. Un esaltato, forse,
mi crederai. Ma perché non piuttosto
un Veggente? Uno sperimentatore?
uno che ha visto il Nulla, ed è convinto
che quel Nulla sia Dio? potresti, forse,
per ubbidire al tuo razionalismo,
credermi un sognatore, un impostore.
ma perché no, dimmi, un illuminato?
Ti sembrerebbe cinico e banale?
Può darsi. I nostri mistici da molte
parti del mondo ci hanno spalancato
questo Mistero. Noi li credevamo
visionari poeti, credevamo
di dovere tradurre in quotidiana
esperienza il linguaggio fiammeggiante
delle loro visioni: interpretare
quelle strane, volubili figure.
Dicono la realtà. Vedono Dio
così com’è, l’Abisso senza fondo
in cui s’annega l’essere. Una meta
che il termine dei pochi e brevi giorni
a me predestinati mi oltrepassi
e il fragile respiro dei miei anni
dopo di me prolunghi, non conosco.
La mia parola è disperata quanto
il tuo silenzio. Ed è guardando dentro
il vuoto Abisso, nell’oscuro Nulla,
che m’arriva la forza, con cui reggo
le sorti del mio popolo. Nel cuore
posso allora di questi giovinetti,
senza turbarmi, insieme alla certezza
di una fede, con arte distillare
a goccia a goccia, lentamente, il dolce,
seducente terrore della vita.
FEDERICO Da lungo tempo, Vecchio, volgo in mente
pensieri come questi. Ma credevo,
da vero rozzo figlio di Tedeschi,
che solo in Occidente le radici
s’interrassero dello scetticismo,
del disinganno, e di quella mortale
malattia ch’è il tedio della vita.
HASSAN SABBAH No, non tedio: terrore. Mi fraintendi.
FEDERICO Non ti fraintendo affato. A passi lenti,
ma ti sto dietro, Vecchio, e ti raggiungo.
Mi sbagliavo, naturalmente. Prima
ancora che da noi, tra le brumose
pianure del lontano Nord, m’accorgo
che invece qui, tra le assolate dune
del deserto, già qui, nell’afa spessa
di fiumi sonnolenti, Dio si veste
da giullare, si maschera da guitto,
e gioca a nascondino con i saggi.
Sotto il cielo purissimo d’Oriente,
niente ci appare allora meno impuro
della faccia invisibile di Dio.
Vesta la mitra o indossi caffettano
e turbante, il suo grido è sempre un grido
di morte che si espande tra la gente,
e spada o scimitarra, d’ogni lato
rotolare vedrai a centinaia,
a migliaia, le teste di Cristiani
e Musulmani. Che sia croce o luna
lo stendardo, distinguere non conta:
ma chiedilo ai decapitati quanto
valga uno stemma, quanto li assecondi
il colpo di una lancia, quanto appaghi
il sapore del sangue nella bocca,
a che giovi la fulminante asprezza
d’una freccia che a un tratto si conficca
nell’occhio. Chiedi, chiedi, e se resisti
al loro sguardo, interroga i fanciulli
che con animo lieve mandi tutti
a morire. Non credo che al tuo Dio,
che al Dio di Roma o di Bisanzio, o Dio
quale che sia nel mondo, la mattanza
inutile, ingiustificata, folle,
che tra noi si perpetua e si comanda,
possa sembrare un simbolo di gloria.
E dunque Allah, Maometto, Islàm, o Cristo,
Bursa, Costantinopoli, se questa
guerra santa la chiamano Cristiani
e Musulmani, un gioco vi è giocato,
certo, da tutti noi, ciascuno trova
poi l’interesse che gli piace, trova
la giustificazione. Ma del gioco
chi conosce le regole? Chi muove
le pedine? Chi sa tutte le mosse?
Forse appieno nessuno. Può cadere
la Regina, può cedersi un Cavallo.
Ma poi lo scacco al Re, lo Scacco
Matto, non è la fine della nostra
partita, ne prepara un’altra, forse
di rivincita. Ma di quale parte?
