giovedì 25 marzo 2021

Geometrie d'amore

 



GEOMETRIE D’AMORE


A Ornella.


“… e mi venne una volontade di volere ricordare …”


Dante, La Vita Nuova



Era una calda notte d’estate dell’anno di grazia 1291. Si udì bussare alla porta. Il servo fece entrare un uomo alto, magro, avvolto in un ampio mantello scuro. Tutti, nella casa, dormivano. Ma l’uomo sapeva che almeno uno, in quella casa, non dormiva. Quest’uno, infatti, lo accolse nel suo studio. E i due, soli, nella notte, al lume della lampada poggiata sulla scrivania, cominciarono a parlare.

“Da molto tempo sfuggi la mia compagnia”, disse l’insonne: “Che cosa significa, dunque, a quest’ora, la tua visita?”

L’ospite non rispose subito. Si tolse il mantello e lo lasciò cadere su uno sgabello. Poi si voltò verso l’amico e l’abbracciò, ma quegli quasi disdegnò l’amplesso e si ritrasse, guardandolo fisso negli occhi. L’ospite sostenne con un gesto di sfida lo sguardo, accennò anzi un sorriso, quan­do vide che l’altro aveva cominciato a tremare e perciò s’era subito seduto su una sedia davanti allo scrittoio: l’ospite attese allora che l’amico dicesse qualcosa, che se non altro si meravigliasse del ri­tardo con cui faceva aspettare una risposta, che chi sa l’amico ora giudicava in cuor suo incompren­sibile e protervo. Ma, non udendogli aggiungere altro alla domanda già formulata, sempre in silen­zio, si sedette finalmente anche lui su un’altra sedia proprio di fronte all’amico, poggiando il brac­cio destro sullo scrittoio.

“Non è vero”, disse, alla fine, sorridendo: “vengo da te infinite volte, ma giunto qui davanti non oso chiamarti, né tanto meno chiedere di vederti, e parlarti”.

“Fosti sempre una natura orgogliosa. Forse perfino più di me. Che cosa ti offende, di quello che faccio?”

“Di quello che fai, quasi nulla. Ma di quello che pensi, che propaghi ai quattro venti e che ti accingi può darsi a fare in piazza, non so più come giudicare”.

“E che t’importa dei miei pensieri o di ciò che potrei fare? E perché pensi che potrebbe d’altra parte importarmi il tuo giudizio?”

“Ma smettila! Non sai nemmeno peccare. I tuoi non sono peccati contro Dio, ma sono pec­cati di stile”.

“Ah sì? facile, per te, dirlo!”

“Più facile, forse, per te, farlo?”

“Ma di che cosa parli? Non conosco azioni facili, lo sai. Anche riempirsi d’acqua un bic­chiere per dissetarsi è un atto più complicato di quel che sembra e può assumere molti significati. Quanto ai pensieri, che ne sai? Oggi mi sgomenta perfino la sensazione di avere un cervello”.

“Hai abbandonato la via che ci univa, lo stile di vita che ci distingueva dagli altri. Lo hai di­menticato? Cercavamo insieme un senso che non appartenesse a tutti e fosse un segno mentale di riconoscimento, che non valesse solo per noi, ma indicasse ai più nobili tra gli uomini il sentiero da percorrere per distinguersi dalla matta bestialità di tutti gli altri uomini. Che ne è rimasto?”

“Quanto c’è di più naturale in una vita: la morte”.

“Io, la vivo ogni giorno. E con paura. Fui sempre un uomo di paure, lo sai. Ma non è solo la morte di una donna a sgomentarmi. Oppure, il che è ancora peggio, quanto più assomiglia in questa vita alla morte: l’abbandono, tuo o dell’altro e dell’altra. Come stai facendo anche tu con me. Ci si può disperare per l’abbandono di un amico quasi quanto per quello di una donna, se quell’amico era – mio Dio! era? – il primo tra tutti e io per lui. Ma poi l’angoscia che mi soffoca è anche il pen­siero di me. Penso che ogni giorno possa essere l’ultimo. E se tu, che hai incontrato e conosciuto l’angelo della beatitudine, lo sai, o credi di saperlo, ciò che ti aspetterebbe, io no. Tu ti sei perduto non so in che cosa. Ti sei smarrito nella malinconia di te stesso, nell’inferno di un dolore che t’immaginavi impossibile o che avrebbe in ogni caso risparmiato la tua persona. Sembri, perciò, avere dimenticato il colpo che a tutti e due c’inferse il primo sguardo di quella morte, che cosa ve­ramente significa per ciascuno di noi la morte di chi ci è caro e la nostra”.

“Voglio dimostrarti che ti sbagli”.

Si fissarono negli occhi. L’ospite ora lo guardava con sguardo infuocato, come avesse la febbre. E l’uomo che lo aveva accolto venne ghermito da un nuovo brivido. Si alzò: era di non grande statura, magrissimo, il volto emaciato diviso, come dalla prua di una nave, o dall’asta di uno stendardo, da un naso volitivo, aquilino. A quelle parole che assomigliavano a un’ingiunzione piut­tosto che a una preghiera, ed erano, o le aveva avvertite, parole di accusa, aveva sentito nell’anima la lacerazione di una ferita, quasi che lo spazio in penombra che li separava si alzasse tra di loro come un muro invalicabile. Avvertiva, non sapeva se con disprezzo o con dolore, quanto ormai il proprio spirito si fosse allontanato dall’animo dell’amico, e paresse anzi, in quella pausa, nell’inter­vallo spropositatamente lungo del silenzio calato tra di loro, godere quasi di quell’allontanamento, assaporarne la freddezza, e il senso gli pareva, più che di distacco, di nostalgia per la perdita di una magia d’amore che, per quanto immaginaria, li aveva svelati l’uno all’altro e affratellati per tanto tempo, un sentimento di cui ora non riscontrava traccia né nel proprio intimo né nel tono della voce dell’amico: erano, insomma, diventati perfettamente estranei l’uno all’altro. L’intricata libertà di quell’amore che, dagli angoli più oscuri dell’intelletto, aveva penetrato ogni fibra del corpo, assot­tigliato i sensi fino alla percezione estatica d’immateriali trasalimenti, aveva in realtà anche fatto filtrare in quei trasalimenti, e nel cuore che li cercava o li subiva, lo stillicidio del sudore, la disper­sione delle lacrime, lo sbigottimento della paura. L’eletto d’amore, credendo di vivere un’irripetibi­le avventura, si ritrovava invece, prima o poi, impigliato nei contorcimenti d’una ferita mortale. A morire, tuttavia, non era quasi mai il cuore, ma qualcos’altro di più vitale, forse. L’intelletto, il do­minio di se stesso: l’intelligenza si degradava fino al compiacimento di rifiutare qualunque confor­to. In tutto quel processo di afflizione e di ricerca di una salvezza avvertiva per contrasto l’avvin­ghiarsi della sua memoria con tutte le forze alla perdita, al dolore, e quasi compiacendosene si ab­bandonava poi al silenzio che ne seguiva, nello sforzo di trarsene fuori si vedeva pertanto togliere quelle stesse forze e sentiva anzi di sperperarle, con le migliori intenzioni, in estenuanti sussulti di rinuncia e di spasimo, fino a sentirsi annebbiare le virtù più segrete dell’anima. La visita inaspettata dell’amico, di quello che era stato il primo degli amici, gli appariva adesso l’ultima occasione per tentare un riavvicinamento o, quanto meno, per capire la cagione e il senso di quel distacco. Per­ché, forse, in realtà, dei due, chi si allontanava era l’ospite, non lui, che riteneva piuttosto di essere tornato a un punto dal quale non avrebbe mai dovuto allontanarsi, e dal quale in ogni caso comin­ciava, se non il ravvedimento, certo l’uscita dalla notte, dall’insonnia, e dalla paura di perdere se stesso. Anche se apparentemente l’amico sembrava venuto a cercare un riavvicinamento, forse se­gretamente le intenzioni erano più minacciose. Non si trattava soltanto di una questione di fede, magari anche di fede politica: mai la politica e la religione, infatti, gli erano apparse così velenosa­mente invischiate l’una nell’altra. Ma no, chi sa, in quel momento l’ospite, anzi, e sia pure in ma­niera distorta, conosceva Dio meglio di lui. C’era invece qualcosa d’improvviso e di esasperato, che li separava. La stessa violenza che gli aveva fatto scoprire il peccato in cui stava per dannarsi: no, non il peccato, ma lo sbaglio d’amore, ora gli sfigurava la figura dell’amico e la rimpiccioliva, la allontanava. Aveva creduto di rinnovarsi, di congiungersi finalmente a un punto che tenesse sal­damente stretti tutti i fili non solo della sua storia, ma della storia del mondo, e ora quel punto gli si rivelava un’illusione o, peggio, un errore, una colpa, forse perfino il più terribile dei peccati, la pre­sunzione di non trovare via di scampo. Aveva visto una faccia della cosa, ma scopriva che la cosa aveva due facce e l’opposta, quella che non aveva visto, può confondere i sensi e turbarli fino allo smarrimento, alla perdita di sé. Ecco ciò che l’amico non poteva sapere: lo smarrimento che nasce dal dubbio di avere sbagliato direzione, di avere immaginato che gli impulsi del proprio desiderio fossero i segni dell’ordine delle cose. Più perfidamente riconosceva di mentire a se stesso. Se l’amico, infatti, ostentava, o sembrava ostentare, d’ignorare il problema, nel suo cuore, invece, la perversione, anche intellettuale, che l’aveva fatto nascere, aveva radici lontane e per nulla nascoste, che si ramificavano per tutto il corpo e avevano imbrigliato e sottilmente indebolita in lui o addirit­tura annientata la capacità d’amare. Di tutt’altra pasta il corpo dell’amico. L’anima sua perciò sof­friva altri tipi di sofferenza. Meno spirituali, più terreni. Il tempo non gli minacciava durate eterne. Poteva perciò conoscere l’angoscia, ma non la disperazione. L’amico non aveva mai avuto speran­ze di durata. E perciò non le aveva mai perdute, non si era mai allontanato da se stesso. Non aveva mai conosciuto il paradosso della morte di un angelo. I suoi angeli erano figure dell’intelletto, im­magini della poesia. Ma le donne per lui restavano donne, ed erano figure intercambiabili, una a Fi­renze, l’altra a Tolosa, e una terza chi sa dove. Lui, invece, aveva creduto davvero che la sua donna fosse un angelo. Ma poi l’angelo era morto, il suo corpo puzzava. Contrasse le labbra in una smor­fia di dolore o, piuttosto, di disgusto, e tornò a sedersi di fronte all’amico, che per tutto quel tempo non aveva mai smesso di fissarlo con i suoi occhi infuocati.

“Nel libro della mia memoria”, cominciò infine: “sta scritto un incontro che più che viverlo lo fantasticai. Ma l’incipit di quel ricordo è il segno che io mi perdo. Vi riconosco, tuttavia, la figu­ra di un disegno che ancora non so distinguere, di una scrittura che non so decifrare”.

“In quella parte della tua mente, nella quale tu fingi scritta la tua memoria”, rispose l’ospite: “prende il suo stato quanto dentro di te si muove. I filosofi chiamano questo luogo ‘anima sensiti­va’, ma là si raccoglie da diverse vie tutto ciò che alla mente pare perduto. Ora tu sembri avere messo uno schermo tra questo luogo e il tuo intelletto, perché la dolcezza del suo morire non ti rag­giunga, e resti intatta l’elezione del desiderio: limitata alle figure che la tua giovinezza non ha an­cora perdute. Dovresti andare ad ascoltare qui a Firenze, a Santa Maria Novella, a Santa Croce o a Santo Spirito, le scuole di filosofia”.

“Ci vado, e proprio per ciò che là ascolto, e poi a casa leggo, mi smarrisco”.

“Non basta ascoltare e leggere Aristotele, bisogna anche interpretarlo. Ma intanto vilmente muore, mi sembra, in te quello sguardo che amore traeva da te stesso”.

“Da me stesso? E’ qui, dentro di me, dove l’anima mia più si smarrisce. Nella profonda grotta dei miei sensi io non scorgo che l’oscurità del mio ricordare e io non vi riconosco che l’umi­do buio della grotta e il baluginare d’una nebbia. Se ciò invilisce il mio valore, non so. Ma la mia vita è vedovata, da quando gli spiriti degli occhi miei mi hanno lasciato per vagabondare non so dove. E io, ora, ho paura perciò di guardare troppo, e di non vedere ciò che guardo”.

“Sembra la parodia del mio linguaggio. Ma è dunque per questo che t’accechi da te stesso e senza gentilezza trascorri il tuo tempo?”

“Se ficco gli occhi per la fronda verde dei miei desideri, prima ancora che ne nasca qualco­sa, m’attacco con la bocca al frutto che vedo maturare: e quanto accade mi uccide la vista piuttosto che la mente. Continuo perciò a mordere il frutto, senza sentire il sapore della polpa”.

“Ma il tuo sguardo così si fa pesante, la tua vista s’appanna e le tue parole perdono legge­rezza”.

“Guido: io sono stanco”.

“Di che cosa?”

“Di guardare, di ricordare le mie visioni, e di amare un fantasma”.

“Mi sembri non solo stanco, Dante, ma anche confuso”.

Ecco che a questo punto la situazione, per bocca degli stessi interlocutori. ci rivela la loro identità: sono due poeti fiorentini, il padrone di casa si chiama Dante Alighieri, e l’inatteso ospite notturno è Guido Cavalcanti. Beatrice di Folco Portinari, quella che sarà qualche anno dopo la don­na angelicata della Vita Nuova, era morta il 17 giugno 1290, “seconda l’usanza d’Arabia nella pri­ma ora del nono giorno del mese”. Ma nell’anno trascorso da quel giorno a questa notte del collo­quio con l’amico Dante s’era presto consolato, a suo stesso dire, con una “gentile donna bella e gio­vane molto”. La soddisfazione della carne, tuttavia, invece di addolcire la sua pena e placare i suoi sospiri, l’aveva inasprita e gonfiato come un mantice i sospiri, e aveva pertanto finito con l’inaridi­re ricordi e sentimenti. Trascorrere di donna in donna, come insegnava Ovidio, se poteva allietare le brevi ore trascorse insieme, lasciava poi nell’animo un senso di svuotamento, intorpidiva la men­te e irrancidiva i pensieri. Né l’avevano maggiormente aiutato gli studi di filosofia nei quali si era buttato a corpo morto. Sarebbe stato un altro motivo di contrasto con l’amico: la filosofia che da strumento di conoscenza si fa scopo della vita, fa perdere lo stimolo e il gusto del piacere. Ignorava l’amico, però, che proprio quegli studi gli avevano schiarito le idee sulla distanza che separa un an­gelo da una donna. L’angelo sceso in terra a mostrare il miracolo di se stesso moriva come tutte le donne e il desiderio inattuato non serbava la delicatezza del desiderio per un angelo.

“Sì, sono anche confuso, è vero”, - disse Dante.

“Fatti dunque aiutare da Dio, se da te non puoi. Un tempo per questo aiuto, ne facevi gran­de clamore e alzavi le braccia al cielo come a pretenderne l’intervento”.

“Mi rimbrotti giustamente la mia superbia. Ma è strano: in questo mio - come chiamarlo? – smarrimento, io posso, e forse devo, dubitare della mia salvezza, disperarmi della lontananza e del silenzio di Dio, ma nemmeno per un solo istante m’assale la paura o lo sconforto di essere abban­donato da Dio. Ho paura, sì, della mia condizione, e mi sento invischiato tra i rami di una spavento­sa selva, che non mi lascia vedere né il terreno sotto di me né il cielo sopra di me, il terreno perciò mi manca sotto i piedi, come se li affondassi nella melma di un acquitrino e sulla mia testa galleg­gia una nuvola spessa di nera fuliggine. Credo, tuttavia, che proprio nel mezzo di tanto mio spro­fondare, al fondo della melma in cui naufrago, posso trovare un appiglio che m’impedisca di anne­gare, scorgere l’apertura di un canale, nel quale penetrare e là trovare qualcuno o qualcosa che mi tragga fuori dal tenebroso intrico dei rami, e venire alla luce di un prato fiorito, uscire dal poco giorno per vedere l’alba che rischiarerà questa mia notte. Mi vedi ora chiudermi in questa mia ca­meretta, a farmi magro il cervello con tortuosi pensieri, oppure uscire al brago e ungermi tra la gen­te di lazzi la bocca, innaffiarla con boccali di vernaccia e ingozzarla di selvaggi vituperi, abbassar­mi allo scherno e al dileggio, degli altri e di me stesso. Hai visto più volte la mia loquela intorbidir­si nelle beffe e nei contrasti. Più nobilmente, invece, la lite tu l’affidi alla spada. Ebbene, ora io ti chiedo: e se proprio la spada mettesse al bando, nel mondo, ciò che invece con la spada vorresti conservare e difendere?”

“Non la pensavi così, appena qualche mese fa”.

“Credo che la nostra decantata sapienza non fosse che un’erudizione limitata, un sapientu­me d’accatto, forse perfino pericoloso, chi sa, non tanto per gli altri, quanto per noi. Una scienza artificiale e contraffatta, che fingeva conoscenza e inventava fantasmi”.

“Di piuttosto un esercizio faticoso dell’intelletto, un costume esclusivo, una scelta difficile di vita”.

“No: vana, vuota, ma non difficile, e tanto meno faticosa o esclusiva. Ho bisogno di tutta la terra, di tutti gli uomini e di tutte le donne, i vivi e i già vissuti, di tutti i desideri e di tutte le speran­ze, di tutti i linguaggi, per capire non più ciò che mi piacerebbe, ma ciò per cui si vive, per cui vi­vono tutti gli uomini e gli animali della terra! Chi sono io per credermi la misura di tutti gli altri?”

“Non scegli da quale parte vuoi stare e, soprattutto, con chi?”

“Ora no. Dopo, se potrò, sceglierò che cosa fare e da che parte e con chi stare. Anche se temo di essere costretto a starmene per conto mio e fare parte di me, solo di me stesso. Almeno in vista di ciò che perseguo. Ma prima di scegliere devo sapere, vedere, toccare, conoscere; devo per­dermi, smarrirmi, macchiarmi di tutte le debolezze che non so, ma che potrebbero essere le mie”.

Guido lo fissò turbato. Lo sguardo dell’amico appariva indurito e distante, acceso da una strana luce; come se gli occhi oltrepassassero la materia degli oggetti che guardano e si appuntasse­ro lontano, in uno specchio che riflettesse rovesciate le figure di tutti gli oggetti, anche le persone. Aveva già visto altre volte quello sguardo e lo aveva sentito succhiargli gli occhi, mangiargli il cer­vello. Ma lo aveva visto in una donna, non in un uomo. Era uno sguardo che spolpava le ossa: del corpo non lasciava vedere che una figura vuota, uno che cammina insensibile tra la gente. Anche nei momenti di più acceso furore, per l’odio che gli suscitava un avversario politico, o per l’irrefre­nabile desiderio di una passante che per caso avesse scambiato uno sguardo fuggitivo con lui, si sentiva estraneo al proprio corpo, lo guardava da fuori, lo vedeva muoversi e camminare come un pupazzo.

“No, mi sembra troppo”, disse: “ciascuno di noi, e tu lo sai, ha provato almeno una volta l’illanguidimento dei sensi alla vista di una donna, e il riflusso, angoscioso del sangue nelle vene. Ma dopo, quando la mente rientra dal suo esilio nel corpo, della visione non resta traccia, e lo smarrimento scompare come un malessere superato”.

“Ma quando non scompare? Se nel cervello, nel sangue, in tutto il corpo, restasse impressa la ferita dell’ardore improvviso, la scottatura del contatto, sia pure solo di uno sguardo, e uno non potesse mai più scordare, perché continua a percepirla, la voluttà di tanta sofferenza?”

“Puoi sempre distaccartene cercando una distanza, configurando una lezione di saggezza, che ti fa mutare il dolore in un esercizio di stile”.

“Guido: che cosa è Amore?”

“Vuoi una confessione o una lezione?”

“Sai che aperta sempre alle tue labbra si mostrò la mia mente, e disposto il mio cuore a stringere nella sua segreta stanza le tue parole”.

“Eccoti, dunque, prima la lezione. Ma tu già la conosci. Ripeterò perciò concetti, idee, che formulammo insieme, solo per richiamarteli alla mente. Ma desideri davvero tu da me l’esposizio­ne di una somiglianza d’idee che ti consoli o non preferisci piuttosto un discorso più crudele che spalanchi ai tuoi occhi l’abisso e il niente in cui stai precipitando? Non vi troveresti che le figure stesse dei tuoi desideri e delle tue paure”.

“Guido: quell’abisso che credi spalancarmi sotto i piedi è il pozzo di angoscia in cui sono caduto, la selva selvaggia in cui mi sono smarrito. Tu puoi, forse, trarmene fuori”.

“A volte gli aridi concetti e le astratte parole di un’idea possiedono più sangue di una con­solazione sapientemente costruita. Se hai bisogno che la mia mano stringa la tua mentre ti parlo, eccola”.

Dante accolse la mano che Guido gli porgeva e la tenne stretta per tutto il tempo del suo primo discorso.

“Potrei parafrasarti le prime stanze d’una mia canzone che gli amici dicono elegantissima e mirabile”, cominciò Guido: “Ma a quest’ora della notte, come dice il tuo poeta, le mie parole svani­rebbero come vapori del tuo ingannevole sogno e la tua mente si smarrirebbe per le illusioni intra­viste e subito perdute. Preferisco perciò procedere più modestamente per allusioni. Mi capirai lo stesso. Tu m’inviti a parlare di un fenomeno la cui natura è selvaggia e orgogliosa. Dove dimora e chi lo crea, quale sia il suo influsso, il suo potere, e infine la sua essenza e ciascun suo movimento, e il piacere che lo fa chiamare Amore, tutto questo verrò a mostrarti secondo naturali dimostrazio­ni. Dico dunque che in quella parte dove sta la memoria prende Amore il suo stato, come il diafano dalla luce. Viene da forma veduta che prende luogo e fa dimora nell’intelletto. Perciò tu giustamen­te dicesti ‘Donne che avete intelletto d’Amore’ e non ‘Donne che avete l’affetto d’Amore’. Male distingue, infatti, e peggio divide il suo discorso, chi l’Amore separa dall’intelletto. In quel punto il desiderio si fa signore della Ragione e contempla, ma senza diletto, anzi con angoscia e sbigotti­mento, la somiglianza tra le forme, quella veduta in terra e quella sognata nella mente. Profonda­mente allora l’immagine che ne risulta, quasi un connubio tra la vista degli occhi e quella dell‘intel­letto, risplende come un miraggio lontano nel buio della mente sbigottita. E questo terribile buio nasce non dal sentimento che si spaura, ma dalla chiarezza con cui la conoscenza delle forme ti si spalanca all’intelletto, al di là di sillogismi ed entimemi, con impronunciabile evidenza. Da questa conoscenza, che non è quindi razionale, ma che è di te con ciò che sente, ma che tuttavia non puoi per questo chiamare davvero irrazionale, come dice il Maestro che l’intuizione è un atto dell’intel­letto, anche quando invece sembra un accidente dei sensi, da questa conoscenza, dico, il tuo essere è toccato nel vivo del nodo che lo stringe. La sua essenza, infatti, è un desiderio che oltrepassa i li­miti della natura e perciò non trova mai riposo, perché nulla trova nella natura che corrisponda alla sua brama. Ogni figura di donna gli appare immagine riflessa di quella che non si vede e che si vor­rebbe toccare. E’ un amplesso che uccide non già il desiderio, ma l’anima di chi desidera: come se l’anima, per troppo desiderio, si staccasse dal corpo e anelasse congiungersi non alla forma veduta, che ormai le pare solo una copia della vera figura della quale agogna l’unione, ma a quella prima immagine del desiderio. Di morte allora ti conviene trarre vita, di tormento gioia, di sofferenza di­letto. Ed è qui che, amico, la tua mente si smarrisce: la tua vita, la tua gioia, il tuo diletto, da troppo vili accidenti sembrano trarre sostanza, e non è solo perciò distrutta la tua pace, il che sarebbe co­mune pena d’amore, ma sembra disseccarsi nella tua anima il fonte d’ogni diletto, come una pietra che abbia perduto la sua luce. Il tuo dolore mi pare quasi un imbestiarsi, perché svilito perfino il desiderio di sgomberarne il tuo cuore. E non ti gioveranno, per quanto sudati e costanti, i tuoi studi di filosofia, nei quali sprechi, sembra, la parte migliore del tuo tempo e di te stesso. Ancora meno i nuovi amici che ti distolgono dall’esercizio della poesia”.

Dante sciolse la mano dalla stretta.

“Questi accidenti che tu chiami vili esistono. Possono anzi turbarti con la stessa intensità delle visioni più intellettuali. Lo stile che ci dava onore, quello è davvero diafano, e non è in fondo che una rinuncia a guardare la sostanza delle cose”

“E’ però uno stile”.

“Ma quanto, di questo stile, è davvero conoscenza, e quanto invece è paura?”

“Ti hanno visto, oltre che a Santa Croce e a Santo Spirito, luoghi dove la tua mente si smar­risce, anche in luoghi meno reputati, che la gente per bene s’impone di evitare: ti hanno sorpreso a bighellonare per le strade e per i vicoli più malfamati di Firenze, ti hanno visto entrare nelle bettole e nei bordelli più lerci della città in compagnia di quel bell’esempio di dissolutezza ch’è diventato Forese”.

“Anche la dissolutezza può diventare uno stile e fondare una conoscenza”.

“L’avventura occasionale, forse, la femminetta incontrata in campagna, può darsi, ma mai può diventarlo la taverna, e meno che mai il bordello”.

“E perché?

“Non è dei nostri pari dimenticare gli obblighi del nostro rango”.

“Ci sono momenti in cui il rango non conta niente, e il più lercio dei contadini certe cose le fa nello stesso modo con cui le fai tu”.

“Perché non chiami queste cose con il loro nome, allora? Vedi che anche tu non riesci a in­frangere le regole che il tuo rango t’impone?”

“Ma sto parlando con te, e non con il ruffiano di qualche taverna. Il diavolo le nominerà quelle cose e perfino un santo in paradiso”.

“L’altro giorno li ho incontrati. Venivo qui da te, ma poi sotto le tue finestre ho affrettato il passo. E camminando mi trovai senz’accorgermi tra le arche di Santa Reparata. Venni d’un tratto aggredito da Betto Brunelleschi, giunto lì a cavallo insieme alla sua brigata. Mi gridò addosso: ‘E che farai, quando avrai trovato che Dio non sia?’ ‘Signori!’ ho subito risposto: ‘Voi potete dirmi a casa vostra ciò che vi piace’. Con un salto mi gettai dall’altra parte di una di quelle arche, e per una porticciuola che mi s’aprì davanti scappai subito via. Non so nemmeno se abbiano capito la villania del mio motto. Ma per me essi sono veramente peggio che morti”.

“Vivono, invece. Vivono anche loro. Come te, come me. Più di te, forse, e più di me”.

“Vorresti imitarne l’inutile vita?”

“Inutile per chi? La loro vita non è meno limitata della nostra”.

“Limitata?”

“Vedono per confini del vivere i sensi, lo sperpero, il gioco. Ma noi?”

“Noi? Tu forse: adesso”.

“Noi, noi: e tu forse più di me”.

“Limitato, io?”

“Se loro sperperano tempo e denaro in frivolezze, il nostro rovello intellettuale non è meno frivolo”.

“Chiami frivolo scrivere una canzone?”

“E almanaccare una casistica infinita di sguardi e di corteggiamenti, di consensi e di rifiuti. Il nostro è un intelletto sterile che riproduce se stesso, che scambia per conoscenza una raffinata e lambiccata combinazione di sillogismi e di figure”.

“Ma non è così, lo sai!”

“E come, allora?”

A quella domanda Guido non sapeva rispondere. Sentì fuggire via tutta la sicurezza razio­nale che aveva faticosamente indossato al momento di entrare nella casa dell’amico. Ma non si aspettava un fraintendimento così radicale delle sue intenzioni, una banalizzazione così spietata dei suoi argomenti, come fossero le elucubrazioni di uno sprovveduto o di un idiota. Come se qualcosa si fosse irrimediabilmente incrinato non solo tra loro due, ma perfino nella sua mente di amico: le parole uscivano dalla bocca distorte, frantumate, imbevute di uno strano tossico. L’amico lo deride­va, lo sviliva, e con un’acredine che la dolcezza dell’intimità perduta rendeva ancora più acumina­ta. Le parole dell’amico lo martellavano, impietose. Era venuto per capire e per cercare insieme la ragione dell’allontanamento, il punto in cui l’intesa sembrava essersi spezzata. Si era trovato invece di fronte a un inquisitore che celava nel distacco di discorsi generici il disagio di una imperfetta freddezza. O almeno era questa la sua impressione. Si alzò.

“Te ne vai?” domandò Dante.

“Ogni conoscenza è limitata. Sono limitati i nostri sensi, il nostro intelletto, la nostra me­moria, le nostre parole, le nostre azioni. Ma nessun limite è posto alla conoscenza di questi limiti. E’ qui che trovo la mia libertà, il mio vero e forse unico spazio di conoscenza: lo stesso spazio in cui sono racchiusi i suoni della mie parole. Non saprei niente del mondo se non potessi parlarne”.

Dante restava seduto. Guido fece il gesto di avviarsi alla porta. Ma teneva la testa rivolta in­dietro, alla sedia dove stava seduto l’amico.

“Resta!” sussurrò Dante: “non te ne andare. La notte è ancora lunga davanti a noi e io non ho sonno”.

Guido storse la bocca, non si capiva se per accennare un sorriso e per una smorfia di disgu­sto o di dolore. Si accomodò di nuovo di fronte all’amico.

“Come potevi credere che non ti amassi più?” domandò Dante.

“Non lo credevo. O meglio: una parte di me si rifiutava di crederlo. L’altra ti odiava, per avere rotto la nostra amicizia”.

“Dovresti leggere le pagine di un libello che sto scrivendo, e ti accorgeresti quanto ti sbagli. Un’amicizia come la nostra non può finire, se non perché uno dei due finisce”.

“Ma si può finire in tanti modi, anche solo con la mente, e il cuore ubbidisce”.

“Non ero io a evitare la tua compagnia”.

“E’ vero: ti sfuggivo. Ma non per la compagnia di male femmine e per la ciurma di begolar­di con le quali amavi mescolarti come porci al brago, bensì piuttosto per i nuovi maestri che sem­bri avere scelto come tua guida nella selva del sapere. Attento a non smarrirti tra gli sterpi di disci­pline nate sterili”.

“Più di quanto tu possa immaginare, mi vedo perduto e smarrito: ma non tra sterpi sterili o tra i rifiuti umani, imbrattato dall’immondizia dei loro lazzi e ingrommato dalla muffa della loro la­scivia, quanto attratto, e non sai in che misura, da giochi solo in apparenza meno ignobili, perché sembrano mirare al bene di tutti”.

“Il tuo animo gentile si è allontanato da me, segue altre strade. Lo so. Non mi turba il tuo sguardo quando mi evita, ma quando fissandomi lo trovo assai diverso da quello che m’interrogò pochi anni fa sul significato di un sogno. Te ne ricordi? Fu quello il principio della nostra amicizia. Lessi subito, nei tuoi versi, e nei tuoi occhi, il segno di un mirabile destino. Ma ora tu, con la vita che conduci adesso, mi sembri voltare le spalle a quel segno”.

“Quanto ti sbagli! Sbagli, come sbagliasti allora a decifrare il vero significato del mio so­gno. Significato, che ora è manifestissimo ai più semplici. Non ho voltato le spalle al segno del mio destino. Cerco, anzi, d’interrogarmi sulla via che quel segno m’indicava. Ma hai ragione: non è una via, è una selva, aspra, selvaggia. E io vi sto dentro, senza scorgerne l’uscita”.

“Una selva d’amore?”

“No. Non riuscirei a riconoscerla. Tutto è amore, anche il nostro peccato. Ma mi rendo con­to che devo guardare altrove, cambiare rotta. E non è facile. Mi vedo costretto a inseguire il segno di un sogno. Il mio incipit, che già allora mi si manifestava con la visione d’un termine, il movi­mento d’un circolo che mi racchiude, sono spinto a misurare la relazione che c’è tra l’istante della visione e il tempo mortale della mia vita: dico, a capire quale sia il rapporto tra il raggio di luce e di salvezza che mi sembra d’intravedere attraverso quella visione e lo spazio ristretto del mio sguardo, questa camera, questa casa, questa città, l’Italia, il mondo e se vuoi perfino l’universo, ma che cosa sono rispetto allo spazio, al tempo della visione? sempre luoghi chiusi, spazi limitati, la durata di qualche anno, ma credo che la salvezza sia altrove, ma non so in che punto, o luogo, o fuori d’ogni luogo. Non dirmi Dio: temo di avere perduto la speranza perfino di cercarlo, non che di trovarlo. Ma già, tu che ne sai? Anche questo ci divide”.

“Ci divideva anche prima: non dirmi che improvvisamente ti riesce difficile dividere la tua amicizia con uno come me”.

“Il mio fu un incipit fallace: ma ora quell’esordio s’impietra nel ricordo e la mia memoria lo congiunge a questa inattesa, ma prevedibile fine. Posso accettare ed amare la compagnia di un sodomita come Brunetto Latini, perché dovrei vergognarmi della tua?”

“Bello il confronto! Ma non di vergogna parlavo, bensì d’orgoglio, di sentimento di colpa”.

“Nessuna, ti amo come sempre”.

“E’ vero: anche l’amicizia, in fondo, fa i capricci come l’amore”

“In genere è più costante e non divide i suoi oggetti per le città d’Italia e di Francia”

“Sei bravo a colpire dove non ci si può difendere. Dovevi scegliere la carriera del giudice: è la cosa che sai fare meglio, giudicare gli altri”.

“Pensi che escluda me stesso?”

“Magari sei capace di azzannarti con più rabbia”.

“Guido! Come farti capire che la morte di una donna mi scava la terra sotto i piedi, demoli­sce tutte le mie certezze? Credevo che attraverso di lei avrei conosciuto l’estasi di vedere Dio! E ancora lo penso, l’immagino e forse ne scriverò. L’estasi con la quale ora mi confronto è la mia de­bolezza, la mia capacità di affondare nei vizi più laidi: devo restaurare un lato della casa, e ho pau­ra che i soldi non mi bastino, ma poi mi scopro che desidero i soldi non solo perché ne ho bisogno per la casa, ma perché vorrei comprare sete, gioielli per mia moglie, lane pregiate e cavalli per me. Insomma mi accorgo che il lusso, o almeno un’apparenza, sia pure minima, di lusso, mi piacereb­be”.

“E tutto questo per la morte di una donna?”

“Di una donna! Dell’unica che per me potesse essere un tramite tra la terra e il cielo. Ma quella stessa donna poteva, anche, aprirmi la strada dell’inferno”.

“Perché cercare un paradiso o temere un inferno? Già la vita ci brucia quaggiù a lento fuo­co, senza bisogno di tendere alla luce degli astri o di fuggire la fornace del diavolo, e non so se esi­sta un lassù. Siamo cose della terra, il nostro corpo è acqua, aria e terra, sangue e carne, ossa e vi­scere. Il nostro fuoco lo accende uno sguardo, la nostra luce è un raggio di sospiri e di lacrime. L’arciere che così nobilmente innalziamo nei nostri versi è in realtà un diavolo beffardo, fa presto a scoccare il dardo, ma poi, senza pietà, ti coglie dove il cuore è più assente e il nostro amore di­venta il tormento di un desiderio irrealizzabile, l’aspirazione per una forma che non c’è, di una donna, di un sonetto, non è poi così diverso. Il tuo amore per questa che credevi la tua beatitudine fu dunque invece soltanto la previsione di una morte”.

“Io dico che questa morte è una fine che mi sbigottisce e mi toglie il sangue dalle vene. Ma non perché, come potresti credere, questa mia gentilissima s’è da me partita, bensì perché tutto ciò che ora respiro, dopo la sua scomparsa, è per me qualcosa che finisce, d’ogni cosa che vedo mi pre­figuro la fine, come se vedessi questo mondo già dall’altra parte, o piuttosto come se vedessi le cose del mondo già finite, e giudicate, e bloccate in un essere illusorio, come il fantasma di ciò che furono, e pertanto la mia percezione del mondo fosse piuttosto davvero la percezione del suo fini­re”.

“Partita da te, come dici, questa gentilissima, gli spiriti del tuo cuore sembrano andare soli, senza compagnia, e sono perciò pieni di paura”.

“No, non di paura, ma di smarrimento. Al mio pensiero, qualunque sia la cosa alla quale mi occorra di pensare, manca sempre un dove, sempre un quando, e sento perciò l’anima mia tremare, ad ogni sobbalzo del cuore, come se non avesse un luogo in cui fermarsi, un tempo in cui misurare le affezioni dell’anima. L’intelletto non trova più parole per questa nuova esperienza, mi sento stanco di uno stile che sorvola sulle cose, invece di penetrarle”.

“Al contrario di te, le parole le vorrei leggere come sospiri. Uno specchio quasi trasparente dell’angosciosa incompletezza che fa sottile la mia anima, della debolezza di un desiderio che mi soffoca fino al punto di spegnermi il respiro sulle labbra. Sono la figura di uno che si muore sbigot­titamente. L’involucro che appare e che vedi, non so più né che cosa sia né per che cosa serva o per chi conduca quest’apparenza di vita che non ha più nulla di ciò che chiamiamo vita”.

“Sei come un cane che si morde la coda. Scusami la banalità del confronto. Ma metti i piedi sulla terra, tu che dici di essere fatto di terra. Da quanti anni ti odo dire le stesse cose?”

“Non so parlare delle ombre come se fossero corpi. E io mi sento un’ombra. O che altro?”

“Il desiderio di capire può condurre fuori strada. Ma dobbiamo capire. Tu mi parli di spiriti, di anima. Ma lo smarrimento in cui mi sento precipitato, come dentro una inestricabile foresta, non è solo uno smarrimento della mente. Tu rendi tutto intellettuale, spirituale. Come se la materia ti fosse nemica. Ed è ben strano per uno che non crede all’immortalità dell’anima. Io so che nel fondo di questo mio errare, o dell’errare della mia mente, c’è il punto dell’errore che mi ha condotto a smarrirmi. Ma non so quale sia e non so se la sua radice stia nell’anima o nel corpo”.

“Non ti riconosco. Dov’è finita la scienza che dava forme chiare, comprensibili, anche all’impronunciabile, che indossava parole anche là dove i sensi si perdono? Scrivesti ‘Donne ch’avete intelletto d’Amore’, e non “Donne che sempre sentite d’Amore”. Perché?”

“Scrissi anche:

Vede perfettamente ogni salute,

chi la mia donna tra le donne vede,

e credo che stia proprio in quel punto, in quella speranza, il punto dell’errore”.

Guido lo fissò torvo. Una distanza incolmabile sembrava essersi spalancata tra loro due. Si accorgeva, infatti, che le parole dell’amico parlavano di un mondo che gli era sconosciuto. Doveva arrendersi alla dolorosa evidenza del fatto che quando più loro due avevano creduto di pensare di­versamente le ragioni della vita, proprio allora invece i loro animi consentivano a una sorta di mira­colosa intesa, perché pur sembrando ubbidire a regole differenti, in realtà parlavano ancora lo stes­so linguaggio: l’uno la vita la faceva immortale, e dunque facile da buttare via, perché comunque non si sarebbe perduta, l’altro invece la reputava finita, e perciò si sforzava di spremerne ogni atti­mo come l’ultimo e il più prezioso, ma della vita inseguivano entrambi la stessa idea, ne percorre­vano insieme la via che li indirizzasse al nobile contegno che li avrebbe distinti dalla sguaiataggine del volgo. Scrivevano, anzi avevano scritto entrambi di spiriti che abitano il corpo, e anche se gli spiriti nominati nelle loro poesie non erano allegorie della stessa realtà, per tutti e due la figura di cui amavano vestire un concetto non era un’immagine astratta, ma la cosa stessa di cui scrivevano. Per tutti e due il corpo era qualcosa di vivo quanto l’anima e a tutti e due l’anima appariva come una materia che si tocca, la sede sensibile, si sarebbe detto corporea, di un flusso inarrestabile non solo di pensieri, ma anche di sentimenti di emozioni. L’intelletto non ne era che la fase terminale, il punto di arrivo di un lungo processo in cui le sensazioni si mescolano ai pensieri, e finiscono insie­me per formare il nodo in cui si stringe tutto ciò che riusciamo a conoscere di noi e del mondo. Ma ora che l’amico sembrava finalmente riconoscere anche lui la finitudine di tutte le cose, e che il più leggero dei sospiri è un attimo che passa e si dimentica, ora che anche lui sentiva la gravezza del corpo e quanto ardua fosse la fatica di spiritualizzarlo, di trarlo fuori dalla miseria in cui lo involve un desiderio impossibile, ora lui, invece di avvicinarsi finalmente al mondo di tragedie irrisolte, che era sempre stato per Guido il mondo che lo aveva opposto al sogno dell’amico, sorta di novello Perceval, pallido cavaliere di una salvezza inesistente, ora l’amico, voltate le spalle a quel sogno, pareva allontanarsi nella ricerca di una soluzione fuori del dramma, un deus ex machina che scio­gliesse tutti i nodi di quell’angoscia che l’intelletto non sapeva spiegare. Anche la più perfetta delle forme adorate può essere sostituita, quando scompare. Ma l’amico sembrava temere invece che la scomparsa rendesse vano tutto il tempo dell’adorazione che precede la scomparsa. In fondo, tra loro due, il più disperato era proprio chi non voleva rinunciare alla speranza.

Dante lo guardava perplesso, aspettando una risposta che l’amico non pronunciava. Distese verso di lui una mano e domandò:

“Che hai?”

“Scusami, pensavo al vascello di Monna Vanna”.