Di tutte e di nessuna. L’una e l’altra
sgominate sul campo. Sterminate.
Ebbene, allora più di una pedina
non vale il Dio che chiede il nostro sangue.
O la partita se la gioca tutta
quanta da sé, figura, segno, stampo,
di cosa indecifrabile, di cosa
che non ha nome o che il suo nome prende
d’accatto. E dunque dietro questo nome
- se di cosa o di Dio, non so - non altra
è l’ambizione che corrode il gelo
di quella mente, se non l’intenzione
di dominare e di delimitare
un dominio: tu, uomo, qui non passi!
Non è così? Ma questo, lo sapevo!
Di tale gioco, Vecchio, già conosco
tutte le mosse e tutte le varianti.
HASSAN
SABBAH Ma quello che non sai e che divide
in
aspre lotte l’Impero Cristiano,
è
che tu dio non sei, ma invece un altro
nell’Impero,
ne assume, non il nome,
che
non può, ma l’ufficio di vicario,
se
ne proclama delegato in terra,
per
mandato divino. Ogni potere,
non
è dall’uomo, ma da Dio concesso.
Diventa
tu dio, Federico, e tutto
da
tutti avrai. Non d’essere sfamato
ti
fa preghiera il popolo, ma dagli
l’illusione
di vincere la gloria
dei
secoli, ti seguirà dovunque.
FEDERICO Divide
anche l’Islàm quel sacro nome,
Dio
non la pace, ma la spada in terra
ha
condotto, lui stesso condottiero
delle
schiere avversarie, delle opposte
fazioni,
degli eserciti nemici.
Divide
Dio vassallo da vassalo,
califfo
da califfo, e sparge sangue
musulmano
per mano musulmana,
così
com’è cristiana molto spesso
quella
mano che sangue di cristiano
fa
scorrere nei campi di battaglia.
HASSAN
SABBAH Gioco anche questo. Esercizio di morte.
Non
so nel vostro campo di Cristiani.
Ma
chi combatte, qui, combatte sempre
per
l’Islàm. E perciò m’infastidisce
che
tu ti ostini a fare paragoni.
Nessun
confronto tra l’Islàm e voi
centra
davvero la questione, tocca
il
nodo della fede musulmana.
Nell’Islàm
si ubbidisce a chi comanda.
Non
importa per chi, né sotto quale
insegna,
se un’insegna c’è, e se insegna
musulmana
sarà quella che guida,
basta
che venga stretta forte in pugno
da
mano salda che ai credenti mostri
la
strada da percorrere. Ci andranno
giubilando,
convinti di parlare
con
Dio stesso, di cui sei l’inviato.
Il
popolo è una cagna che al mendico
mostra
le zanne, ma lecca la mano
che
la percuote. Libero, si perde.
E
s’affretta a inventare altri padroni.
FEDERICO Ma
fino al punto di avere paura
della
vita, ottenerlo come puoi?
HASSAN
SABBAH Bastano pochi eletti, i più reattivi,
i
cuori più sensibili, i più puri.
Saranno
agli altri esempio di devota
fedeltà,
di coraggio, d’ardimento.
Li
chiameranno eroi, li ammireranno.
Invidieranno
la loro immatura
felicità.
Ti sembra poco? Guarda.
Fa un cenno ai due giovani armati, che cacciano subito un urlo
stridulo di gioia e si buttano giù dalla finestra della torre.
LA SCENA DI PRIMA. L’EMIRO sdraiato fuma oppio dal becco del
narghilè. FEDERICO, cupo, in piedi, l’osserva.
FEDERICO Li
strappano così alla vita. Il Vecchio
li
alleva nel più rigido ascetismo
per
anni: ma descrive il paradiso
di
delizie, piaceri voluttuosi,
destinato
ai campioni della fede.
Un
giorno li stordisce con hashìsh.
Per
quest’erba li chiamano Assassini.