“Guido, io vorrei veramente navigare con te lontano da qui. Lasciare Firenze, lasciare l’Ita­lia, forse lasciare il mondo. E vorrei che questa notte non finisse mai”.

“Non ti bastava quella ch’è sul numero delle trenta a farti dimenticare non dico le altre cin­quantanove, tra le sessanta belle fiorentine del tuo sirventese, ma almeno solo quell’una che crede­vi un angelo, e che ora non c’è più?”

“Non sono come te, che mi basta una pastorella colta in un boschetto a riempirmi il vuoto della mia giornata causato da un rifiuto o dall’assenza di chi è solita occuparne le ore. Il pensiero di colei che una volta ha turbato la tua mente non cessa nemmeno quando le braccia si stringono in­torno al corpo di un’altra”.

“Non sei come me e vorresti vivere con me, fuori del mondo, tutta intera la tua vita”

“L’amicizia è un bene che solo l’animo nobile comprende e che, come dice il Filosofo nella sua Etica, è il più alto adempimento della vita di un uomo”.

“Hai bisogno di Aristotele per dare un senso alla tua vita?”

“Di Aristotele, di Tommaso, di Virgilio, di Ovidio, di Lucano, di Arnaldo, e … di te”.

“Ecco dunque il tuo compito: trovare un senso nelle parole, quando la vita ti tradisce e i sensi si smarriscono senza trovare parole per il proprio smarrimento”.

“I sensi, dici bene. Nulla entra nel nostro cervello che prima non sia stato recepito dai sensi. Ma sta qui il punto. Tra i miei sensi e il mio pensiero, tra il mio pensiero e le mie parole, avverto il salto di un mutamento inafferrabile, la metamorfosi, di una materia che prende nuova figura, ma il percorso dalla materia al pensiero e dal pensiero alle parole mi appare oscuro, tortuoso, come se la materia fosse sorda alle mie sollecitazioni. Io voglio invece conoscere proprio questo percorso, il cammino che percorre la mia mente dalla percezione di una sensazione alla sua figura che si mo­della nel pensiero con le parole. Le mie parole, una volta dette e fissate sulla carta, si sciolgono dal­la briglia della mia volontà e vanno per il mondo, io non sono più padrone di esse. Io resto al di qua, le guardo andare, studiare, interpretare, fraintendere, cambiare. Perfino tu, la prima volta, non mi capisti. E io allora mi smarrisco”.

“Temo che se continuiamo a discutere in questo modo disordinato, ci perderemo. Hai butta­to molta legna nel fuoco. Andiamo per ordine”.

“Va bene, Allora, ascoltami. Ma santo Cielo! Ti tengo qua da più di un’ora e non ti ho of­ferto niente! Vuoi bere qualcosa? Un bicchiere di vino o, meglio, d’acquavite?”

“Voglio restare sobrio: dammi solo un po’ d’acqua”.

“Quanta ne vuoi! C’è sempre una caraffa piena, qui, sulla mia scrivania, i bicchieri li trovi là, sul cassone, avevo bisogno di spazio sullo scrittoio, in questo vicino alla caraffa ci ho bevuto io”,

“Va bene lo stesso: che amico sarei se non dividessi con te anche il bicchiere?”

Guido afferrò il bicchiere di stagno che l’amico gli porgeva. Bevve l’acqua tutto d’un sorso. E restituì il bicchiere. Dante versò dell’altra acqua e bevve anche lui. Posò il bicchiere sullo scritto­io accanto alla caraffa. E cominciò:

“Ero ancora bambino. Ma i miei sensi si erano destati presto ai piaceri della vita. Le mie labbra erano avide di sapori, i miei occhi guardavano con ammirazione i diversi colori delle cose, il grigio della pietra serena, le venature del marmo, la lucentezza variopinta dei rubini, degli smeral­di, dei topazi, il verde delle foglie, le varie tinte dei fiori, la trasparenza dell’acqua nei torrenti e la sua oscura cupezza nel fondo dei pozzi, il tremolare azzurro della marina, la luce diafana del cielo. Ogni cosa che vedevo mi appariva nuova. Toccavo un fiore, accarezzavo una guancia, lisciavo un gatto che sotto la carezza della mia mano cominciava a fare le fusa, ma sempre, qualunque cosa, qualunque creatura toccassi, sentivo palpare una vita che si muove. Sì, non meravigliarti: avvertivo scorrere la vita anche in una pietra, anche nell’acqua, per lo screziarsi della luce, e sulla pietra le ruvidezze o le levigatezze della superficie. Mi sfuggiva, però, questo fluire che volevo cogliere, sentivo drizzarsi in me impetuoso il desiderio di possesso, non immagini quanto impetuoso, soprat­tutto se l’oggetto era il corpo di una donna: già a cinque anni mi scaldavo a guardare un piede, una bocca, a indovinare sotto la camicia un seno. Figurati le volte che quel seno lo vedevo, e non solo il seno. Ebbi la mia prima eiaculazione proprio guardando il seno di una donna – non chiedermi chi – ma avevo già 12 anni. Tuttavia, stordito com’ero dalla vita che brulicava intorno a me, ancora più misterioso m’appariva l’arrestarsi del flusso, talora improvviso, e silenzioso, ma spesso pieno di strida e di pianti, o d’imprecazioni. Hai mai visto ammazzare una gallina? I guizzi delle membra smettono a poco a poco. Infine cessano. L’animale, se lo tocchi, è ancora caldo, ma non si muove più, e anzi senti a poco a poco il suo corpo raffreddarsi. Eppure è lo stesso animale che vedevi poco prima starnazzare e sbattere le ali in cucina quando gli si correva dietro per afferrarlo. Poi assistetti a qualche esecuzione capitale, allo squartamento d’un assassino. E venne l’esperienza della guerra. Non avevi mai immaginato, prima, che da un corpo potesse uscire tanto sangue. Un fiume infernale di sangue umano. L’assassino – e chiunque in guerra diventa un assassino – me l’immagino così: immerso in un fiume di sangue e soffocato dal ribollire caldo dei suoi turbinosi flutti. Il fuoco che brucia le vene al primo sguardo di una donna non ti devasta fino a questo punto. Ma avevo nove anni, come tu sai, quando m’imbattei per la prima volta in un simile sguardo. Pareva arrivarmi da lontanissime regioni, dove tutto è fermo, immutabile. Io solo mutavo, cambiavo colore al suo cen­no di saluto, m’infiammavo al suo sorriso, tremavo tutto quando mi sentivo fissato dalla trasparen­za luminosa dei suoi occhi. Mi convinsi che quello sguardo, qual sorriso, non appartenessero al mio tempo, dove le cose nascono, si muovono e muoiono. Ma provenissero da un mondo senza tempo, e manifestassero l’avvento in questo di un nuovo messaggero di speranza, che annunciasse agli uo­mini una futura beatitudine. La quale beatitudine non potesse essere che l’immutabilità del suo sor­riso e del suo sguardo, il rinnovarsi e ripetersi indefinito del suo saluto. Ti parlo come un esaltato, lo so. Come se ti parlassi dei miracoli di una santa. E nella tua malignità di miscredente potresti supporre che questa sia una maschera che m’impongo, perché nessuno veda come in realtà io bru­cio in ogni vena del mio corpo, e come mi consumo, anzi mi anniento tutto quanto di desiderio per lei. Ma non sarebbe la verità. Perché avevo nove anni quando la vidi la prima volta, e la mia mente fu rapita come Ganimede da Giove, e trasportata altrove, dove la sua figura m’apparve davvero come la figura di un angelo. Mi obietterai che io ti ho confessato di desiderare la femmina già da bambino, ed è vero. Ma quella volta accadde qualcosa, se posso dirlo, d’innaturale, nel senso che mi parve di essere espulso dalla natura, e trasferito in un altro luogo o nel luogo che fu per la prima volta abitato dall’uomo. Quando la rividi avevo diciotto anni e il mio corpo sentì subito tutta la vio­lenza del desiderio che lo trascinava fuori di sé, ebbi un’erezione improvvisa e incontrollabile, ma la mia mente se ne allontanava, e trasvolava, non so come, in quello stesso luogo che a nove anni m’era parso il paradiso di Adamo. Era un angelo, non una donna, e il mio desiderio di lei non era il desiderio che mi significava l’erezione che tuttavia continuava a tormentarmi. Non l’avrei toccata nemmeno con la punta delle dita. Toccarla avrebbe forse placato l’erezione, ma avrebbe certamente sconfitto l’amore che la mia mente concepiva per lei. Restò dunque sempre per me soltanto un an­gelo. E non cercai mai di entrare nella sua vita o di entrare in contatto con qualcuno della sua fami­glia. La mia beatitudine non dipendeva dall’appagamento di una voglia, ma dalla vista del suo sguardo, dal suo saluto quando per caso o cercata da me e determinato il punto dell’incontro la in­crociavo per la strada dove sapevo che sarebbe passata e lei mi guardava e inchinando la testa final­mente con un sorriso mi salutava. Quando, come sai, e per i motivi che ti dissi, mi tolse il saluto, l’angoscia da cui venni sconvolto non mi veniva tanto dall’improvvisa solitudine in cui vedevo pre­cipitare il mio amore, quanto dalla frattura che questo suo rifiuto causava nel tempo della nostra storia. Significava che anche la speranza di una così perfetta beatitudine, com’era quella di ricevere il suo saluto, poteva interrompersi, cessare, e il tempo sarebbe trascorso con il peso di quell’interru­zione, di quella fine. Anche un angelo poteva sparire dalla mia vista. Anzi: soprattutto un angelo. Mi evitava, o evitava il mio sguardo, se accadeva di incontrarci. Ma più spesso, scorgendomi di lontano, cambiava d’un tratto il suo percorso abituale e svoltava per un’altra strada. Il tempo dura­va lo stesso, ma senza di lei. La frattura la sentii non più fuori di me, tra me e lei, ma dentro la mia mente, dentro il mio corpo, come una ferita inguaribile, che divideva una parte di me da me stesso. Mi ammalai e nel delirio della febbre sognai la sua morte. Ecco che si realizzava la paura che non avevo voluto vedere, la più profonda e sbigottita paura: quella di perderla per sempre. Ma se anche l’angelo della mia visione poteva morire, essere soggetta alla corruzione che s’impossessa del cor­po di tutti gli uomini, che ne era allora della mia speranza di salvezza, perché l’angelo m’aveva guardato, sorriso e salutato? E questo mio amore, questo mio visionario amore, intessuto di niente, di una visione, di un sorriso, di un saluto, di che cosa era fatto, quale la sua materia, e quale la sua forma, quale il suo significato? Da chi, per chi e con che fine veramente concepito e, sia pure solo nella mente, consumato? Quando poi l’angelo morì per davvero, mi dissi che l’angelo era una don­na e nessuna differenza io potei riconoscere tra le lacrime versate per la fine di questa gentilissima e i sospiri che gemevo tutte le notti nel letto di chi sai. Così che il desiderio di rivederla sorridermi e salutarmi ancora, come prima della sua dipartita, si confondeva anche con l’ansia che ogni notte mi buttava,sempre più inappagato, tra le braccia di quest’altra, a succhiare dalla sua bocca e dal suo seno una beatitudine perduta. E allora, Guido, ingaglioffarsi nella melma dei sensi o alluminare con elette parole le nostre carte, è poi così diverso? E quanto alle parole che tu dici debbano essere leg­gere come sospiri, di che cosa, però, vanno così leggere sospirando?”

“Elette le parole non sono perché sospirano di cose elette, ma perché diventa per l’elezione delle parole ciascuna cosa eletta che le parole sospirano”.

“Le parole non sono le cose. Che cosa dunque la parola renderebbe, dicendola, eletta?”.

“Il solo fatto di dirla”.

“Ma oltre le parole, che vedi?”

“Nulla. Mi meraviglio di te. Non dice il tuo Filosofo che il mondo lo conosciamo solo per­ché possiamo e sappiamo parlarne?”

“Sì, ma non dice che il nostro parlarne parla di nulla”.

“E di che cosa parlerebbe, allora? di noi? E siamo qualcosa più del nulla, noi? Non dirmi che abbiamo un’anima immortale. Lo sai che non ci credo, e non ci credeva nemmeno il tuo Aristo­tele”.

“Ma prima, non mi hai tu forse definito che cosa è Amore?”

“Con la maiuscola o con la minuscola, un dio o una fantasia?”

“Mi sfidi sul mio stesso campo. Vuoi dirmi che l’angelo è un’invenzione?”

“Ti parlavo di Amore, è vero, ma il senso del mio discorso non era specificare la sua natura, o parlandone come di un dio, dedurne gli attributi e addirittura definire la sua potenza, parlavo bensì del mio pensarlo, del mio pensiero su quell’atto che chiamiamo amore. Amore, in sé, non parla, non è niente, non esiste, l’atto d’amore sbigottisce, e noi chiamiamo quel nostro sbigottire Amore”.

“Ma se io volessi cogliere, al contrario, e proprio con le parole, ciò che le parole non posso­no dire? Se proprio lo sbigottimento, il trasalire subitaneo, fosse l’oggetto del mio discorso, il pun­to in cui volessi arrestare il segno delle mie sillabe? Se a non altro che decifrare l’indecifrabile vo­lessi indirizzare il linguaggio? E solo parlando di ciò, del trasalimento, dell’indecifrabile, potessi veramente aspettarmi salute?”

“Tu non vuoi parlare di amore: tu vuoi parlare di Dio”.

“Vedi come da te si diparte il mio cammino? Io non so dove voglio arrivare e ignoro dove questo mio cammino mi conduca. Tu, invece, non ti muovi, non esci dal piccolo cerchio in cui posi le piante dei tuoi piedi: nella circonferenza che lo delimita hai tracciato il confine della tua mente”.

“Il confine, dici? Ma non vedi che oltre quel confine io non so nulla? Non so nemmeno se ci sono”.

Il più giovane dei due, che solo all’aspetto pareva il più disperato, osservò in faccia l’ami­co. La vide sbiancata: gli occhi, in fondo all’orbita nera delle occhiaie, lucidi e accesi dalla febbre, riflettevano la luce delle candele con guizzanti bagliori. Sui muri della stanza, proiettate dai loro corpi e dagli oggetti dello scrittoio, un leggio, qualche libro, la caraffa, la coppa di stagno, le penne nel calamaio, le ombre si allungavano e tremolavano al luccichio capriccioso delle fiammelle, in­trecciavano sussultanti incontri, strane congiunzioni e sovrapposizioni di figure che, danzando in­torno all’amico, sembravano a poco a poco avvolgerlo e chiuderlo in un cerchio sempre più stretto. Guardò esterrefatto l’ombra dell’amico e vide allora il suo corpo contorcersi negli spasimi di un soffocamento, rannicchiarsi, rimpicciolirsi e infine scomparire, inghiottito dalla ridda infernale del­le ombre tremolanti sul muro. Una candela si spense. E le ombre, sul muro, tornarono immobili.

Guido afferrò la coppa di stagno e si versò un po’ d’acqua dalla caraffa. Bevve. Posò la coppa sullo scrittoio. E fissò l’amico negli occhi.

La faccia tua mi fa piangere, come se fosse la faccia di un morto, pensò Dante. Ma trattenne il singulto. Sorridendo, allora, prese dolcemente una mano dell’amico, che continuava a fissarlo, e la strinse tra le sue, così forte che l’altro emise un gemito.

“Sei stanco?” domandò.

“Non ho sonno”, rispose Guido: “e non ho voglia di tornare a casa. Mi scacci?”

“Non potrei mai, puoi restare tutta la notte e tutto il giorno che verrà. Fingeremo che questa stanza sia quel vascello dove vorrei fuggire insieme a te via dal mondo”.

Guido divincolò la mano dalla stretta.

“Che cosa ti fa pensare”, sospirò: “che continueremmo ad amarci, invece di litigare?”

“Che cosa ha da spartire la nostra amicizia con le nostre idee?”

“E concepisci tu un’amicizia che non si fondi su una perfetta condivisione d’idee, oltre che di sentimenti?”

“Se la nostra visione del destino finale dell’uomo è diversa, non è diversa la condotta che ci aspettiamo debba essere da lui tenuta su questa terra: tu mi assomigli più di chiunque altro, e non solo a Firenze”.

“Da un giorno all’altro non assomiglio nemmeno a me stesso, come puoi dire che ti somi­glio?”

“Dove vuoi condurmi?”

“Non dove vuoi tu, non almeno dove vuoi tu adesso”.

“Un confine”, disse Dante, dopo un lungo silenzio: “in questa vita, nelle nostre parole, nei nostri pensieri, c’è sempre. Non è possibile oltrepassarlo. Se preferisci: un dove, un quando, un che cosa, in cui sostare. Ma è tutto qui, il nostro mondo? Siamo noi, solo questo? Questo limite invali­cabile non solo del nostro corpo, ma anche della nostra mente? Mentre noi stiamo qui, dov’è l’altrove dove noi non ci siamo? E dove, i giorni in cui non ci siamo più o non ci siamo ancora? In­somma, Guido: perché rinunciare a chiederselo? Altrove, e prima, o dopo, se c’è o non c’è un oltre qualsiasi, non te lo chiedi mai? Volti la faccia indietro, come chi ha guardato troppo avanti e o è ri­masto abbagliato o non ha visto nulla? ma rischiare, non importa se per un sì o per no, azzardare l’inchiesta, o la domanda, avventurarsi nel repentaglio di ottenere risposta terribile o di essere ag­grediti da un impenetrabile silenzio, è un imprevisto che ti spaventa? Ma potresti credere che ti par­lo così perché ho la certezza di un Dio che mi risponde. Ma che ne sai se mi risponde?^ Quale Dio, dimmi, fuori di questo dove in cui ti sto parlando, di questo quando che ci lega l’uno all’altro come mai due amici furono legati, quale Dio, se non il mio desiderio d’incontrarne o l’amplesso o il rag­gelante silenzio? O quale affanno, dimmi, con più rabbiosi denti morde il cervello: il mio dubbio se un Dio può rispondermi o la tua certezza che non c’è? Il mio disperare d’un dopo, se sia sopravvi­venza di felicità o di perpetua angoscia, o invece la tua sicurezza d’un termine, dopo il quale non c’è più niente? E’ più Medusa che impietra chi guarda, il mio inquieto cercare o la tua orgogliosa rinuncia?”

Guido vide sulle guance smunte dell’amico scendere dagli occhi due rivoli sottili di lacri­me. Allungò la mano destra sulla guancia sinistra dell’amico e con l’indice deterse le lacrime. Come quella guancia si bagnava di lacrime inascoltate, anche il suo cuore affogava, e forse con più furore, in un pianto, che a differenza dell’amico, non conosceva redenzione.

“Non muoiono soltanto gli angeli”, disse. “Muoiono tutte le creature. E per quanto il nostro pianto voglia trattenere quell’istante, l’istante passa, e dopo non resta, in chi resta, che il rimpianto. Io temo che la mia disavventura mi farà dire: io mi dispero. E quando lo dirò, la Morte mi avrà già posto in sua figura. Intanto, però, sento nel cuore un pensiero, sì, un pensiero, e lo sento nascere dal cuore, un pensiero che mi fa tremare la mente di paura e mi sospinge, e mi batte, e mi obbliga a la­crimare tutte le mie certezze, perché le scorgo dissolversi come una duna di sabbia investita dal vento. Questo pensiero, che mi nasce nel cuore, è che nel breve cerchio in cui Fortuna racchiude i miei gemiti io non ho pace e non l’avrò finché i miei folli occhi potranno di nuovo bagnarsi di pianto e un sospiro, uscendomi dal cuore, dirà agli spiriti che mi abbandonano: non vi partite. Ma quando sarà giunto quell’attimo, gli spiriti fuggiranno, gli occhi si chiuderanno, e i miei sospiri di­venteranno muti per sempre”.

“L’ho vista. Il suo volto era pallido. Gli occhi, chiusi. Le mani, incrociate sul petto, bian­che. Ma le punte delle dita, e le unghie, già nere. La stanza era stracolma di fiori. Intorno al letto, alle pareti. E perfino sul suo corpo. Insieme all’odore dei fiori mi arrivava anche l’odore del suo corpo. E non era l’odore di un angelo”.

“E qual è l’odore di un angelo?”

“Non quello, che ancora mi fa rabbrividire”.

“Quello di prima, dunque? Ma quale? Quello che ti faceva tremare quando la incontravi per strada, o quello di cui non avesti mai l’esperienza, ma che il suo uomo aspirava la notte nel letto e che forse anche tu, almeno in sogno, hai goduto?”

“Di altre sì, ma non di lei”.

“Anche di lei, e certo non diversamente. Magari l’hai perfino immaginata seduta sul buglio­lo, o fasciata dalle bende, per trattenere le perdite”.

Dante ebbe un sussulto di disgusto. Ma si pentì. L’amico scrutava con lucidità dentro di lui, e vi scorgeva desideri e pulsioni, che non poteva negare di avere realmente provato. Aveva però, anche, inutilmente cercato, non solo per vergogna, ma anche per paura, di nasconderli a se stesso. Tuttavia, per superbia, forse, o addirittura per sfrontatezza, si era talora sentito l’impulso rabbioso di negarne la lubrica persistenza. C’è, sembra, nella fantasia umana una voglia di sporcare e degra­darsi che si cerca invano di soffocare, come se la mente talvolta si compiacesse di affondare nei privati umani e sguazzare nelle fosse più lerce del cuore. Non rispose alle sconce provocazioni dell’amico, perché riconobbe che non erano provocazioni, ma una lettura terribile, e vera, del suo cuore.

“Anche di lei”, ripeté l’amico: “Perché, del resto, avendo il tuo angelo occhi e bocca e mani e tutto il rimanente come le altre donne, perché non avrebbe dovuto anche il suo corpo emanare quegli stessi odori che dai corpi di tutte le altre mandano in estasi i sensi di chi si concede beato all’amplesso? Perché invidiare solo a quest’una il diletto che rende umana la dolcezza delle altre?”

“Il corpo di una donna”, disse Dante, dopo un ostentato silenzio di disapprovazione (ma di­sapprovava che cosa? Non sapeva quali inconfessate turpitudini esigesse l’amico dalle sue foroset­te, ma conosceva assai bene le proprie, che donne assai più gentili gli concedevano di assaggiare dal proprio corpo, senza opporre resistenza né fingere sorpresa o ipocrita vergogna: “il corpo di una donna”, insisté: “può concedersi simultaneamente come un vortice di nequizie e un paradiso di dol­cezza, tanto le une che l’altra non nascono dal corpo che abbracci, ma dalla tua mente che lo viola e lo penetra”.

“Il corpo di una donna lo si può violare anche senza penetrarlo, basta talora uno sguardo. Ma più spesso è il suo, di sguardo, a violare non il tuo corpo, ma la tua mente. Le donne non hanno bisogno di possederti per avere dominio su di te. Anzi, assai spesso, a incatenarti anima e corpo è il loro rifiuto. Basta il tocco leggero della mano, quando ti saluta, un sorriso involontario sfuggitole per strada quando per caso t’incontra, e tu sei legato al tepore di quel contatto che t’ha fatto trasali­re, alla stregoneria di quello sguardo che t’ha bloccato, all’insidia di quel sorriso di cui non vieni a capo, il cui segreto e la cui intenzione ti sfuggono”.

“Di una non conobbi altro che il viso e le mani, e ora impazzisco perché non potrò mai più incontrarne per la strada la figura, non sospirerò per il pallore della sua pelle né tremerò ferito dal­la luce misteriosa dei suoi occhi. Ti sembrerà ben strano amore, il mio, ma solo questo, per me, di tanti che il volgo mi accusa d’inseguire, è vero amore, questo che ho sognato bambino, riscoperto ragazzo, e custodito da adulto nelle pieghe più nascoste del cuore. Come un romanzo di Chréstien, l’angoscia di Lancillotto, l’audacia di Yvain, l’innocenza di Perceval”.

“E non t’insegnarono tali letture la dolcezza dei baci, il diletto di guardare l’amata negli oc­chi?”

“In ciò che tu chiami diletto io sento quasi sempre annidarsi un non so che di amaro, un atto già insoddisfatto prima di essere compiuto, l’irrequietezza di una delusione per qualcosa che avevo sperato più forte o di dolcezza meno istantanea, il rammarico di avere sprecato una parte della mia giornata e forse addirittura una parte di me stesso. Piacere e patimento sembrano sempre nel mio corpo mescolarsi e guastarsi l’un l’altro proprio nel punto in cui il godimento dovrebbe invece rag­giungere il suo culmine, la rosa che m’inebria col suo profumo cela per me lungo il suo stelo una spina subdola e invisibile che mi punge, anzi mi ferisce, come se piacere e dolore nascessero dalla stessa radice e l’ebbrezza di un profumo, di un contatto, s’inquinasse con la sofferenza di una pri­vazione, il disinganno di una solitudine che avevo sperato invano di eludere, affollandola di corpi occasionali tra una notte e l’altra del mio vagabondare di casa in casa. Come visitassi sepolcri in­vece che dimore di donne. Un dolce strazio mi estraeva, però, dal cuore gli angosciosi sospiri dell’attesa di quell’una che sola sembrava sorridermi senza chiedermi nulla. E tuttavia sentivo an­che in questo tormento dell’attesa una dolcezza che mi appagava, e che se non placava il furore dei miei sensi, pareva almeno acquietare, anche se solo in parte, l’inquietudine della mia mente. Ma ora che il tremore di attenderla si è fatto vano, mi accade che ricordarla, come se potessi per un mi­racolo di nuovo incontrarla, riflette ora nel doloroso specchio dell’anima. in cui vanamente mi guardo a cercare la mia salute, non già, e sia pure solo nel ricordo, la gioia di quell’attesa, bensì le lacrime di una pienezza dei sensi spasmodicamente inseguita e precipitosamente inattuata. La mia memoria, allora, si gonfia di lacrime e in questo mio pianto mi sembra di provare il diletto di una conoscenza nuova, la quale mi rammenta che ora è per me pienezza, nel ricordare, ciò che invece nel tempo ricordato non fu per me che desiderio. Amaramente, perciò, ricordando, mi smarrisco nella dolcezza della mia visione”.

“I tuoi sensi furono sempre sfrenati: senza confini l’estasi, l’abbandono d’amore; turbolenta la sofferenza, il rovello delle pene incompiute. Solo a tavola sei parco. Ma di tutto il resto i tuoi sensi sono perennemente affamati. Ingordi di tutto: di una parola e di uno sguardo, di un verso e di una bocca. La tua dolcezza assomiglia allo sfinimento, il tuo entusiasmo al delirio. E tuttavia, tu che dici di smarrirti, ti perdi nell’angoscia di un diletto, ma ignori la paura di toccare un limite”.

“Al di là del limite di cui parli si aprono altri spazi e nuovi limiti si configurano allora al mio intelletto e dunque anche al mio desiderio. Ma non li vedo alzarsi con il divieto di oltrepassarli, o come confine della mia esperienza di uomo, dell’animale cioè che sono anch’io, come tutte le creature, un animale che però cammina eretto, invece che a quattro zampe, e parla e ragiona, no, non è così che mi si presenta il mondo, né tanto meno la vita, bensì, questi limiti, io li sento come ostacoli da superare e lasciarmi alle spalle, come una rima difficile di cui non mi arriva subito il calco. Mi si apre allora davanti un grande silenzio, in una landa deserta, e non ho luce che m’illu­mini e mi guidi nella pianura né interprete o angelo che mi traduca il significato di quel silenzio. Solo perché credente, supponi che per me l’aldilà sia pieno di strida e di dolori, come un aldiquà qualunque? Dio non tace solo a chi lo sfida, ma oppone il suo silenzio anche alla disperazione di chi lo invoca e chiede aiuto”.

Restarono in silenzio. Guido sentiva riaprirsi tutte le ferite dei propri amori impossibili, ma se possibili, e cioè senza l’angoscia del rifiuto, la disperazione del congedo, senza il tremore del tradimento, la fuga scollacciata nell’avventura plebea, sarebbero quegli amori stati per lui ancora veri amori? Bisognava dissotterrare e toccare le radici della loro singolare affinità elettiva, esplora­re la natura della loro amicizia, per riuscire anche a capire la sagacia del loro strano contrastarsi, e proprio quando le avventure da bordello dell’uno parevano invece rispecchiare quelle dell’altro. L’angelo sarebbe stato per loro una maschera della voluttà, dell’irruenza e della sfrenatezza della voluttà? O anche sotto lascive lenzuola differiva la impudicizia dell’uno dalla dissolutezza dell’altro? Amare una donna, in qualunque modo la si volesse amare, era dunque un atto così dissi­mile se l’uno credeva nella sopravvivenza dell’anima e l’altro invece stimava una puerile illusione tale speranza? Era così diverso l’amore per una donna di chi crede in un Dio che determina il corso delle cose, e chiama questa determinazione armonia, da quello di chi al contrario Dio, se lo colloca in qualche parte del mondo, lo colloca lontano, alle origini invisibili dell’essere, in una terribile so­litudine, immobile e indifferente al divenire delle creature che popolano l’essere al quale ha dato forma? Più vero sarebbe perciò l’angelo di chi venera la donna come una sua copia terrena, un an­gelo palpabile, una sorta di angelo privilegiato, un angelo superiore perfino agli arcangeli, e forse un’immagine carnale della misteriosa Vergine Madre di Dio, che possa, come lei, intercedere tra gli uomini e Dio, dall’angelo di chi, sprofondato nell’inferno della propria insaziabile angoscia, consapevole della propria estraneità a qualunque donna, nell’angelo raffigura solo il proprio tor­mento, la paura di un oggetto inutilmente desiderato e irraggiungibile? Quanto alla Madre di Dio, perché erigerle tanti monumenti? Modello di quale donna o Signora di quale cuore? Non si trattava in fondo che di un’umile donna, anche se discendente forse dalla stirpe di David, ch’era rimasta sconsideratamente incinta per opera di non si sa chi, e che aveva perciò dovuto ricorrere a un matri­monio riparatore con un vecchio: quale grazia avrebbe potuto dunque impetrare dall’abisso della sua solitudine? Una sfida o uno scandalo per l’intelligenza di chiunque, ma che si voleva pretende­re sublime e metafisica realtà proprio per questo. Ma andiamo! L’età delle fiabe era passata: non si poteva credere a niente di tutto questo e le credenze dei cristiani apparivano anzi superstizioni non meno ridicole o comunque improbabili della nascita di Minerva dal cranio di Giove. Una religione che predicava la teofagia gli appariva, infatti, non meno riprovevole di quelle che praticano l’antro­pofagia. Le radici dell’amore affondano in un mondo assai più tenebroso, in una terra sconosciuta, e non sembrava partecipare alla bellezza di quello che sembra guardarci con l’occhio luminoso del­le stelle. La terra che nutre queste radici va dissodata e fecondata con lo sterco dell’angoscia, con la paura dell’abbandono. Niente appare più reale all’amante della minaccia del diniego, dell’immi­nenza del distacco. Ogni attimo del giorno, già prima di accadere e di passare, ne racchiude l’inso­stenibile possibilità, l’eventualità del rifiuto inappellabile. In quel punto l’amore mostra la sua fac­cia crudele, la sua mano assassina e ferisce a morte l’infelice che gli si è consegnato, lo decapita, gli raggela il cuore, come se eseguisse una sentenza. Il suo sorriso allora, al misero condannato non apparirà diverso dal ghigno della Morte.

Guardò in faccia l’amico. Le notti insonni, il lungo digiuno, avevano scavato nel suo volto già smilzo profonde occhiaie, che la fioca luce della lampada faceva apparire oscure. Nel suo fondo brillavano, irrequiete, le pupille. L’amore toglie il sonno e la fame, ma sembra accendere negli oc­chi una nuova fiamma o fare apparire quella interna che brucia e consuma il cuore. I lineamenti emaciati pronunciavano distintamente la lettera M formata dagli archi delle sopracciglia e dal profi­lo aguzzo del naso. Per un attimo gli balenò nella mente l’idea, o l’impressione, che l’amico stesse per raggiungerlo sulla stessa strada che non prevede altre stazioni di posta dopo quella finale e che ciò gli rodesse il cervello assai più della scomparsa dell’angelo adorato.

“Poco fa mi chiedesti di definirti che cosa è amore”, cominciò, con voce pacata e bassa: “Ti ho spiegato per quali vie nell’anima prende figura. Ma ora dimmi: per te, questa cosa che non sap­piamo definire se non attraverso gli effetti che ci sbigottiscono i sensi e fanno smarrire la mente, questo stato di lucida sospensione dell’intelligenza, che cosa è mai? E da che nasce?”

Dante lo fissò meravigliato. Era una provocazione? una sfida? una sorta di tenzone intellet­tuale, in cui nessuno dei due avrebbe potuto incoronarsi con il lauro della vittoria? O lo smarrimen­to dell’amico era davvero andato così avanti da non trovare più la strada del ritorno? Forse Guido era più disperato di lui, e aveva davvero perso ogni speranza di uscire dall’intricata selva in cui si era perduto. Lo avrebbe accontentato. Ma solo per fargli intendere che nemmeno lui, per ora, cono­sceva la risposta. Se avesse potuto, gli avrebbe fatto conoscere quel Dio che ora teneva le sue vesti per un lembo, e impediva che precipitasse giù anche lui, come molti altri fiorentini, tra i più valenti, nel baratro senza fondo e senza ritorno della perdita del mondo e di se stessi, proprio nel punto in cui si crede invece di possedere la chiave d’ogni piacere e la somma conoscenza dei propri deside­ri. Ma Amore è Dio, avrebbe voluto dirgli. Preferì cominciare dal basso, e da lontano. E definire l’attrazione dei corpi, l’ansia che immettono nel cuore dell’amante di unirsi all’anima dell’amata. Un’ansia così forte, da fare paura, come se in quell’unione si perdessero entrambi, travolti da una tempesta di desideri più grande dei loro cuori, e distolti, staccati per sempre dal contatto degli altri e delle cose.

“Amore”, disse: “a intenderlo veramente, non è altro che unimento spirituale dell’anima e della cosa amata; nel quale unimento di propria sua natura l’anima corre tosto o tardi, secondo che è libera o impedita. E la ragione di questa naturalità dell’anima può essere questa. Ciascuna forma - e l’anima è forma che si contempla nella perfezione del suo desiderare – ciascuna forma, dunque, procede dalla sua prima cagione, la quale è Iddio. In qualche modo, perciò, questo desiderio parte­cipa della natura divina. E quanto la forma è più nobile, tanto più di questa natura tiene: onde l’ani­ma umana, che è forma nobilissima di queste che sotto il cielo sono generate, più riceve della natu­ra divina che alcun’altra. E poiché naturalissimo è in Dio volere essere, l’anima umana essere vuole naturalmente con tutto desiderio; e poiché il suo essere dipende da Dio e per quello si conserva, na­turalmente desidera e vuole essere a Dio unita per fortificare il suo essere. Ma poiché anche nelle cose della natura e della ragione si mostra la divina bontà, viene che naturalmente l’anima umana con queste cose si unisce, tanto più tosto e più forte quanto più appaiono perfette: e tale perfezione appare secondo che la conoscenza dell’anima è chiara o impedita. E questo unire, questo congiun­gersi dell’anima con le creature e con le cose è quello che noi diciamo amore, e per questo amore si può conoscere quale è dentro l’anima, vedendo di fuori colui che ama. Non è meraviglia, dunque, se di lei, che era nobilissima, l’anima mia sentiva, dentro, così forte desiderio di lasciarsi possedere che smarriva, al solo sguardo, ogni valore, e per questa sola creatura la mia mente si è sentita tre­mare, vedendo così selvaggio accendersi nel cuore l’amore che ancora, lei spenta, mi arde e mi consuma. Ma che dico io, amore? Non una goccia di sangue è rimasta nelle vene che non tremi, e a tremare adesso non ho che il desiderio della memoria. Per questo desiderio la mia vista si è allarga­ta a pura visione delle cose che non tocco, e io stesso che guardo, sono di questa mia visione una cosa. Come posso, dunque, negarmi ai miei occhi e addormentare la vista della mente? In altri tem­pi avrei avuto paura. Ora, più che la paura, può in me il desiderio di guardare. E perciò, qualunque sia l’oggetto di questa mia visione, voglio vederlo, fosse pure me stesso l’oggetto, e me stesso che tremo di paura, ma voglio vedere la realtà di me stesso e la cagione del mio tremare”.

A queste parole, alla contraddizione che manifestavano così apertamente, tra l’esalarsi dello sguardo interiore dell’anima nella visione di un paradiso immaginario che si voleva visione di Dio e lo sprofondare nell’inferno infuocato dei sensi, nel delirio turbinoso dei desideri taciuti, Guido sentì insinuarsi lentamente nel suo cuore una sbigottita dolcezza. Lo sguardo dell’amico, dal quale poco prima gli era parso d’essere ferito con smisurato orgoglio, gli appariva ora meravigliosamente limpido, come guardasse il mondo da lontano, l’aiuola di un giardino fantastico, e vedesse negli oggetti quasi un’essenza nascosta, che oscurava, e forse rimuoveva o semplicemente ignorava quel­la contraddizione. Ma gli sembra una via senza ritorno, una ignobile finzione, che per salvare il proprio delirio lo dichiarava voluto da Dio. Era il principio doloroso di un distacco. Ma non come nelle doglie di un parto, nell’attesa di una vita che si rinnova, o nel secreto studio di un poeta, il concretarsi sul foglio delle parole a lungo inseguite, il nuovo testo come un pargolo che vede per la prima volta la luce, no, non come l’aspettazione del nuovo che nasce, bensì come l’imputridirsi della menzogna sulla lingua che la pronuncia, l’intossicarsi del desiderio in un superamento artifi­ciale del dolore, la fasciatura d’una piaga purulenta, che non riusciva a mitigarne il lezzo. E sentiva addensarsi nella mente, a queste riflessioni, un immedicabile struggimento. Una pienezza perduta, aveva detto l’amico. Di quella pienezza sentiva ora lentamente svuotarsi il cuore. Ma lo svuota­mento gli scendeva nel corpo e si confinava nella mente come un ingorgo di ricordi che gli resta­vano compressi in un solo viluppo, alla bocca dello stomaco, come fosse la bocca del tempo, inca­paci di sciogliersi e uscir fuori in una forma qualsiasi, di parole o fosse pure di silenzio, di annien­tamento. Avvertì, violento, l’impulso di abbracciarlo, stringerlo forte al petto, e piangere con lui. Sarebbe stata forse l’ultima volta che avrebbe potuto abbracciarlo con una così lancinante e terribi­le consapevolezza di perdersi, di allontanarsi l’uno dall’altro, proprio per la violenza di quell’amore che li univa, per l’impulso focoso di un’amicizia ch’era partita dalla conoscenza del loro pensiero, prima che della persona. Ma sapeva anche che tra i due, l’automa, l’uomo che custodisce nel pro­prio corpo il corpo di un morto, non era l’amico, ma lui. Si trattenne. E disse:

“Non sempre, e non tutto, è necessariamente dolore ciò che si perde”.

“Ma io non perdo. Non uno degli attimi vissuti finora, e dei pensieri che questa gentilissima ha destato in me, mi è fuggito via dalla mente. Ma tutti mi appaiono, ora, per questa morte, trasfi­gurati. Il loro senso mi si chiarisce appunto adesso come attesa di questa morte. E’ qui che io devo cercare la forma del mio tempo, la ragione della mia vita. Ora mi trovo in un punto ch’è quasi sen­za tempo: sospeso tra il compimento dell’attesa di non so che cosa e il desiderio di un segno, di una figura, che ancora non conosco. Questo, però, non è più memoria”.

“Visione?”

“Forse. Ma di che cosa?”

“Desiderio del desiderio, struggimento di sospiri, soffocamento delle parole”.

“Non si tratta solo di me. Al solito cerchi sempre una ragione individuale anche per ciò che non è solo il patimento di un singolo”.

“Non cerco niente. Intendevo che ti compiaci del tuo stesso desiderare, che ti piace sentirti struggere per qualcosa ch’è impossibile, che soffochi i tuoi sentimenti con le parole per non sentir­teli pulsare nelle vene”.

“No, no: non è così. Per qualche via che ancora non conosco sento che questa mia avventu­ra, come per Lancillotto, per Perceval, e per Enea, non riguarda solo me. Ma io sono il mezzo, lo strumento, perché dalla spiegazione del mio dolore venga anche spiegato il dolore del mondo. Se mi vedi così accasciato, spaventato, disorientato, umiliato, sconfitto, tanto ch’io mi credo più sulla strada dell’angelo caduto nell’abisso che su quella che mi condurrebbe alla porta dell’angelo che sguaina la sua spada infuocata contro il demonio, non è per il dolore atroce che squarcia il mio cer­vello, ma perché vedo che questo mio dolore è solo una pallida immagine, solo l’ombra, del dolore di tutti gli uomini, del dolore della storia, da Adamo ad Abramo, a Paolo, a Costantino, a France­sco, Domenico, Enrico VII, e i loro segretari, cancellieri, calunniati, perseguitati, spinti al suicidio, alle donnette senza lettere che sui campi di battaglia cercano di ravvisare il volto dell’amato nei visi sfigurati dei caduti, Che Amore è questo che permette tanto dolore? Che Dio quello che chiude gli occhi e non interviene?”.

Ecco il credente, si disse Guido. Non vuole rinunciare alla speranza che esista una regola, un ordine, e che qualcuno regoli e metta ordine nel mondo, ma poi si scandalizza della sua cecità, del suo silenzio. Che paura lo trattiene dal riconoscere che il mondo è senza regole, senza ordine, perché non c’è chi lo regoli o lo metta in ordine? Il mondo, almeno, degli uomini, perché quello de­gli animali e della natura, una regola, un ordine sembra possederli. Cercò e propose, un’altra volta, una spiegazione psicologica.