Poi
li risveglia in mezzo al paradiso
promesso,
dove il murmure leggero
delle
fronde li adesc’a dolci sguardi.
E
vedono ruscelli che hanno le acque
gialle,
bianche e vermiglie per il miele,
il
latte e il vino che vi scorre dentro.
Zampilli
di fontane, ombre vaganti
di
rondini, usignoli e pettirossi
fanno
bordone al lieto e vario aspetto
del
giardino, e col dolce e lieve suono
del
mormorio dell’acqua e dei bei canti,
s’intenerisce
ai giovinetti il cuore,
si
ridestano gli assopiti sensi.
Soavi
donne e teneri fanciulli
fingono
urì graziose e delicati
efèbi,
donne e ragazzi nell’arte
esperti
d’ogni vincolo d’amore,
disposti
ai più volubili viluppi,
pronti
a spillare dagli estenuati corpi
dei
giovani guerrieri i più estasiati
effluvi,
le più torbide effusioni.
Un
attimo di questo paradiso
basta
a bruciare in loro la memoria
d’ogni
altro tempo che non sia l’istante
di
quell’intensa voluttà, di quella
perenne
ebbrezza, che li succhia, esausti,
nel
vortice di quello sfinimento.
Da
quel momento, non aspira ognuno
che
a rinnovare quelle sensazioni,
che
a ripetere il dolce ultimo istante
che
li ha sfiniti e dunque il desiderio
s’aggroviglia
nell’ansia di un’attesa.
Il
Vecchio lo sa bene. Li addormenta
un’altra
volta. Quando li risveglia,
rivedono
le mura della torre:
e
anelano alla morte per lo spasmo
disperato
di quel perduto istante.
FAKHR-AD-DIN Felice
istante! più felice morte!
che
da vivace morire a immortale
vita
i sensi trapassa e in un istante
immortalmente
fa morire il cuore!
L’INTERNO DEL DUOMO DI MESSINA. E’ il settembre 1197. COSTANZA
D’ALTAVILLA fissa, torva, il feretro su cui giace il cadavere
di ENRICO VI.
COSTANZA Annegato
nell’acqua del tuo corpo,
o
stupratore, non esisti più!
Ora
sei - finalmente! – ciò che fosti
sempre:
pietra - , o predone della figlia
di
Ruggero e del Regno dei Normanni.
Te
lo dice, al tuo sangue raggelato,
la
madre di tuo figlio Costantino.
Grida,
adesso, il tuo grido di selvaggio!
LA SCENA DI PRIMA. L’EMIRO annega nell’oppio, FEDERICO
lo guarda, tra il compassionevole e il disgustato, gli si accosta, lo
scuote.
FEDERICO Amico,
e se ragione avesse il Vecchio?
Se
prigionieri d’un errore, i nostri
pensieri
vaneggiassero? Se un sogno,
solo
un sogno, la mente vagheggiasse?
Forse
il mondo non sa, non vuole fare
a
meno dell’idea d’un Dio sapiente,
di
uno sguardo indulgente che ci guidi.
Piuttosto
morirebbe, che accettare
un
mondo senza Dio o senza un Dio
provvidenziale.
Che la provvidenza
possa
imporsi con la violenza di una
guerra,
non lo spaventa. Poco importa
il
mucchio di cadaveri che funge
da
basamento a quest’imposizione
di
un ordine. Che sciocco quel sovrano
che
crede invece di consolidarlo,
un
ordine, con patti e con trattati
di
riconciliazione! La rivolta
non
gli verrà dal popolo o dagli altri
sovrani:
gli verrà dal bianco e bieco
spettro
di Roma, dal vicario in terra
del
giudizio divino! Giudicare!
Qual
è più sogno, dimmi: il mio, d’un regno
senza
fede o la fede che organizza
un
regno? Bah! Diverso non mi pare
l’ostinato
Gregorio da quel Vecchio
farneticante.
Sono entrambi un calco
di
fanatismo cieco, ottuso e pazzo!