“La mente”, disse: “oppressa dal pensiero di un contatto che l’annienta, o di un pensiero che la sconvolge, sfoga nell’immaginazione la propria impotenza di pensarlo e di liberarsene. Quanto più semplici e rarefatte le parole, tanto più profondo lo sbigottimento di pronunciarle e rac­chiudere in un gioco il labirinto dei sensi smarriti. Questo è quello che dovremmo dire Amore. Il resto, il dolore degli altri, il male del mondo, è sgomento di ragazzo. E non ci riguarda. Non possia­mo cambiare le cose. Lo dice perfino il tuo Dio, a chi glielo chiedeva: “Dov’eri tu quando io pone­vo le fondamenta del mondo?” Certo, non c’eravamo. Ma non mi sembra che l’opera sia riuscita un capolavoro”.

“Dio non rispose a Giobbe, perché la domanda era sbagliata. La tua teoria d’amore non mi basta più. Voglio andare oltre lo sbigottimento e guardare sotto il suono delle parole i corpi che muovono la mente a pronunciarle, Voglio cercare quale sia la domanda da farsi. Raccontare, senza smarrirmi, lo smarrimento in cui vivo. Incontrare, senza morire, il respiro dei morti. Sentirmi rac­contare da loro le loro storie. Come Ulisse dalla sua disperata madre, da Tiresia e da Achille, come Enea dal padre Anchise. La mia mente è ingorda di tutto ciò che sembra negarla e che potrebbe an­nientarla. Voglio trovare, nello stordimento dei sensi, una nuova chiarezza, capire ciò che mi con­fonde, definire ciò che mi annebbia il cervello. La via per capire tutto questo non è voltarsi dall’altra parte se ci s’imbatte nella carogna di un cavallo e il suo lezzo ci offende il naso. Non è fuggire dai disordini della vita e circoscrivere la vita in uno stile che filtra le parole e seleziona i pensieri, perché non appaiono imbrattati dai disordini che hanno attraversato. Voglio raccontare l’imbrattamento, l’inferno della sofferenza senza speranza. E per farlo mi occorre tentare tutti gli stili, il sublime della tragedia, l’elegiaco della vita comune e il comico delle sozzure umane, mi è necessario immergermi nel buio di una selva che sembra senza uscita e dove io mi smarrisco senza scampo, inseguito dalle belve del mio stesso pellame, la mia superbia, la mia lascivia, la mia avari­zia, devo affondare nel brago di tutti i miei desideri, le mie smanie, i miei appetiti, le mie voglie, i miei luridumi, per lasciarli affiorare sulla pagina, venire a galla del mio pensiero, confusi, affamati, rabbiosi, acuminati, voraci, e lasciarmene avvolgere, sopraffare, fino a soffocarmi e porre a rischio con la mia vita la mia salvezza. Noi cantavamo, Guido, un amore che non esiste, l’indiamento d’amore, il soprassalto e l’estasi che ci strappavano l’anima dal corpo, e ci rifugiavamo in una con­templazione ipocrita del bene che non potevamo toccare, e aspiravamo perciò al superamento men­tale dell’impotenza, desiderando come novizi indisciplinati un morire di eletti. Ma non diversamen­te da quelli che tu chiami morti, noi ci s’imbestia invece per la pelle di una femmina, e come cani che fiutano la cagna si spasima per un’ora di oblio tra gli schiamazzi di una taverna, si delira per la pace fuggevole di un bordello. Ricordi? La tua angoscia non cancella la muffa che si appasta sopra i muri di quelle stanze: l’odore della muffa si mescola con l’odore del letto, delle lenzuola sporche di escrementi e di sperma, del carbone che brucia nel braciere. Non negarlo: tu, come me, cerchi proprio quegli odori, tu vuoi quei muri, quel letto, quella brace e quelle braccia. Vuoi affondare la tua lingua in quelle bocche, inabissare la tua verga tra le labbra di quelle vagine, perché di quelle bocche, di quelle labbra non è mai sazio il tuo cervello. Dopo di che puoi anche fingere l’avventura tolosana della Dorata, inventarti la sortita provenzale in un boschetto, sognare l’incontro primaveri­le con una pastorella innamorata. E piangere dall’esilio la lontananza della tua donna alla quale, tra le braccia di tolosane, e pastorelle provenzali, non hai mai pensato nemmeno un istante. Ma l’avventura prende forma da ciò che non dici. E io, ora, voglio dire solo ciò che l’avventura na­sconde. Ieri, di notte, come tu questa notte sei venuto da me, sono andato a parlare con Brunetto Latini”

“E che cosa ha ora a che vedere lo stile di Messer Brunetto con questa foia di bordello che sembra inquinarti la ragione”.

“La mia ragione non fu mai più lucida di adesso, Quanto a Messer Brunetto, la sua foia non è diversa dalla nostra. Diversi sono invece la sua virtù e lo stile in cui prende forma. Più della no­stra spocchia e del nostro stile, l’una e l’altro sono veri”.

“Ma che vuoi dire?” esclamò, sorpreso, Guido. Non amava quel vecchio libidinoso e sac­cente. Non amava come lo guardava quando s’incontravano. E, anche se sapeva di non essere il tipo di oggetto da lui preferito, che altra e più tenera carne lo attizzava, gli ripugnava sentirsi ad­dosso quegli occhi acquosi e lubrichi. Dante tardava a rispondergli. Avrebbe voluto provocarlo con qualche lazzo osceno, ma non sarebbe stato nel suo stile, se mai in quello di Forese, e perciò si con­tenne e aspettò che aprisse bocca di nuovo per rispondergli.

“ Messer Brunetto non teme il giudizio di nessuno. Forse quello di Dio. Ma in ogni caso si conosce, come può darsi nessun altro a Firenze conosce se stesso”.

“E’ tutto il tempo, da che io sono venuto in questa stanza, che ti ascolto con stupore. Parli di amore, di anima, di spirito, di Dio. Ma nelle tue parole io sento solo di te il desiderio, il corpo, l’animale, la terra. Che cosa cercavi da Messer Brunetto?”

“Messer Brunetto vive insieme così opposti ardori, che serbarne intatta, non lacerata, la co­scienza, è un miracolo. Eguale enigma sono per lui le carte del Trésor e un giovanetto incontrato di notte a Ponte Vecchio. Non chiede ai sensi che di essere sensi e di non interrogare perciò le cose che si celano oltre l’enigma dell’apparenza. La leggerezza della ragione nasce in lui da questo sguardo che s’appaga e gode della superficie: il profilo di un volto, la delicatezza di una mano, la sensuale dolcezza d’un ventre adolescente, in cui la femmina non si è ancora disgiunta dal maschio. Anche più in là si spinge questo godimento, ma ti lascio immaginare in quali parti del corpo di un ragazzo. E tuttavia anche il desiderio più sconcio, la sopraffazione più lubrica, non intaccano l’innocenza del suo animo. Lui veramente s’innamora di due labbra carnose, di due occhi neri sfug­genti e spiritati, di un culetto piccolo e sodo, come tu t’innamori, e forse con più malizia, di due poppe incontinenti che la veste comprime ma non nasconde, di un labbro malandrino che sorride per adescarti, di un inguine pastoso che t’apre le sue umide stanze. Buono è per lui non ciò che si adatta alla ragione, ma l’intelletto che prende forma dalle cose. Tuttavia, tra le cose, l’intelletto di­stingue, sceglie, distacca ciò ch’è eterno da ciò che finisce e solo l’eterno cerca come suo ultimo fine. Ma eterno è per lui solo l’attimo, il momento in cui nel corpo l’anima percepisce una sensa­zione e nella mente la sensazione si fa parola. A questa parola egli affida l’eterno della memoria, l’infuturarsi del ricordo. Quando le due operazioni sono congiunte, il corpo gode della bellezza che la mente guardando racconta. Abbiamo parlato tutta la notte. Con voce calma, calda, faceva soave­mente bordone ai miei scatti d’impazienza, al mio mutare il tono della voce secondo i moti del mio animo e della mia mente. Egli no: parla sempre uguale, la sua parola fluisce nell’aria come la cor­rente d’un fiume nel suo letto di sabbia. E’ questa tranquillità a commuovermi. La sua voce si ada­gia su una linea immutabile di distacco: come se le cose che dice non lo toccassero. Ma dice cose tremende. Non mi nasconde nulla della sua vita, la quale del resto tutti a Firenze conoscono. Eppu­re conosce i nostri trasalimenti per lo sguardo di una femmina meglio di noi stessi. Li misura ai propri trasalimenti per la bocca di un ragazzo, talora perfino di un fanciullo. Non ti scaldare. Mes­ser Brunetto non nasconde i propri appetiti, ma sa benissimo che nel soddisfarli o non soddisfarli sta la differenza tra ciò ch’è morale e ciò che non lo è. Conosce l’Etica di Aristotele meglio di noi. E meglio di noi la mette in pratica. Il desiderio non è né condannabile né punibile, condannabile in­vece lo è sempre l’azione. Sta qui la differenza tra una fantasia, anche criminosa, che resta fantasia, e il crimine che viene perpetrato. E chi sa quanti sono i crimini che sognano e nascondono, e talora compiono, i giudici impettiti che storcono il naso quando parlano di Brunetto. Non torcerebbe il pelo del culo di un bambino nemmeno se se ne sentisse bruciare dalla voglia. E che cos’hanno di più nobile, di più morale coloro che, con il consenso del padre, e la benedizione della Chiesa, non si vergognano di condurre all’altare una dodicenne? Nell’intimità di una conversazione tra amici messer Brunetto può manifestare le sue voglie con più spudoratezza di una puttana. Ma non è una puttana, e nemmeno un satiro. Ha solo scelto di assecondare le sue perversioni, ma solo se non fan­no male a nessuno. A volte mi viene il dubbio se siano davvero perversioni. La legge di Dio è fero­ce. Se non ama che gli uomini sottomettano l’anima e il corpo a desideri di animali, a depravati piaceri, perché ce ne istilla nel cuore il desiderio? Che male c’è nel piacere che non sottomette né umilia nessuno? L’animale prova piacere perfino a mangiare la merda, perché se a provarne piacere è un uomo sarebbe perversione? Dirai che sto perdendo non già la legge della Natura e di Dio, ma forse Dio stesso. Non è così. Ma vivo come se fosse così. Le prime volte che messer Brunetto co­minciò a parlarmi di sé con questa libertà, ebbi paura, credetti che volesse adescarmi. Non me ne sentivo indignato, e questo era strano, ma le sue parole mi turbavano profondamente. In una manie­ra che mi parve sorprendente, e chi mi spaventava, mi sentivo in qualche modo perfino lusingato, più che dalla sua confidenza, dall’eventuale desiderio di me che tale confidenza probabilmente ce­lava. Ma m’ingannavo. Messer Brunetto mi parlava così liberamente perché sapeva che io non avrei mai confuso il trasporto dell’affetto che mi dimostrava con la meschina strategia di una sedu­zione, né tanto meno avrei mai rifiutato quell’affetto per la condanna di un giudizio sulla sua vita. La sua immagine restava, per me, e resta, la cara immagine paterna di una guida morale, e morale proprio per la verità di una condotta che non nasconde la propria miseria, ma che da quella miseria non si lascia deturpare. Imparavo da lui che la radice di ogni giudizio, di approvazione o di condan­na, non nasce da una convinzione più o meno bella, più o meno forte, o dall’opinione diffusa che stabilisce ciò che deve essere il bene e ciò che invece è il male, ma dalla conoscenza delle cose, da uno sguardo che affonda dentro le cose. Sunt lacrimae rerum… Erano passati più di mille anni, e quella verità non è stata ancora smentita da nessuno. Proprio sulle pagine di Virgilio, di Ovidio, di Lucano, messer Brunetto mi faceva conoscere questa verità. Ecco perché mi raccontava anche le sue avventure. E sempre con la sua voce calma, uguale. I corpi dei giovinetti che allietano le sue notti, garzoni di maniscalco, apprendisti di pittura, scalpellini, muratori, birocciai, mugnai, contadi­ni, diventano, con le sue parole, un mondo separato dal nostro, angeli di un paradiso che può mo­strare aspetto d’inferno , giovani belli e muscolosi, procaci, arroganti, vanitosi, perfino civettuoli, assai diversi da quelle diafane figure che noi crediamo messaggere di Dio. Vedi, Guido, te che vor­rei trascinare lontano in un mondo simile, ma popolato di donne, un vascello che veleggi verso le isole Fortunate, noi due e Lapo, travolti dai baci e dalle carezze dei nostri angeli terreni, più terreni di quelli che cantiamo nelle nostre rime, ma con la stessa allegria degli angeli efebici o rudi di mes­ser Brunetto, te vorrei testimone di questa spensieratezza dei sensi, di quest’allegria dei corpi. E’ questo il punto. L’allegria del suo dilettarsi d’amore sospende il giudizio, almeno il nostro. Non so quello di Dio. Mi turba molto la necessità di una condanna. Come per tutti gli esclusi, perché nati prima di Cristo. Ma questo è un altro argomento. Il giudizio su messer Brunetto prevede un’analisi anteriore dell’atto d’amore. In base a quest’analisi il suo desiderio distorce, stravolge la legge della natura e di Dio. Ma come poi formulare un giudizio di condanna se ti accorgi che anche l’amore di messer Brunetto è amore? Egli, però, non vede, come vediamo noi, angeli nelle figure desiderate: alla sua mente gioiosa il desiderio offre soltanto lo spettacolo di corpi da contemplare, da ammira­re, da toccare e da godere. E i corpi egli li abbraccia, li stringe, li possiede. Come se l’anima si me­scolasse indissolubilmente e inestricabilmente col corpo, ne fosse anzi l’essenza inesprimibile, af­ferrabile solo con il piacere, il piacere che si dà e il piacere che si prende. Ogni corpo perciò lo atti­ra, ogni corpo è una visione da contemplare estasiati, una forma da studiare, una pelle da toccare, una bocca da baciare, un respiro da inspirare, uno zampillo di vita da succhiare per custodirlo den­tro di sé l’attimo della sua esplosione. Ogni corpo ha la sua grazia, il suo segno d’amore, ogni cor­po l’individuazione particolare dell’inimmaginabile idea che tutti li contiene e raffigura. In uno egli riconosce di quell’idea la bocca, in un altro gli occhi, in un altro ancora le mani, in un altro la se­greta voglia che le brache rigonfie nascondono. Ma nell’ultimo che ha intravisto per caso all’ango­lo di una strada ha subito venerato la compattezza delle natiche, le stesse che poco dopo ammira candide e sode stringersi e corrugarsi alla carezza leggera della sua mano che piano piano le divari­ca perché il suo sguardo possa inabissarsi nell’oscura profondità del giovanile inferno. Del più inerme, infine, quasi un bambino, intuisce il tumultuoso vigore che agiterà più tardi, una volta irro­bustito e infoltitosi l’inguine, l’infantile delicatezza che fa splendere la sua verga imberbe. Ogni particolare è un segno e ogni segno è figura d’amore. La memoria gli si riempie così di figure amo­rose. A differenza della nostra che invece è sempre il tempo fisso di un distacco o di un divieto. Messer Brunetto i suoi angeli non si limita a guardarli, li appaga e se ne appaga, mentre noi chia­miamo angelo la creatura che non può appartenerci o che abbiamo paura di avvicinare. Ma il mes­saggio di cui questa creatura dovrebbe essere l’angelo, la messaggera, appunto, ci diventa subito nella mente un intrico di schermi, un groviglio d’indecifrabili enigmi. L’allegoria che costruiamo è una ragnatela di allontanamenti, una ricognizione di perdite, in attesa dell’oblio. Non una sola volta tocchiamo la figura che ci smarrisce: toccarla, distruggerebbe l’angelo. Il che significherebbe anche la fine del nostro sfuggirci, non potremmo più nasconderci e mentirci. Oppure questo angelo nella sua vera forma è appunto questo nostro smarrirci e il suo messaggio di salute non ci fa ritrovare la salvezza perduta, ma ci fa delirare, ci muove verso l’ultima perdita, quella che ci annienta e ci fa dimenticare di noi stessi. Forse più per me che per te. Ma sento che di questo smarrimento, di que­sta perdita, non ho ancora toccato il fondo”.

Qui l’insonne tacque. Guido lo aveva osservato con crescente paura, aveva visto in quel volto emaciato più del consueto gli angoli della bocca a poco a poco storcersi in una smorfia di di­sgusto, le pupille incupirsi e dilatarsi, le guance smunte tremare. Lo sguardo s’era fatto torbido. Dietro le parole che ascoltava sentiva arrovellarsi nella voce un inferno di desideri incompiuti, mozzati sul nascere che, come la rigovernatura delle pentole di un’osteria nello scarico dell’acqua­io, gli si ammassavano in gola e otturavano la bocca, sbattevano contro i denti per sbottare tutti in­sieme dalla fessura delle labbra serrate. Gli appetiti lo devastavano con selvaggio furore e, inappa­gati, si vendicavano del godimento ripudiato con la rabbia di un’astinenza forzata. In quell’inferno, tuttavia, si riconobbe. E riconobbe l’affinità che li legava l’uno all’altro. Veniva fuori, di nuovo, scoperta, immedicabile, la simpatia emotiva che aveva creduto smarrita, la similitudine intellettuale che lo aveva adescato fin dal primo momento, già dalla lettura del sonetto in cui Amore, come vi­vanda prelibata, offre alla donna amata il cuore dell’amante e silenziosamente, senza passione, la donna se ne nutre. Riconosceva in quei versi la brama famelica con cui l’amore, contrariamente a ciò che comunemente si crede, più che l’oggetto amato, divora l’amante. Le lacrime con le quali poi Amore ipocritamente piange la morte del cuore divorato, né per lui né per l’amico, si erano più arrestate, e scorrevano ancora con insaziata ingordigia. Per quelle lacrime i piedi lo avevano quella notte trascinato fin là, nella casa dell’amico. Poco importava che l’interpretazione non gli fosse ap­parsa subito evidente. E che la questione rimanesse aperta, elusa l’interrogazione. Le lacrime non piangevano, infatti, una morte, ma il sopravvivere alla morte, la meraviglia di sentirsi ancora respi­rare dopo un distacco. La forza d’amore stava proprio in questo: che la morte, invece di spegnerlo, rendeva ancora più acceso il desiderio. E che cos’altro era stato, ed era ancora, il loro amore, che appunto un distacco, anzi cercarlo l’allontanamento, sospirarla la perdita, agognarlo e affrettarlo il rifiuto, in una parola precipitarsi avidamente tra le braccia della morte? Si sentì annebbiare la vista, salire dalle viscere, fino alla gola, un groviglio di spasmi, come la fitta lancinante di una lunghissi­ma fame; e sentì, furibonda, una voglia di gridare, di stringere freneticamente al petto l’amico, ba­ciarlo, e confessargli di morire, come lui, senza morire: una incolmabile lontananza separava in loro l’esperienza dell’amore e della vita. Oppure amore e vita s’imbrigliavano insieme in un intrico di desiderio e di perdita, di desiderio di perdere e di paura di desiderare, senza che mai si riuscisse a distinguere il confine tra desiderio e paura, illimitato, nel desiderio come nella paura, il mescolarsi e contorcersi della sofferenza e del piacere. Si alzò, comunque, spinto dall’impulso di buttargli le braccia al collo e, per nascondere la frenesia dalla quale si sentiva posseduto, cominciò a cammina­re su e giù per la stanza. Stettero così a lungo in silenzio, Dante immobile sulla sedia osservava i movimenti dell’amico, il quale ogni tanto si fermava e con il pugno di una mano batteva la palma dell’altra o si affacciava alla finestra e guardava fuori, nella notte. La commozione, alla fine, tra­boccò e lo travolse, proprio mentre guardava fuori: la città pareva morta, affondava nel silenzio, si udiva solo, ma lontano, il richiamo amoroso di alcuni gatti o, ancora più lontano, l’abbaiare affan­noso dei cani nei giardini solitari. Guido si avventò allora addosso all’amico, lo abbracciò e lo ba­ciò su una guancia.

“Sbigottimento”, gli sussurrò in un orecchio: “nient’altro che sbigottimento, è quello che noi chiamiamo amore. I Francesi l’orgasmo lo chiamano “piccola morte”. Non se ne sgomentano. Anzi lo cercano come un’esperienza da viverla con abbandono per studiarla meglio. Anche a ri­schio di un annichilimento. Come Lancillotto quando esita a calcare, sia pure solo con un piede, la carretta dell’infamia. In quell’attimo tutta la sua vita sta per essere oltraggiata, il suo onore violato, ma più che dalla paura di guardare l’abisso in cui sta precipitando, la sua mente è attratta dalla vio­lenza di un’ineluttabile vergogna. Sa benissimo inoltre che quell’attimo di esitazione lo perderà agli occhi di Ginevra, più che se si fosse buttato a corpo morto nel baratro dello svilimento termi­nale della sua figura di cavaliere senza macchia. Arriva per ciascuno di noi un momento come quello vissuto da Lancillotto, la sofferenza di credere possibile una scelta, una deviazione, dall’atto che sappiamo ineludibile, quanto l’ultimo della nostra vita. L’orgasmo, come una lacerazione della coscienza, anzi una perdita di se stessi, lo prefigura. Ce ne salva lo sguardo che allontana, il distac­co perfino dal proprio corpo che gode, nell’attimo del piacere: e guardarlo da fuori l’incendio che in quell’attimo ci brucia le viscere. Perché non bisogna abbandonarsi così ignudi e privi di consa­pevolezza al proprio annichilimento. Meglio, piuttosto, lasciarsi precipitare, sperimentare il terribi­le oscurarsi della coscienza e restarne tuttavia fuori, osservarlo, l’oscuramento, sentirlo salire dall’inguine agli occhi, E farne, di questo freddo sguardo, quasi uno stile di vita”.

Guido aveva mormorato le parole quasi dentro l’orecchio dell’amico, quasi lambendone il lobo con le labbra. Dante si svincolò dolcemente dall’amplesso, afferrò la testa dell’amico tra le mani e lo fissò diritto negli occhi, con durezza. Guido non sostenne lo sguardo e tolse le mani dalle orecchie, si svincolò dalla presa e si sedette di nuovo di fronte a lui.

“E quando avrai finito di guardare?” domandò Dante: “Quando, stanco di pensare una vita e viverne un’altra, ti coglierà desiderio di affondare, di toccare fino in fondo il limite del tuo annichi­limento, e proverai una gioia selvaggia a perderti, a dimenticarti di te stesso? Quando a oscurarsi non sarà la tua coscienza, ma il desiderio, anzi il bisogno di averne una? Quando sentirai dentro di te, nella tua mente, non già fuggire la vita, ma la speranza di una fine? E gli attimi, tutti gli attimi della tua vita, ti appariranno tutti uguali, tutti ostinatamente accaniti a ripeterti sempre lo stesso smarrimento? a buttarti sempre nel baratro di un annichilimento provvisorio, mai l’ultimo, mai quello che definitivamente ti annienta? Quando ti accorgerai di tremare non più di paura, ma di una strana e insperata ebbrezza? E quell’ebbrezza sentirai essere l’unico attimo in cui ti sembrerà di sentirti finalmente vivo, e vivere con pienezza la tua vita? Non ho paura della morte, ho paura se mai del desiderio di morire, dell’ansia di conoscere anche questa esperienza. Non fosse altro, per interrogare i morti”.

“I morti non parlano, i morti non sono niente, vivono soltanto dentro di noi”,

“Appunto: e in quale altro luogo potremmo interrogarli?”

“Essere fuori della vita, vivendo, e così guardarsi vivere: è questo che vuoi dire?”

“No: guardarsi morire, così come dovettero vedersi morire i soldati uccisi a Campaldino, ma non una volta per tutte, come accadrà l’ultimo giorno, bensì assai prima, a metà della vita, di giorno in giorno, d’ora in ora, di momento in momento, come se quel giorno, quell’ora, quel mo­mento fosse l’ultimo. Vedere, come in una visione ascetica, il proprio sangue allagare la terra. E ri­conoscerlo, e sentirlo scorrere via dalle tue vene, abbandonarti. Morire dissanguati, sembra, non fa male. Ecco perché molti suicidi preferiscono svenarsi. La vita ti abbandona a poco a poco, quasi con dolcezza. Senti, però, che quella dolcezza annuncia e anzi prepara la tua fine. Allora senti salir­ti dallo stomaco alla gola un rigurgito di pianto che ha il sapore del tuo sangue. E ti sgorgano dagli occhi silenziosamente sulle guance interminabili fiumi di lacrime”.

“ Ma tu questo come lo sai?”

“Non ti sei mai sentito, qualche volta, morire dentro? almeno una, quella che t’ha colto nel momento di maggiore desolazione, di più disarmata sofferenza? Ma morire non già nel piacere del coito, cercato forse per dimenticare il dolore che ti annienta, bensì morire per davvero, sentire che stai lasciando il mondo. Sentirti, per esempio, mancare lentamente dopo un lungo e ostinato digiu­no, una penitenza che t’infliggi più per dimostrare a te stesso la tua forza di volontà, il disprezzo del dolore, che per devozione di qualche santo, o amore di Dio, della Madonna”.

“Sai bene che io non faccio digiuni né per devozione dei santi né tanto meno per amore di un Dio o di una Madonna, che in ogni caso non sarebbe mai quella impalcata su un altare in una chiesa, ma qualcuna di quaggiù, che magari l’ho chiamata a tenermi allegra compagnia in una bar­ca, lontano dalla costa”.

“La sconterai, un giorno, questa tua indispettita arroganza. E non otterrai grazia nemmeno dagli amici, quando ne avrai bisogno. Ti lasceranno solo per questo: perché hai voltato le spalle alla loro fede, voltandole a Dio”.

“E’ Dio che le ha voltate a me, che mi ha tradito. Lasciandomi tra le braccia di un Dio più spietato di lui. E che alla fine avrà ragione di me. Sento, infatti, che in qualche modo sono già mor­to. Ecco perché non so che cosa potrebbe essere sentire il mio morire. Perché è già accaduto, ma non mi ricordo quando”.

“Dio non ti ha voltato le spalle, non ti ha tradito. E’ solo la tua superbia che te lo fa pensare o sentire”.

“Forse. Ma tu non mi hai spiegato come fai a sapere che morire dissanguati è una morte più dolce di qualsiasi altra”.

“Non più dolce, ma meno dolorosa”.

“Spiegami”.

“Un veleno ti brucia le viscere, l’impiccagione ti fa soffocare, il rogo ti consuma la pelle addosso tra infiniti tormenti, lo squartamento ti apre il torace e il ventre e senti strapparti via con violenza ancora vivo le viscere, una ferita ti lacera la carne, i suoi margini friggono come se l’olio rovente li bruciasse. Scorrendo via lentamente, il sangue invece ti toglie a poco a poco le forze e con le forze ti toglie anche la sofferenza di sentirti finire”.

“La sofferenza del corpo, forse: ma non la paura della mente”.

Guido fece una smorfia. La sua bocca si strinse con disgusto doloroso all’idea di una dol­cezza del morire. Provò una tenerezza da lungo tempo non più provata per se stesso e per l’amico. Come se quell’idea di finire già si realizzasse nel distacco che in quel colloquio insonne sentiva aprirsi sempre più profondo tra di loro, mentre là fuori, nel buio, nel grande silenzio della notte, chi sa quanti ora morivano davvero e non riuscivano a fermare il volo inesorabile dell’angelo che scen­deva a troncargli sulla fronte lo stame della vita. Dante notò quella smorfia, anzi quel ghigno di re­pulsione, ma finse di non accorgersene, perché gli si era ormai dispiegato il senso di quella repul­sione: non era destata dal Dio che Guido ostentava di bestemmiare, bensì proprio da lui, Dante, dall’amico che non nascondeva più la propria distanza dai sentimenti condivisi di un tempo. Se Guido, ignorando l’ultimo tratto di delicatezza ancora esistente tra loro, glielo avesse chiesto: ma siamo ancora amici? e ne avesse preteso una spiegazione, Dante non avrebbe saputo che cosa ri­spondere, o avrebbe dovuto confermare quell’impressione di distanza, riconoscendo che il distacco era già avvenuto.

“Ogni momento della tua vita è già morire”, ricominciò: “muore il tempo vissuto, il pensie­ro balenato, muore l’idea di amicizia che prima vivacizzava la tua giornata e la riempiva di legami supposti indissolubili”. Tanto valeva dichiararle subito le intenzioni nemmeno poi troppo nascoste di prendere le distanze dal comportamento tenuto fino allora, con le donne e con l’amico. E prose­guì: “Voglio toccare, nel momento in cui sento la vita abbandonarmi, o che credo di sentirla abban­donarmi, voglio palparlo, per così dire, il senso di tutta la mia esistenza. Voglio capire, fino in fon­do, fino alla fine, fosse pure una fine di dannazione, che cosa si può essere, che cosa si può fare di se stessi. Se fino a quel punto ho sbagliato, ricominciare da capo. Ma non ricominciare e basta, ignorando l’errore commesso. Bensì riconsiderare tutta la mia esistenza e l’esistenza degli uomini sulla terra, per ridefinire il percorso della mia vita, alla luce della vita di tutti gli altri, dei viventi e dei morti. Non fraintendermi”. Ma sapeva invece che l’amico l’avrebbe frainteso, anzi lo aveva sempre frainteso. “Non inseguo la cupezza di una vita segnata dalla morte, l’orrore di pensarmi già morto mentre sono in vita. No. Voglio ben altro. Voglio capire, da quel punto, dal punto della mia morte, che cosa sono io, che cosa è tutto il mio tempo, lo spazio di tempo che mi resta ancora da re­spirare, come se il mio respiro e il tempo fossero la stessa cosa, il tempo appunto del mio respiro. Da qui a mille secoli di me non resterà forse nemmeno il ricordo, e tuttavia in quel battito di ciglia ch’è il mio stare nella durata di una vita, la mia sosta nel tempo, voglio riconoscermi, capire quanto di me è veramente mio e mi sarà concesso di viverlo, e quanto invece non mi verrà mai concesso non solo di sperimentarlo, ma perfino di pensarlo, e pensarlo mio. In ogni istante, capisci? io posso cambiare, posso diventare diverso da quel che sono. Non sono invidioso, e nemmeno ipocrita o as­setato di sangue. Ma chi ti dice che io non possa un giorno invidiare la sorte di chi è più felice di me, di chi non è costretto a implorare la propria sussistenza, perché nessuno gliela minaccia? O che non mi veda costretto a mascherare i miei pensieri, perché rivelati potrebbero mettermi in pericolo? O che non provi almeno il desiderio di eliminare un avversario potente, se non ho né la forza né la volontà di ucciderlo? Tutto questo può succedere, mentre vivo. Tranne che da quel punto in poi. Da quel punto la tua vita è decisa una volta per sempre. Ma se da vivo cambio, perché divento un altro da quel che sono? E se non cambio, che cosa di me rimane? Nella mente posso giudicare le mie azioni e quelle degli altri, individuare, per me e per gli altri, la categoria che definisce lo stato, il giudizio che premia o condanna. Ma prima di agire, nell’attimo in cui la mia azione non è ancora decisa, e forse nemmeno desiderata o pensata, di quante e quali azioni posso essere capace? Chi sa, forse di tutte. Non hai mai desiderato di uccidere qualcuno? Non in combattimento o in un duello, e non un nemico: ma uccidere, così, solo per il gusto di togliere la vita, per la sensazione di sentirti potente come Dio. E, spaventato da questo desiderio, non hai mai sentito l’impulso di uccidere al­lora te stesso? Magari perché non sopporti di essere calunniato e non hai abbastanza fegato per uc­cidere il calunniatore o la tua coscienza te lo impedisce. Oppure, dall’alto di una torre, per esempio quella del Mangia a Siena, guardando in basso sulla piazza, non ti sei mai sentito assalire dall’impulso di saltare, buttarti giù, lasciarti cadere nel vuoto? Vedi subito il tuo corpo sfracellato sulla pietra, la gente che accorre. Tuttavia non inorridisci ancora, anzi quasi ne sorridi, come di un’idea bizzarra, di uno scherzo. Senti però intanto che il tuo corpo comincia a oscillare, attratto dall’aria, dal vuoto. Allora hai un repentino sussulto, hai paura, ti sembra di destarti da un incubo. Ti scosti subito dal margine del muro, rientri nella torre, scendi d’un fiato le scale, brami toccare con i piedi il pavimento di pietra sul quale avevi visto poco prima fracassarsi il tuo corpo. Cammi­ni, ti senti leggero. Incontri un amico, lo prendi sotto braccio e parli parli parli. Sei rientrato nel tempo. Ma quell’attimo, l’attimo di un’eternità simile a quella dell’oltretomba, a quale tempo ap­partiene? a quale parte di te? e da dove ti arriva?”

Guido sentì la propria tenerezza per l’amico diventargli struggimento. Ma si contenne. E disse:

“Tu cerchi Dio. Non come me, che non l’ho perduto, perché non l’ho nemmeno cercato. Ma come uno che l’abbia perduto. Lo cerchi perché vuoi capirlo. La tua ricerca passa per ora attraverso qualcosa che assomiglia al rifiuto di Lui o quanto meno al rifiuto del suo giudizio. Tu non cerchi le cose, la vita, l’amore. Cerchi un giudizio sulle cose, sulla vita, sull’amore. Un ordine che ne dia la spiegazione. Un punto fermo, una certezza che collochi tutte le cose, e soprattutto gli uomini, al loro posto. Ma poiché rifiuti al contempo anche le facili spiegazioni, le comode illusioni, le teorie che spiegano tutto senza dar conto di nulla, la strada ti si presenta irta di ostacoli, lunga e difficile. Il tuo ordine deve poter spiegare anche il disordine, la tua certezza illuminare l’ignoto, il tuo Dio rendere ragione del male. Allora provi a tuffarti nel disordine, a lanciarti nell’abisso dell’ignoto, a scandagliare i territori del male, per rinvenire il filo immateriale che ricongiunga all’ordine, alla certezza, al bene non solo te stesso, ma l’intero universo. L’angelo che amavi era per te un’immagi­ne di questo filo, la cucitura che congiungeva gli opposti mondi dell’anima e dei sensi, recando sul­la terra il messaggio d’un superamento, la speranza d’una trasfigurazione: testimoniava, col suo solo esistere, la necessità di una trascendenza. Messaggero di tale messaggio, l’angelo doveva di necessità essere immortale. O almeno manifestare all’eletto qualche segno visibile della sua im­mortalità. Invece, come tutte le creature, anche l’angelo muore e il suo corpo gli mostra non già i segni di un passaggio all’eterno, ma le tracce repulsive del suo putrefarsi. La morte che avevi invo­cata come ritorno alla giustizia di un ordine, alla bellezza di un universo armonioso, in definitiva come un viaggio all’eterno, un itinerario della mente a Dio, ti appare invece ora, e brutalmente, come il decomporsi di un corpo, il precipizio dell’angelo nell’inerte continente dell’inanimato, la materia non ha più occhi, né orecchie, né bocca, non vede, non ascolta, non parla, e non reca nes­sun messaggio di salvezza, offrendo solo lo spettacolo del proprio annientamento. L’angelo si de­grada a materia senza forma, un corpo muto, sordo e cieco. Lo distingue da un sasso solo il tuo ri­cordo, e il tuo pianto. Che liberazione, se tutto questo fosse soltanto l’apparenza di qualcos’altro che continua! Lo scandalo del tuo Dio non è la sua morte sulla croce, ma che tutti i morti prima e dopo di lui sono solo morti, qualcosa che non esiste più”.

“Guido!” urlò l’insonne: “tu vuoi vedermi questa notte piangere e disperarmi davanti a te, rotolarmi come una biscia ai tuoi piedi e gridare come un giustiziato ch’è vero, che dopo la morte non c’è più niente. L’ho fatto, e per tutte queste notti, senza dormire, da solo, in questa stanza, bat­tendo i pugni sullo scrittoio, sbattendo la testa contro il muro che ti sta alle spalle, urlando come un ossesso il nome di chi non poteva rispondermi, desiderando perfino il suo rifiuto, il suo disprezzo, ma almeno un cenno di risposta. Sono sazio e stanco di solitudine, svuotato, ubriacato, lacerato, inebetito dalle lacrime e dalle grida. Hai detto molte cose vere di me, ma la ragione del mio dispe­rarmi ti sfugge, come ti sfuggiva, al nostro primo incontro, il senso di quella mia paurosa e profeti­ca visione. Devi scendere più dentro, guardarmi più a fondo, là dove nasce la speranza che ora mi sembra smarrita. Mi tocchi dove ancora non oso guardare io stesso. Parlavo di un angelo salvifico o di un demonio che abbagliandomi mi trascinava alla perdizione? E’ tutto ancora impreciso, inson­dabile. Ma se vuoi conoscere la prima radice del mio amore, ti parlerò piangendo finché il ricordo di tanta dolcezza, nella mia attuale miseria di un oggi concluso, non tolga virtù alla mia mente di pensare e voce alle mie parole. Avevo nove anni quando la vidi per la prima volta. E tutto quanto fino a quel momento mi era apparso un groviglio di emozioni inesplicabili e confuse, un impulso inspiegabile, un sentimento oscuro, di cui ignoravo le origini e lo scopo, di cui ignoravo anzi perfi­no l’oggetto, assalito com’ero sempre più spesso da un indeterminato ma dispotico desiderio di guardare ed essere guardato, di toccare, toccarmi, ed essere toccato, una feroce brama di sentirmi sulla pelle la pelle di una mano, di una guancia, di rabbrividire al contatto di una bocca, sentirne con sofferenza il respiro sulla faccia, e giù, poi, tra le gambe, assaporare la dolcezza impaurita di carezzarmi o di carezzare qualcosa, una parte di qualcuno che non conoscevo ancora e non sapevo anzi nemmeno se, ragazzo, ragazza, o perfino uomo, o donna, incontrati per via, o sorpresi a ba­gnarsi nudi nel fiume, quando vagavo per la campagna, e mi si destava allora il piacere di mostrar­mi nudo anch’io, e di scoprire, accarezzare la nudità degli altri, non sapevo, dico, se proprio le loro ancora indistinte figure fossero l’ossessivo oggetto di quella mia disordinata e fantasticata libidine, tutto quanto dunque mi era parso inesplicabile fino a quel momento mi divenne improvvisamente chiaro, insostenibilmente bello, e mi pareva il suo sogno la cosa più giusta che io potessi fare o che altri potesse farmi. E aveva un nome. Questo nome, nove anni dopo, mi spalancò, con ardore più consapevole, la vera essenza della mia beatitudine o, meglio, mi sprofondò nella vertigine di molte e illimitate beatitudini. L’intensità di questo rinato desiderio era tale, che quasi restavo pago del mio solo desiderare. In questo appagamento riconobbi, o mi parve di riconoscere, il punto in cui l’anima si congiunge ai sensi. Il mio amore si racchiuse perciò tutto in questo mio desiderare. Que­sto era per me il mio angelo, e questo mi pare, oggi, perduto: e mi pare che tutto quel mio desidera­re fosse vano, perché non l’angelo oggi piango, ma la donna che quel mio desiderare mi nasconde­va”.