FAKHR-AD-DIN Tu
possiedi un Impero vasto quasi
quanto
il mondo, soltanto il nostro Impero,
e,
dicono, in un più lontano Oriente,
nei
deserti dell’Asia, un altro Impero,
fors’è
più vasto. Ma perché temerlo,
se
puoi parlare, come in questa notte,
la
nostra lingua e abbandonarti al sonno
tra
i nostri incensi? Dormi, Federico.
Oltre
i sensi, conosci qualche cosa
che
puoi chiamare, senz’ombra di dubbio,
verità?
quanto al vero che dai sensi
t’è
mostrato, se senza te lo pensi,
puoi
ancora pensarlo vero? Dormi.
E
respira con me l’oblio del mondo.
FEDERICO Dimenticare
il mondo? Non è quello
che
cerco. A piene mani è sparsa in terra
la
tenerezza della vita, il bello
m’assale
e mi commuove. Ma veloce
trascorre
il giorno ch’è concesso ai sensi.
Rapida
giunge a chiuderlo la notte.
Prima
di quella notte voglio bere
con
i miei occhi dallo spazio aperto
tutta
la luce che mi raggia il sole.
FAKHR-AD-DIN Lontano
è il sole, assai lungo il cammino
che
il suo raggio percorrerebbe fino
a
sfiorarti le palpebre socchiuse.
La
luce che ci arriva è solo un’ombra,
un’offuscata
macchia, di quel fuoco.
FEDERICO Mai
dunque il Sole? mai la pura luce
del
suo perenne fuoco nello sguardo?
Una
volta vederla. Una soltanto,
e
di dolce pienezza poi morire.
FAKHR-AD-DIN Ti
basti ‘l sogno che sognò tua madre.
Brevi
minuti dura il nostro giorno.
E
dunque quando noi guardiamo il giorno,
e
c’illudiamo di ficcare l’occhio
nella
sua luce, non vediamo invero
nient’altro
che lo sfarfallio di un’ombra,
il
breve istante che s’imprime come
una
traccia volubile nel cuore.
Ma
tu nemmeno di quest’ombra sembri
ricevere
un riflesso. Che pienezza
vuoi
dunque catturare, se la vita
che
vivi ti si sfila tra le dita
come
una tenue e vuota ragnatela?
Pertanto
non guardare oltre lo spazio
che
il tuo sguardo misura, Federico.
Che
cosa troveresti? Altri confini,
altre
misure, altri modelli. Un altro
chiuso
spazio, che come questo nostro,
scandiscono
ordinate altre figure
del
Tempo.
FEDERICO Il
tempo!
FAKHR-AD-DIN
Puoi fermarlo, dimmi?
dominarlo?
FEDERICO Nemico
m’è da sempre.
Mentre
parlo mi sfugge, s’allontana.
E
sento che lo perdo. Che svanisce.
Non
è sostanza: non posso toccarlo
né
pensarlo. Potrei una parvenza
supporlo
tutt’al più del movimento
delle
stelle, rispecchierebbe allora
quaggiù
la geometria del loro passo.
Se
così fosse, il tempo esiste, esiste
anche
se non l’afferro, anche se sfugge
al
mio pensarlo. Ma se il tempo esiste
fuori
di me, senza di me; se scorre
senza
ch’io possa regolarlo, senza
ch’io
sappia anche minimamente agire
sul
suo flusso e determinarlo, allora
il
tempo mi sconfigge, esattamente
come
la morte.
FAKHR-AD-DIN
E dunque? che concludi?
dove
ti perdi? Dormi, Federico, dormi.
Non
è sostanza, certo, e non lo tocchi,
il
tempo, né lo pensi: non almeno
come
definizione, inadeguata
qualsiasi
idea che tenti contenerlo
nei
termini ristretti di un concetto.