Qui tacque. Aveva parlato quasi senza voce, sussurrando con fatica le parole, sillabandole, come se strapparle dal silenzio in cui parevano volersi riprecipitare ancora prima di essere pronun­ciate gliele facesse uscire dalla bocca meno dolorose, perché sminuzzate, indebolite, ridotte a un soffio, a una timorosa e perfino troppo eletta apparizione, quasi solo il gemito sostenuto dall’alito del respiro che, impadronendosene e trasformandolo in puro suono ancora privo di significato, lo contraeva nell’incorporea e inafferrabile trasparenza del fiato emesso timidamente tra i denti dalle labbra socchiuse. Guido avvertì, dal prolungarsi del silenzio, che per il momento il dolore dell’immedicabile ferita lo gettava in un buio informe, dove i ricordi si facevano incerti, e da cui non emergevano che conati d’impotente difesa. Nonostante le molte, forse troppe parole consumate per raccontare l’irrapresentabile, o forse proprio perché ci si vedeva costretti a servirsi delle parole per suggerire almeno un’ombra della propria emozione a evocare un ricordo o a sentirlo evocare da chi tentando di disegnarne la rete delle sue figure vi restava impigliato come una mosca nella ra­gnatela, la sostanza della situazione tra loro due consisteva nella sgradevole ma inevitabile consa­pevolezza che assumere un atteggiamento qualsiasi di fronte all’altro non era solo una questione di correttezza logica. La logica, anzi, veniva sconfitta sul nascere. No, si trattava di qualcosa che pre­cedeva o seguiva o trascendeva la logica. Il che non voleva significare affatto che la situazione mancasse di razionalità, e che dunque non se ne potesse dare una spiegazione, come se la logica oc­cupasse l’intero campo della Ragione e una cosa illogica, pertanto, risultasse anche irrazionale. Che cos’ha d’irrazionale camminare, dormire, mangiare, fare l’amore? o innamorarsi, provare affetto per un amico, amare la moglie, i figli? o ancora: ammirare un affresco, leggere commossi un so­netto, entusiasmarsi alla vista della marina che si scorge tremolare all’orizzonte dopo una lunga e faticosa scarpinata tra i colli cosparsi d’olivi? Guardata da un altro punto di vista, questa loro situa­zione, non vacillava la certezza, o perfino il ricordo della certezza, che aveva infiammato i loro ver­si, e non veniva da chiedersi dunque se ci si trovasse davvero alla presenza – perduta – di un ange­lo? E quindi, prima o dopo la ferita, o piuttosto una spaccatura, una voragine nella quale sprofonda­vano insieme alla logica anche le immagini del ricordo, il desiderio stesso di ricordare o la sua spontanea, quasi inavvertita germinazione, dentro la quale, anzi, una volta sprofondati, perfino de­siderare di ricordare diventava sofferente fatica, quasi non bastasse più desiderare, ma bisognasse volere, volere, volere, e anche così fosse troppo poco per sottrarsi al sonno, all’oblio, all’ansia di dimenticare o almeno comprendere la vastità, la profondità di quella ferita, di quella voragine, biso­gnava che venisse, profondamente, da tutti i punti del corpo, e si fissasse dolorosamente nel cervel­lo, illimitata, disperata, una volontà di volere ricordare, prima o dopo, dunque, quella ferita, non tanto l’angelo, quanto il desiderio di un angelo andava spiegato, analizzato, scorticato, spolpato fino all’osso della sua irrealtà, a quel grido d’impotenza che l’amico aveva minacciato di vomitar­gli addosso, ma che si era affrettato anche, subito, a trasfigurare nel sussurro di un’evasiva e incon­cludente confessione. Doveva insistere, incalzarlo. Se le lacrime parevano acquietarsi nella nostal­gia di un sospiro, doveva mostrargli, in tutta la sua devastata e devastante violenza, la forza distrut­tiva dei sospiri. Non basta la perdita di un angelo a distruggere una vita, se quella perdita lacera con angoscia la mente, ciò avviene perché la presenza di un angelo già prima della sua scomparsa gene­ra angoscia nell’animo di chi lo guarda. Ogni angelo è terribile. Terribili sono i suoi occhi, la sua bocca, la voce, le mani. Si avverte nel corpo, fino al midollo delle ossa, la trafittura del suo sguar­do: quasi che con lo sguardo l’angelo succhiasse lo spirito vitale e del corpo trafitto lasciasse sol­tanto l’involucro, un fantoccio, un automa che cammina senza vita, anzi fuori della vita. E quando si suppone o s’immagina di sentire sulle proprie labbra, vorticosamente desiderata, la pressione del­la sua bocca, più che sconvolti si resta irreversibilmente mutilati, ma non di qualche parte precisa­bile del corpo, del proprio o di quello dell’angelo, bensì semplicemente mutilati, si avverte il senso di una mancanza, di una sottrazione, ci si sente tolti a se stessi pur permanendo integri, si percepi­sce il proprio respiro come il respiro stesso della mutilazione, o piuttosto come il processo inarre­stabile, perenne, di un mutilarsi, di un indefinibile, penoso strapparsi da se stessi. Ma allora, si sentì urlare nella testa, quale ordine, quale legge, quale forma o figura, nonché cercare, ma anche solo supporre, e sia pure la legge, l’ordine, la forma e la figura di un groviglio, di un inestricabile intri­co, in ciò che appariva, e forse era, per i sensi e per la mente, come il perpetuarsi puramente casua­le dell’imprevedibile, del disarmonico, dello sregolato, dell’ingovernabile, del gratuito? E perché mai, appunto, l’imprevedibile, il disarmonico, lo sregolato, il gratuito, solo perché incomprensibili e inafferrabili, non avrebbero il diritto ad essere riconosciuti reali con la stessa evidenza di tutto ciò che trova una legge, un ordine, una forma? E questa legge, quest’ordine, questa forma che credia­mo di scoprire e riconoscere in altre cose, sono poi tali? o anche qui l’irruenza del desiderio si so­vrappone alla pacatezza dell’analisi e ci fa riconoscere una regola solo perché la desideriamo per poterci così confortare con l’illusione di non cedere ai colpi del caso, di non essere talmente fragili da non riuscire a respingere e sgominare nemmeno le nostro paure? Armati da questa illusione, anzi, le nostre paure le esorcizziamo, le delimitiamo, proprio per il fatto che le regole da noi scova­te sembrano dichiararle infondate o addirittura irreali, in ogni caso false. Restano, però: occultate, zittite, ma restano. E risorgono, c’insidiano. Nessun’analisi, nessuna deduzione può sgominarle, perché la premessa del sillogismo non è reale, ma reali sono le paure. Crederle irreali o false non dice niente riguardo al fatto che ne siamo dominati. Forse a ragione, dominati. Sta tutto in quel for­se. La regola, invece, vorrebbe eliminare tutti i forse. Guai dunque a scoprire che il nostro castello logico non è altro che un offuscamento del dubbio, il mascheramento della nostra incapacità di ac­certare qualsiasi cosa, e pertanto ci è sbattuta in faccia l’impossibilità di trarre conclusioni reali dai nostri sogni. L’amico si trovava proprio a questo punto. Il suo anelito esasperato a dubitare di tutto nascondeva un’insaziabile fame di certezze. Ecco perché lo stile non gli bastava più e s’affannava perciò a cercare nei ricordi corrispondenze inavvertite, contraddizioni irrisolte, e a trovarvi la con­solazione di una smentita. Aveva ragione: lo stile è di chi non ha più fiducia nemmeno nello stile. Averne uno, allora, diventa il piacere di giocare con l’impalpabilità delle apparenze, trattare il vuo­to come materia solida. Decise d’interrompere quel silenzio che ormai s’alzava tra di loro come un’invalicabile barriera. E cominciò:

“Hai sempre voluto credere che le idee fossero più forti, e più reali, della realtà. Anche nel­la tua disperazione, sei capace d’illuderti”.

Sentì, nel pronunciare queste parole, che lo assaliva una voglia di sfida, una volontà cieca di punire quell’arroganza che assumeva i panni dell’umiltà, e demolire a una a una le esperienze dell’amico, anzi le raffigurazioni che l’amico si era costruito di quelle esperienze, per udirlo, final­mente, confessare la propria fragilità, riconoscere l’impotenza della Ragione a dominare la vita, ammettere la sterilità d’ogni idea di speranza e di salvezza. Combatteva le angosce e le paure reali con un esercito fantasma di cavalieri dell’eternità. Non amava Dio, Dio era piuttosto lo scudo che gli permetteva di respingere il dolore, il muro innalzato per non guardare nel vuoto. Riprese il di­scorso dal punto in cui l’amico l’aveva lasciato sospeso:

“Il tuo angelo, Dante, era una donna. E perciò era un angelo. Ciascuno di noi può essere per qualcuno un angelo. Anche il demonio, secondo la Scrittura, era per Dio un angelo. E, chi sa, lo è ancora. I nuovi angeli non sembrano soddisfarlo troppo, se ha bisogno, secondo il Talmud, di crear­ne continuamente altri, magari istantanei, che vivano l’attimo di un inno, di un trasporto d’amore, e scompaiano, ritornando nel nulla dal quale li aveva evocati, come se anche per Lui l’amore non sia che l’esperienza del nulla, o piuttosto di un annientamento”.

“Ma questa è eresia!” protestò l’insonne.

“Ecco! Ti pareva! Di nuovo leggi, confini, regole ineludibili, ortodossia. Può darsi che sia un’eresia affermare l’esistenza di angeli che durino solo l’attimo di un inno. Ma prova a smentirmi, se ci riesci. E prova a confutare l’inesistente. Non è però di questi angeli che voglio parlarti, ora. Ma di quelli che ci si manifestano quaggiù, sulla terra. Nell’esistenza di ciascuno di noi appare, a un certo punto della sua vita, un angelo. Il nostro desiderio di essere da lui guardati e travolti è così forte che si è infelici fino a che per davvero lo s’incontra o ci s’illude d’incontrarlo. Ma ogni angelo è terribile. Non si lascia né prendere né guardare. Accende desideri, senza esaudirli. Vuole toccarti, ma non permette di essere toccato. Toccarlo, lo ucciderebbe. Ecco che allora si allontana, si assen­ta, lascia il desiderio aculearsi, e che poi trafigga e consumi l’eletto. La dolcezza di tale consumarsi trasfigura la morte, facendola sembrare una rinascita della vita. Tutto qui, il nostro stile. Il suo co­dice non è che un’allegoria di ciò che sentiamo. Ferma per una volta il tuo pensiero al momento di un orgasmo. Ma già! l’angelo non ha niente a che vedere con queste bassezze del corpo, con queste miserie animali, nemmeno quando sognandolo di notte ti accorgi svegliandoti di avere bagnato il letto. Guardiamo allora tutta la questione (davvero un interrogare, un chiedere e cercare spiegazio­ni, senza sapere se ci sarà dato di trovarle), guardiamola, dunque, da un altro punto di vista. Co­minciamo dalle definizioni. Ma prima voglio raccontarti una storia. Mi hai parlato di Messer Bru­netto. Sembra averti molto colpito la sua disponibilità al piacere: una sorta d’innocenza della car­ne”.

“L’innocenza non è la sola virtù di Messer Brunetto. Le sue notti sono comunque colpevoli, e certo mi turbano. Ma l’immagine dei suoi giorni è quella di un’intelligenza che si apre al contatto delle cose e delle definizioni delle cose. Accumula tesori di erudizione non per orgoglio, ma per ca­pire gli altri e se stesso, e indicare, a se stesso e agli altri, dietro la forma delle parole, la sostanza di ciò che vede e apprende. Conoscere per lui è anche scegliere una parte piuttosto che un’altra, di­stinguere valori, rischiare giudizi che la sua condotta di vita non smentisce: Firenze non è mai stata per Messer Brunetto un esercizio di stile”.

“Perché colpevoli le notti? O colpevole il piacere di quelle notti? Se, invece, anche l’inno­cenza del giorno non fosse tale? Non voglio dire che dovresti o non dovresti considerare colpevoli anche i suoi amori, bensì che nel suo caso le categorie di colpa e d’innocenza non sono pertinenti. Messer Brunetto non è innocente, perché non è nemmeno colpevole. Chi sei tu, per credere di pote­re giudicare la sua condotta, i suoi amori? In base a quali principi o, peggio, a quali valori? La vita dei più come può essere regola per chi non ne condivide le scelte? Se la maggior parte dei fiorenti­ni stabilisse una mattina di non mangiare più pesce, diventerei colpevole se continuo a mangiarlo? in base a che cosa un’azione è valore e l’altra no? o quale principio mi costringe a considerare sba­gliata l’azione che per i più è sbagliata?”

“E sei tu a muovermi un’accusa , tu che poco prima t’eri impalcato a giudice della mia vita, accusandomi di viltà?”

“Viltà intellettuale, non morale: è diverso”.

“Il termine che usi non definisce un campo intellettuale, ma circoscrive un comportamento morale”.

“Tutte le parole hanno una connotazione morale. Ma io scrivo proprio per distruggere nelle parole questo potere di condanna. Se non facessi così, sarebbe per me meglio tacere. O credi che l’obbligo di uno scrittore sia di assentire a un ordine e dissentire da un’infrazione? Separare ciò ch’è lecito da ciò che non è permesso? Pensi davvero che il compito di chi scrive consista nel rista­bilire l’armonia del mondo compromessa dalle azioni degli uomini? E non è anche scrivere un’azione? Il mondo è talmente pieno di disarmonia e di disordine che per rimetterlo in sesto non bastano i giudizi di condanna o di assoluzione. Penso anzi che raccontare questa disarmonia, guar­dare in faccia il male che ci assale da tutte le parti, anche da noi stessi, dalle nostre passioni, ce ne liberi, ce ne faccia guarire. O se non ne usciamo migliori, diventiamo almeno più consapevoli. La­sciali ai preti la furia di fustigare i vizi. I vizi, uno scrittore li analizza, li rappresenta, non li giudi­ca. Ma dimmi: è per te una ragione morale quella che mi spinge a bucare le pance dei Neri?”

“La loro ingordigia ti ripugna almeno quanto disgusta me”.

“Oh certo. Ma ci sono molte altre cose che ugualmente mi ripugnano dei Bianchi. Ma non per questo faccio un buco nelle loro avide pance, avide almeno quanto quelle dei Neri”.

“E i Ghibellini?”

“Sono stati sconfitti, Non costituiscono più un problema, né tanto meno un ostacolo. I Bian­chi sono avidi quanto i Neri, ma pavidi, anche. Perciò non fanno paura. Soccomberanno: hanno il cuore troppo tenero e gli occhi troppo attenti agl’incarichi lucrosi. Si perdono inoltre dietro alle mi­nuzie legali. Con tutto ciò la loro ignavia è preferibile all’arroganza e alla prevaricazione dei Neri. Con i Bianchi al potere, i Neri possono continuare a badare ai loro affari, possono anzi fare tutto quello che vogliono. Il giorno che i Neri prendessero il potere, nessun Bianco potrebbe restare den­tro queste mura o sarebbe costretto a mascherarsi da Nero”.

“L’Imperatore…”

“Non farà nulla. E’ occupato a districarsi da altre e più pericolose faccende che le beghe do­mestiche di due famiglie. Firenze apprenderà presto a sue spese a non fidarsi di proclami e manife­sti, venissero pure dal Papa o dall’Imperatore in persona. E tu, da parte tua, visto che sembri volerci mettere le mani anche tu, capirai ben presto che sperare quaggiù, e soprattutto a Firenze, nella vit­toria della Giustizia, o che a imporla possa essere lo stesso Imperatore, è come sperare che un usu­raio diventi generoso, e gli usurai in questa città pullulano come le mosche”.

“Ma non c’è pace, senza giustizia, sulla terra”.

“E perché mai la terra dovrebbe avere pace? Tu, ce l’hai?”

“A te che sembra?”

Guido fissò negli occhi l’insonne. Gli venne da ridere. In tutta quella tristezza, quella paura, quell’insultarsi senza ragione, quello smarrimento nelle selve intricate dei desideri, come se la terra mancasse sotto i piedi, avvertiva qualcosa di comico. Chi erano mai quei due giovani e vanitosi poeti della piccola nobiltà fiorentina per immaginarsi di salvare il mondo dall’ingiustizia che, con loro o senza di loro, lo devasta? Uno dei due, il più giovane, lacrimava come una fontana ingorgata per una donna che non aveva mai toccata nemmeno con la punta delle dita. L’altro, che si era ac­corto, per un sonetto, di amare quel giovane come un amico insostituibile e ora soffriva per quello che gli pareva uno sgradevole, ma inevitabile distacco, era un uomo al quale le donne, tutte le don­ne, piacevano molto, ma gli mettevano paura. E questi due sbandati, un marmocchietto piagnuco­lante e un uomo già maturo che però ragionava come un adolescente, avrebbero avuto la grandezza intellettuale e la forza politica di cambiare il mondo o, se non il mondo, almeno Firenze? Il bello era che mentre l’adulto nutriva qualche dubbio, lo sbarbatello ci credeva. Non era da ridere? Ma si disse che quella risata gli pareva un modo perfino troppo facile di scrollarsi dalle spalle un incarico increscioso: persuadere l’amico a ripigliare la vita d’un tempo. No, non c’era pace sulla terra. Ma non c’era nemmeno tra di loro. I rapporti umani sembrano regolati da finzioni, da menzogne, che nessuna professione d’amicizia può smascherare. Il bacio di un amico può quasi sempre assomi­gliare al bacio di Giuda. Il contatto delle labbra sulla guancia non è meno reale, se a provocarlo è un moto di affetto o la volontà di dissimulare il proprio tradimento. Ma chi era Giuda tra i due? e chi il Salvatore?

L’insonne gli parlò con voce sommessa, quasi impercettibile.

“La scomparsa di un amore fa perdere la speranza che possa esistere un amore, tra un uomo e una donna, o un’amicizia, tra uomo e uomo. Ci si accorge che niente di ciò che si pensava condi­viso, pensieri, sentimenti, scelte di vita, passioni politiche, era davvero comune. Si dice dormire in­sieme, ma quando dormi con tua moglie, ciascuno dorme solo, anche se il corpo scalda l’altra metà del letto. Dentro di te, ciò che si spezza, alla separazione, non è solo l’improvviso oscurarsi dell’occhio che cerca di guardare nel tuo cervello. La nostra storia di amore è una storia di esiliati. Ci credevamo eletti solo perché non vedevamo le zuffe fuori della finestra. E’ da molto che guar­darmi non mi è più bastato: la morte dell’angelo ha tolto il tappo dall’acquaio otturato. Nemmeno il mio amore può avere un senso se fuori di queste mura nessun amore è veramente un amore. Altri pianti, altro sangue, e nuovi tormenti, nuovi tormentati, là fuori, aspettano da me che ne spieghi l’origine. Il mondo è sottosopra. Non ho nessuna voglia di rimetterlo in sesto. Ma il mio rifiuto mi scompagina le idee. Che peso hanno però le idee, anche le idee scompaginate, sugli accidenti del mondo? Noi, Guido, vivevamo una vita di esilio. La nostra intelligenza, la nostra poesia, ci faceva credere di starne fuori, dalla miseria, dalla mediocrità di Firenze, dell’Italia, di non essere toccati dall’inesistenza dell’Impero. Invece là fuori la gente si azzuffa per un posto alla corsa del palio, si divide per chi deve entrare prima nella sala del consiglio, si ammazza per uno sgarbo. Che scoppi un tumulto o si scateni addirittura una guerra, non cambia niente: crea confusione, provoca nuove guerre, e scorre altro sangue, s’infliggono nuovi tormenti, il ricordo di vivere diventa questo guar­darsi divisi, mutilati, animali pieni di rancore e di odio”.

“Hai tanto orrore del sangue? Parli come un bambino o una femminuccia.”

“Il bambino, la femminuccia forse vedono ciò che l’adulto, l’assassino non vede. Non è il sangue, non sono le parole aggressive, violente, delle fazioni contrapposte, a spaventarmi. Ma con­statare sempre la difformità tra ciò che si afferma e le azioni compiute. A Campaldino, quando sce­si in campo contro i ghibellini di Arezzo, se non ammazzavo, sarei stato ammazzato. Il più delle volte non conoscevo l’infelice al quale toglievo la vita. Ma due o tre volte mi è capitato di ricono­scere l’ucciso, prima che morisse. E mi sembrava di sterminare l’intera umanità che popola la terra. Ma che razza di libertà, dimmi, è questa mia libertà che solo il sangue dell’avversario rende sicura? Che giustizia, la nostra, che invece di unire, divide? Mi pareva nobile, un tempo, combattere per la mia libertà, affrontare a corpo a corpo il nemico che voleva conculcarmela. Ed era forse una forma di nobiltà. Ma quale nobiltà, questa che malmena, infilza, scanna, sgozza, squarta e non trova pace che nello sterminio degli avversari, nella morte degli oppositori?”

“Non difendevi anche tu, fino a poco fa, i diritti dell’onore, la legittimità del privilegio? A corpo a corpo, sguardo nello sguardo, si difende l’onore del nostro rango: nessuna legge, senza vio­lenza, può garantire difesa”.

“La violenza genera sempre altra violenza. Un assassinio incita a loro volta gli offesi per ri­torsione a uccidere anche loro. E la catena dei crimini non avrebbe mai tregua né fine. Non è questa la nobiltà di cui parla Guinicelli. Possiamo a buon diritto vantarci dei nostri natali, ma se poi l’azio­ne non corrisponde all’altezza del privilegio, niente ci distingue da chi vive di espedienti e di delit­ti. Forse t’immagini che io ti faccia simili discorsi perché mosso da pietà per le vittime di queste stragi incessanti. Ma ti assicuro che le mie guance non si bagnano facilmente di lacrime né mi sob­balza il cuore nel petto alla vista di un giustiziato giustamente condannato. Mi commuove la mise­ria degli uomini, la ferocia gratuita, la violenza immotivata”.

“Immotivata la violenza che vendica un’offesa?”

“Avrai visto anche tu, come me, molte volte sgorgare il sangue dalle bocche, le budella ro­vesciarsi per terra dal ventre squarciato di uomini e cavalli, gli occhi schizzare fuori dalle orbite, le cervella tracimare dai crani fracassati e impiastrare gli elmi e gli scudi. Il ghibellino diventa perciò anche per te solo bocca da chiudere, solo sangue da evacuare, occhi da schiacciare, cervella da spappolare? Ma oltre al disgusto, alla nausea, che sentivi scombussolarti lo stomaco, non avvertivi anche tu stringerti la gola un nodo di pietà e le palpebre gonfiarsi contro la tua volontà di lacrime irrefrenabili? Non tanto per gl’infelici che cadevano, venivano trafitti e smembrati, o non solo per loro, quanto per te stesso, per ciò che di te deturpavi e distruggevi nella figura del tuo nemico? Tut­tavia non è affatto di questa pietà che ti parlavo. E tanto meno della necessità, crudele, ma può dar­si inevitabile, di queste stragi. Ma dubito del diritto di questa necessità a chiamarsi giustizia”.

“Ecco dove il nostro pensiero si divide. Conosci altri mezzi, per imporre a chi vorrebbe conculcartela, la tua sopravvivenza?”

“Imporre: appunto. Qui sta il groppo che mi annoda i pensieri. Come puoi pensare che i fra­telli, i figli, le mogli, le madri di quelli che tu hai ucciso possano accettare, senza odiarti, la tua pace? E quale pace è questa tua, che si regge sulla paura e sull’odio? quale autorità, quella che per imporsi uccide? Alla radice del nostro agire, e del nostro odio, sembra esserci qualcosa di distorto, il peso di una colpa, o di una violenza subita, dalla quale non si sfugge, come un marchio eredita­rio, che ci accumuna tutti quanti, come per gli individui di una famiglia la somiglianza di un naso, il colore degli occhi, la linea della bocca. Sembra che essere uomini, e somigliarsi dunque perché uomini, comprenda alla radice di tutte le somiglianze una incontenibile e insaziabile violenza”.

“ Tutta la vita è violenza. Non fosse che per il solo fatto di prevederne l’esecuzione finale. Dappertutto, fin dai primi anni, si assiste allo scatenarsi di una violenza che appare spesso senza ra­gione e che si accanisce sui bambini, sulle donne, sui malati, sui poveri. Ma la ragione c’è. Ed è questa voglia perennemente inappagata, in ciascuno di noi, di eliminare ciò che ci disturba, che col suo solo esistere ci offende. E talora, più spesso di quanto si crede, non è sugli altri che si avventa questa violenza, questa volontà di distruzione, ma su se stessi”.