Perché
dunque ti ostini ad affermare
che
il tempo esiste? L’ombra di se stesso,
chi
sa, l’anafferrabile misura
del
nostro scomparire, l’incompiuto
tentativo
di chiudere il fermaglio
del
domani, sospendere la corsa
della
ruota che muove ciò che ancora
non
accade. Ma, più probabilmente,
l’ombra
del suo dissolversi nel punto
in
cui ci sembra già di trattenerlo,
anzi
l’ombra dell’ombra, che a guardarla
voltandoci
ci mostra le sue spalle
e
si disperde al passo della sera.
Sei
potente. Ti credono sapiente.
Puoi
dischiudere ai popoli un Impero,
rivelare
una nuova fede, aprire
nuovi
confini al regno della Legge.
Ma
non è senza prezzo questo immenso
potere
che t’acquisti. Ogni potere
sembra
quasi racchiudere in se stesso
un
germe infetto, sprigionare forze
terribili,
non già divine, quanto
piuttosto
demoniache. Una tale
possessione
non può colmare il cuore,
ma
lo svuota. Più si è perciò potenti,
più
si spalanca immenso dentro il vuoto.
Ai
sudditi dai terra, fede, legge.
Ma
per te non hai terra, non hai fede,
non
hai legge. Per questo sei potente.
Diventa
uno dei sudditi che muore
in
una delle tue battaglie, lascia
il
possesso di tutte le tue terre,
invéntati
una fede ed ubbidisci
a
una legge, invece di crearla,
non
cercheresti più nessuna luce.
FEDERICO Nel
mio sangue c’è febbre di predone,
da
mia madre ho bevuto latte amaro
di
nomade. Non possedessi imperi,
il
mio pensiero vagabonderebbe
per
sentieri mascosti, nei deserti
del
cuore e, chi sa, nuovi sapori
succhierebbe
da qualche ignoto frutto,
qualche
vista vedrebbe che lo appaghi,
dai
deserti dell’anima.
FAKHR-AD-DIN
tornando in sé, dai fumi dell’oppio:
Torniamo
dunque
ai deserti della vita. Ascolta.
Il
Sultano d’Egitto ti concede
quello
che chiedi: puoi comunicare
ai
tuoi Crociati che Gerusalemme
da
domani si schiude ai pellegrini
del
Sepolcro. E non uno fu trafitto
sul
campo dei tuoi uomini o dei nostri.
Nessun
Arabo ottenne dal Sultano
dono
più grande di questo che, vinto
da
folle amore per la tua saggezza,
graziosamente
a te Cristiano dona
al-Kamil
al- Malik, nostro Sultano,
Principe
ovunque amato dei Credenti.
FEDERICO s’inchina all’Emiro, chiude le braccia in croce sul
petto e, curvandosi fino al pavimento, gli bacia i piedi:
A questo folle amore saggiamente
risponderà
la mia follia e il cuore
follemente
dirà la mia saggezza.
Ai
tuoi piedi s’inchina in questo bacio
d’immensa
gratitudine un Impero.
Nemmeno
il Papa ottenne un tale ossequio
dalla
mia dignità d’Imperatore,
e
con tanta umiltà concesso. Pensa
che
alla tua Notte, indecifrato Amico,
ora
s’inchina per Amore il Sole.
FAKHR-AD-DIN Siamo
dunque al commiato? Non partire.
FEDERICO Se
mi si desse scelta tra lasciarti
e
morire, direi: morire. Tanto,
però
non m’è permesso. Doloroso
desiderio
m’accende di follia
la
mente. Il mare del ritorno s’apre
come
un deserto davanti al mio sguardo.
Ma
non è quella di chi parte vera
partenza
e di chi resta non è vera
separazione
l’allontanamento,
se
oltre il deserto degli sguardi dolce
memoria
stringe in petto nostalgia
di
ritorno e la mente solo trema
a
pensarlo. Ma udrò la vostra voce,
la
sera, dalla torre di Palermo,
nel
canto del muezzìn. E voi, da questa
terra,
la mia, nei canti del Sepolcro.
FAHKR-AD-DIN Immemori
deserti, Amico, lascia
dietro
di sé la Notte: e nessun fiore,
per
noi, dopo, dischiuderà la Luce
che
da segrete vene noi beviamo,
ogni
ora che tra noi senza parole
nel
muto incanto scorre di uno sguardo.
Ciò
che dicemmo, che ascoltammo, è niente:
ciò
che ancora vorremmo dire, meno
che
niente. Ricordarlo sarà poca
cosa.
Ma ciò che invece ci tacemmo,
questo
sarà per noi nostra memoria,
dolore
di dolcezza non dischiusa.
Io
non penso, non penso più. Sì, certo:
è
come dici. Udrai la nostra voce,
la
sera, dalla torre di Palermo,
nel
canto del muezzìn. E noi, da questa
terra,
la tua, nei canti del Sepolcro.
Ma
nessuno la voce udrà dell’altro.
La
voce, dico, che tra noi respira
anche
in silenzio l’eco della voce
che
interrogando aspetta la risposta.
Il
Silenzio in cui ora annegheranno
le
parole che ci vorremmo dire,
non
sarà più di attesa, ma di vano
desiderio
e sospiro di un Assente.
IL SANTO SEPOLCRO. Una folla immensa assiste
all’incoronazione di FEDERICO. Si odono, mescolati, canti
arabi, canti arabi dei Cristiani di Siria e d’Iraq, canti dei
Cristiani Latini, Greci e Slavi, e infine canti ebraici. FEDERICO
avanza lentamente fino all’altare, davanti al quale il Vescovo lo
aspetta con la corona d’Imperatore. Ma, giunto davanti a lui,
FEDERICO gli strappa la corona dalle mani e se la pone da sé
sul capo. I canti diventano grida di acclamazione e di esultanza.
Improvvisamente, in alto, sinistramente illuminata, compare, assisa
sul trono di Pietro, la figura solenne di Papa GREGORIO IX.
GREGORIO
IX L’empio ha colmato intera la misura
della
sua smisurata empietà. Fino
alla
fine ha finito l’infinita
operazione
della finitezza
del
Male. Per un’opera dannata
di
dannazione universale, stringe
la
Croce sul Sepolcro la perversa
mano
di un rinnegato. La Superbia
di
Satana condusse a patteggiare
con
l’Infedele un infedele Servo
della
Chiesa, di modo che un’impresa
cui
solo una conquista giusta e santa
poteva
imporre crisma di cristiana
e
misericordiosa spedizione,
oggi
sembra graziosa concessione
di
un idolatra falso e usurpatore.
Nessun
patto intercorrere può mai
tra
il Dio cristiano e quello musulmano,
nessuna
tregua si concede al Male,
quando
l’armata che lo sfida in campo
è
l’armata del Bene: perché Cristo
è
il bene, e non c’è Bene se non Lui.
Questo
superbo Staufen, Federico,
che
dite Imperatore, troppi segni
lo
dichiarano come l’Anticristo!
L’Apocalisse
dunque s’avvicina.
Ma
noi, Servo dei Servi di Dio, noi
da
questo soglio, qui, che fu di Pietro,
e
che fu benedetto dal suo sangue
di
martire, lanciamo l’anatema!
E
rinneghiamo il patto, noi, Gregorio
Nono,
noi, Papa e Vescovo di Roma,
noi,
Vicario di Cristo sulla terra,
dal
profondo odio di Dio, dal profondo
odio
nostro essere condanniamo
all’eterna
e totale interdizione
dai
Sacramenti, a dannazione eterna,
il
peccatore che lo sottoscrisse,
e
gli proibiamo accesso ai luoghi sacri,
gli
proibiamo di chiedere ubbidienza,
d’imporre
leggi, d’essere un sovrano:
è
un reietto di Dio, finché la morte
a
sguardo umano il suo fetido corpo
non
sottragga e finché l’anima dannata
non
bruci al fuoco eterno dell’Inferno!
FINE
Bettona,
agosto 1978.
Prima
revisione: Roma, 19 ottobre 1994.
Ultima
revisione: Roma, sabato 1 gennaio 2005.