L’insonne fissò l’amico negli occhi. Come lo aveva capito? L’immagine del proprio corpo inerte attraversò la sua fantasia come un fulmine in un cielo nero e carico di basse nuvole tumultuo­se. Che avrebbe fatto l’amico in una situazione simile alla sua? l’attaccamento alla vita sarebbe sta­to accresciuto dal disincanto con cui Guido guardava all’eventualità di una sopravvivenza? o dive­nuto insopportabile il dolore di vivere proprio la certezza di non doversi aspettare di là né un pre­mio né una punizione avrebbe accelerato il precipizio nel baratro? E lui, perché si era fermato? per paura della condanna? o non piuttosto per la contraddizione, anche logica, e non soltanto emotiva, tra la supposta libertà verso la quale si sarebbe lanciato e la reale sconfitta che il giudizio degli altri avrebbe letto nel suo gesto irreversibile? Aveva immaginato la pietà che la sua fine avrebbe susci­tato negli occhi dell’angelo scomparso: figurarseli arrossati e gonfiati dalle lacrime deturpava a tal punto la figura del volto venerato che, pur d’impedirne lo scempio, il piede s’arrestava sull’orlo del precipizio. Ma ora, come aveva potuto intuire l’amico la terribile tentazione di quel passo estremo? I due amici apparivano divisi dalle loro idee sulla vita e sul mondo, su Dio, sulla storia, la politica fiorentina, l’Impero, la Chiesa, ma le loro emozioni sembravano inestricabilmente intrecciate. Cia­scuno conosceva dell’altro più di quanto lui stesso sarebbe stato disposto a riconoscere. Ecco per­ché molte domande ferivano come pugnali che cercassero la via del cuore.

“Certe notti”, cominciò: “penso che potrei mettere fine alla mia inquietudine con un gesto nemmeno troppo difficile. Ma poi: togliermi da un mondo senza pace darebbe pace al mondo? E la darebbe a me? O il destino che mi preparo è affondare in un mare d’inquietudine ancora più ango­sciosa, perché interminabile?”

“Quello che sembra un insulto al mondo, il togliersi di mezzo, e voltare le spalle, per arro­ganza, rabbia, disgusto, disincanto, se ci rifletti bene, e ce la fai a non mentirti, non è un’offesa che si scaglia contro chi ti offende, ma contro se stessi. Anzi, a dirla tutta, credendo invece di riparare a un’ingiustizia degli altri, si commette un atto d’ingiustizia contro se stessi, o contro la vita: per quanto miserabile, infatti, possa apparirci, la vita si vendica sempre di chi la mette da parte, di chi la elimina o s’illude di poterla eliminare facilmente, sbarazzandosene o rintuzzandone nel cervello gl’impulsi, le voglie disattese. Se non altro dannandone la memoria: intendo la memoria di chi so­pravvive. Perché viviamo in un mondo che affida il proprio onore alla sopravvivenza”.

“Amico, si può sopravvivere anche da vivi. E si sopravvive sempre al proprio fallimento, alla consapevolezza del proprio fallimento. Non basta accorgersi di essersi sbagliati su qualcosa che abbiamo fatto o addirittura su tutto il nostro stile di vita. Bisognerebbe capire quando si è co­minciato a sbagliare, e perché. Ma noi in realtà cantavamo e cantiamo un amore immaginario, una sofferenza di eletti”.

“Non mi sono mai sentito un eletto, nella vita: mi manca l’angelo che mi scelga e mi anno­veri nel numero dei prescelti. La mia – o piuttosto le mie donne – sono angeli solo sulla carta. Mi ritengo migliore degli altri, almeno qui a Firenze, per nobiltà, censo e cultura, questo è vero, ma nessun dio scommetterebbe sulla mia anima. Qui sta la differenza tra te e me, ma qui anche la so­miglianza: perché credo che tu non ti comporti, oggi, come la tua intelligenza e i tuoi natali richie­derebbero e anzi t’impongono. Lascia stare Guinicelli: farneticava, su questo. Da bravo borghese di Bologna. Da perfetto Guinizelli, come lo chiamano là. La nobiltà, checché ne abbia scritto il brav’uomo, decide ancora, quaggiù, del destino di una città. E se non è nobiltà di sangue, vince l’infiltrazione del denaro, o s’impossessa delle chiavi l’arroganza delle armi. Il popolaccio non può farci niente, anche se s’illude che con un po’ di chiasso nelle piazze o con qualche divieto che facil­mente un nobile, un ricco, un guerriero riesce a eludere o raggirare, ottiene il campo per contrastare i potenti. Il punto è che un potente sa mascherarsi da villano, e fingersi plebaglia, per avere l’appoggio della plebe e dominarla. A un contadino, invece, a un maniscalco, a un fabbro, a un car­pentiere gli abiti di seta gli stanno stretti e lo soffocano. Le loro parole puzzano come i loro abiti ”.

“L’ultimo che ho ammazzato, a Campaldino, era un ragazzo che forse non aveva nemmeno diciotto anni. Ammazzarlo non mi è costato fatica. In quel momento, anzi, non ho nemmeno soffer­to, né sono stato assalito dal pentimento di un atto così brutale. Gli squarci, le ferite, il sangue, le membra lacerate, i crani fracassati, mozzavano sul nascere qualsiasi pensiero di pietà. Non te ne davano il tempo. Ma il ricordo di quegli occhi che si spegnevano, una volta tornato a casa, non mi abbandonava. Che rapporto, mi chiedevo, tra la mia sublime sofferenza d’amore e la mia mano che senza tremare trapassa il petto di un ragazzo? Nella mia chiusa stanza, qui, dove parliamo, nei miei sogni, nei miei deliri, che vita è mai quella che vivo, se un’altra vita posso senza pentirmi estin­guerla? Chi sono, quando scrivo? E che cosa mi resta attaccato della vita che vivo quando uccido un ragazzo? Qui sta il nodo del nostro vaneggiare. Ti ripeto che questa mia inquietudine, questo in­terrogarmi, non nascono solo dal dubitare di me stesso, ne dubitavo anche prima, e l’angelo era perciò la provvisoria consolazione del dubbio. Ma quanto provvisoria? Ciò di cui ora dubito è se posso essere davvero capace di cercare da solo le ragioni della mia inquietudine e di spiegarmene la gravità, indicarmi la via di uscita. Non mi basto più. Quello che sono, anche la mia tenerezza, e il mio soffrire di questa tenerezza, non nasce da me, perché ho voluto questo e quest’altro, o almeno non solo da me: fuori, non dentro di me, e non solo dentro di me, qualcosa si è spezzato, si è distor­to, si è frantumato, si è separato da me, e non so da quando, ma forse da quando per la prima volta un uomo, e non solo io, ma un uomo prima di me, ha guardato un altro uomo e si è accorto che, se costui gli sbarrava la strada, poteva liberarsene, e sgombrato il passaggio passare e proseguire da solo sulla stessa strada. Forse in ognuno di noi c’è una parte di Caino, ma tutti invece si professano Abele. Qui vedo la stortura, quella che io chiamo colpa: non già nell’uccidere, ma nel proclamare giustizia l’omicidio”.

“Ne fai pertanto una raffinata questione morale. Ma in fondo anche tu ti accorgi di non po­terle mutare, le cose”.

“Le cose no, può darsi. Ma la conoscenza delle cose, questa sì deve mutare. Verrà pure il giorno che ci renderemo conto di quanto inadeguata sia ogni nostra rappresentazione del mondo, e come sia arbitraria la nostra presunzione di verità, quando scambiamo la nostra voglia di sopraffa­zione per un nostro legittimo diritto”.

“Ammettiamolo!” sospirò Guido. “Sei ancora il giovinetto che cerca un salvatore, perché masturbandosi ha scoperto che il peccato dà piacere. E ti dispiace ritenere il piacere una colpa. Ma dimmi, allora: quando avremo raggiunto una simile consapevolezza, che cosa avremo cambiato del mondo?”

“Nulla, forse”.

“Oh, e allora?”

“Sarà già un avvicinarsi alla verità il turbamento che proveremo per questa difformità tra le nostre parole e le cose. Ci renderemo conto che il mondo non possiamo modellarlo a nostro piaci­mento. Che la materia di cui si compone è sorda alle nostre sollecitazioni, non risponde ai nostri tentativi di modificarla. Nessuno stile, nemmeno il nostro, ha potere sul mondo. Le parole, anche le più alte, e la vita percorrono strade diverse. A meno che…”

“A meno che…?”

“A meno che non si lascino sporcare dalla vita”.

“Perché pensi che la vita sia sporca?”

“Non io, ma tu, che non la lasci entrare nella tua poesia”.

“Ascolta, non m’interessa lo stile di Forese, e ancora meno quello di Cecco”.

“Non piacciono nemmeno a me, ma o mi fraintendi o mi sono spiegato male”.

“Spiégati meglio, allora”.

“C’è un ordine delle cose che non ammette divisioni, se non per una colpa gravissima che ci contamina tutti: non riuscire o non voler vedere oltre il naso delle proprie voglie. La giustizia non è affare di parte. Ma i fiorentini non sembrano rendersene conto. Nel resto del mondo non va meglio. Nobile o pezzente non può agire con giustizia nel mondo chi pensa solo da nobile o da pez­zente… o da poeta”.

Guido stava per scoppiare a ridere. Ma si contenne. La smorfia però non sfuggì all’amico che ribatté:

“Sì, anche da poeta”.

“Ascolta questa storia,” disse con voce calma Guido: “Un rabbino di nome Eliezer, nell’antica città di Damasco, si ammalò e venne a trovarlo un altro rabbino, un giovane di straordi­naria bellezza che si chiamava Johanán. Raccontano che fosse così bello che il suo corpo emanava luce. La camera dove Eliezer giaceva malato era buia, Ma appena Johanán vi fu entrato, e scoprì il braccio, dentro la camera irruppe subito la luce. Così Johanán vide che Eliezer piangeva e gli do­mandò: ‘Perché piangi? Se piangi perché credi di non avere studiato abbastanza la Legge. Sai an­che che la sofferenza, grande o piccola che sia, non conta; conta invece custodire un cuore rivolto al cielo. Se piangi invece perché ti manca di che nutrirti, consólati: non è possibile possedere due mense, banchettare al tavolo della ricchezza terrena e godere della beatitudine celeste. Se infine piangi la perdita di qualche tuo figlio, eccoti qua l’osso del mio decimo figlio.’ Il malato rispose: ‘Io piango per la tua bellezza, che dovrà perire sotto terra.’ ‘In quanto a questo’, disse Johanán: ‘hai ragione’. E piansero tutti e due. Piangendo, Johanán chiese al malato: ‘Ti sono care le tue sofferen­ze?’ ‘No, e nemmeno la ricompensa che me ne potrebbe venire,’ rispose Eliezer. Allora Johanán disse: ‘Dammi la mano’. Egli gli dette la mano e Johanán lo fece alzare dal letto”.

“E’ una bella storia. Ma perché me l’hai raccontata?”

“Vorrei fermare il corso della tua memoria su un punto: là dove Johanán dice che la cono­scenza della Legge non libera dalle sofferenze. Alla perfetta quiete dei sentimenti non basta sapere che c’è un limite invalicabile, un ordine che bisogna rispettare, una regola alla quale si deve ubbidi­re. La quiete è un desiderio: e il desiderio non è un atto dell’intelletto, bensì un moto della volontà. La bellezza scompare: affonda nella terra. Ma non ti consola sapere che così avviene di tutte le cose. Vorresti che almeno l’attimo in cui la contempli non passasse più, durasse per sempre. Inve­ce, ciò che dura non è l’attimo, ma il ricordo di quell’attimo. Ciò significa una cosa sola: che il ri­cordo ti restituisce sempre l’immagine di ciò che hai perduto. Qui prende radici l’amore, non l’hai ancora cominciato a sentire, che già scompare nel ricordo”.

“E’ quasi l’alba. E non abbiamo ancora trovato il centro del nostro discorso. Non una delle definizioni che mi hai promesso è uscita dalla tua bocca”.

Guido guardò fuori della finestra. Poi rivolse di nuovo lo sguardo all’amico.

“Lo so,” disse: “che vorresti anticipare le conclusioni in modo da impadronirti degli argo­menti per giudicarmi e magari accusarmi, che so, di slealtà di bestemmiatore, di senza dio. Ma po­tresti accorgerti che in fondo qualsiasi discorso non è che il preambolo di un altro discorso, di qual­cosa che si cerca a tentoni, e che dunque non si può formulare nessun discorso che abbia presa sulla realtà, le parole sono solo simboli dei nostri sentimenti, il nostro parlare è un tastare le parole nel buio. Tra le tenebre, direbbe il tuo Agostino. E sono noiosamente sempre le stesse. E’ vero: sta sor­gendo di nuovo la luce. Quasi mi dimenticavo che potesse accadere, Le candele si sono consumate, stanno sul punto di spegnersi. Questa è l’ora in cui si dovrebbe tacere, aspettare. Ma non voglio in­terrompere a questo punto il cammino intrapreso, quando ho bussato alla tua porta. Vuoi le defini­zioni? Eccoti la prima: Amor est vis unitiva et concretiva. Giustamente poi Tommaso commenta che non si tratta di sostanza, o di persona, ma di un atto che passa dall’amante all’amato. Apparter­rebbe dunque alla sfera della volontà piuttosto che a quella dell’intelletto, sarebbe anzi il primo moto della volontà. Ma gli arabi, e non solo Averroè, sanno dirlo meglio di lui.


‘Sono malato di una malattia che i medici non possono curare.

E mi precipita inesorabilmente nell’abisso della mia rovina.

Consegnato al sacrificio, ucciso per amor suo,

avido, come l’ubriaco che beve vino misto a veleno,

senza vergogna mi tuffavo nelle mie notti.

Eppure la mia anima le amava con ardente e smodata passione.’


Non si potrebbe dire meglio”.

Dante accennò un sorriso. In quei versi già si circoscriveva l’angoscia di Guido.

“E’ certamente uno dei tuoi amati poeti cordovani,” disse: “Ma come li conosci, che non sai leggere l’arabo?”

“Un rabbino toledano lo ha tradotto in latino. E’ Ibn Hazm. Ma torniamo a Tommaso. An­che Tommaso riconosce che la ragione vi si smarrisce: i concetti non lo definiscono, non è un og­getto di cui delimitare l’essenza, è un movimento che parte da un soggetto e trasferisce in un altro soggetto, o in qualunque cosa, anche un sogno, una visione fugace, l’essenza che non trova in sé. L’altro soggetto, la donna guardata, la visione sognata, diventa così l’oggetto del desiderio che chiamiamo amore. Come puoi dire pertanto che se ne possa avere intelletto, conoscenza? E’ solo un movimento che dagli occhi passa al cuore e dal cuore alla mente e provoca gioia e diletto se il bene guardato (o ciò che si crede bene, l’oggetto che si anela possedere) è realmente posseduto e presente; desiderio, angoscia, speranza, disperazione se non ancora posseduto. Il che è quasi peggio di averlo perduto. Ciò che si perde, infatti, è o qualcosa che si è posseduto o che si è sognato, o spe­rato, di possedere. Ora seguimi. Che cosa è veramente il bene, se non lo sguardo della tua volontà che sceglie un oggetto e decide di possederlo? Qui sta l’inganno di Giovanni quando afferma che non c’è paura nell’amore. Certo, se si parla, come lui, dell’amore divino. Ma la distinzione rischia di essere falsa. Ogni amore è divino, nel momento del suo furore, e l’amore di Dio può scatenare un’ebbrezza molto profana: non solo perché fa godere il tuo corpo, ma soprattutto perché può ac­cendere nel tuo cuore il piacere dello sterminio, come se Dio godesse per ogni infedele che ammaz­zi. Non solo. Ma stando ai testi, anche Dio ha tremato, una volta, guardando negli occhi di un apo­stolo. E ancora di più, guardando se stesso. L’amore è sempre paura: l’oggetto amato è un bene per il solo fatto di essere amato. Questo fa di lui un angelo. Ma l’angelo può in un solo istante mostrar­si demonio. Le due città sono la stessa città: solo lo sguardo dell’amante separa l’una dall’altra. Chi sa che l’inferno non sia altro che il paradiso perduto dell’amante: paradiso quando ama, inferno non già quando l’amore non è ricambiato, ma quando lui stesso cessa di amare. Quale amore, però, ci è concesso quaggiù, se non quello che ancora non si possiede, e che il desiderio e e la speranza alimentano tormentosamente nel cuore? Ecco come il paradiso, desiderato e sperato, diventa, pro­prio perché popolato soltanto da desiderio e speranza, un inferno. Il tuo angelo era per te questo pa­radiso perduto. Ma bada: ogni amore finalmente posseduto decreta la sua fine e scava la propria tomba”.

Dante sentì la schiena percorsa da un brivido. Che diritto aveva l’amico di scoperchiare le carte prima del tempo? Voleva forse insinuare che l’angelo fosse una maschera anche per lui? Che il corpo inviolato della donna desiderata fosse per entrambi, allo stesso modo, un corpo che avreb­bero voluto violare? Che lo dicesse. Ma che non confondesse il piacere fuggevole di una contadina che si concede in mezzo alle frasche con il desiderio irrealizzato, perché inattingibile, della donna che, più che sottrarsi, si rifiutava di riconoscere come attuabile il desiderio, la volontà del maschio di sottometterla al suo dominio. L’angelo non gli appariva asessuato, ma il suo sesso non era un campo di conquista. L’indugio con cui ritardava una risposta gli sembrò che innervosisse l’amico e si precipitò a rispondere: “L’unione perfetta, come ti ho già detto, è irraggiungibile. L’unica alla quale si possa aspirare è l’unione spirituale. Ma anche quella non è mai perfetta. E in ogni caso mi irrita, mi offende, la supposizione che tra un uomo e una donna non possa esistere relazione che non preveda un travaso, reale o immaginario, di sperma”.

“Spiegami allora che cos’abbia di spirituale un orgasmo. Non negarlo: il tuo angelo ti pro­curava, e ti procura ancora, anche da morto, orgasmi che ti appagano, ma non ti soddisfano. Alme­no nei tuoi sogni.”

Dante si alzò adirato dalla sedia. Lo afferrò per le braccia e lo fissò negli occhi: “Ma perché ti accanisci così tanto a distruggerlo l’angelo, se lo stile di cui meni vanto è lo stile che canta un an­gelo?”

“Non un angelo,” rispose calmo Guido, divincolandosi da quella stretta rabbiosa: “ma il mio desiderio di un angelo. Oso, io oso almeno confessarlo. Non fingo di credere alla sua figura. Tu vuoi che la si creda reale”.

Dante si accascio sulla sedia. Si martoriava le mani, stringendo e sfregando il pugno chiuso della sinistra con le dita aperte della destra. Fissò di nuovo l’amico negli occhi.

“Non ti è mai piaciuta”.

“Ne ero geloso. Pazzamente geloso. Come un delirio. E odiavo quel tuo indiarla, farne una creatura diafana, asessuata. Mentivi, vedevo i tuoi occhi accendersi appena incrociavi la figura di una donna per la strada, non era lo sguardo per la visione di un angelo. Nemmeno quando guardavi lei. Tremavi come un adolescente che eiacula per la prima volta alla sola vista dell’amata. Dov’era l’angelo in quei momenti? Scommetto che hai sognato le sue natiche come quelle di qualsiasi altra donna”.

“Smettila! Diventi volgare”.

“Non erano volgari anche i tuoi sogni?”

Dante si alzò, irritato.

“Ma possibile che non capisci?” gridò. “Che c’entra la mia esperienza, che c’entrano i so­gni, le eiaculazioni, e tutto il resto? Volevo superare tutto questo marciume, questa sporcizia. E la mia poesia era proprio questo desiderio di superamento. Altrimenti il mio amore non avrebbe avuto alcun altro senso, che il pretesto di un’eiaculazione, come dici tu. Se non mi portava a Dio, che cosa lo distingueva dall’amore di Semiramide, di Didone, di Eloisa, di Medea, e di qualunque put­tanella che spalanca la fica per il suo drudo?”

“E perché il tuo amore sarebbe stato diverso? Solo perché la credevi speciale e diversa dalle altre e ti faceva sentire speciale? L’angelo è irraggiungibile: ed è l’angoscia di questa distanza che io canto. Te, la distanza ti faceva beato. Mi viene quasi di pensare alla favola della volpe e dell’uva”.

“Non c’è più, Guido, non c’è più!” urlò Dante. “La faccia di un morto non è la faccia della persona viva che hai amato. Sapessi il ribrezzo che provai da bambino a baciare la gelida faccia di mia nonna! Non era più lei. Ha ragione il Filosofo: un cadavere non è più il corpo di chi fu vivo, un cadavere non è una persona, ma un morto, uno che non c’è più”.

“E allora perché mi hai raccontato le avventure notturne di Messer Brunetto?” gli chiese in­fastidito Guido. “Quelli che chiami mondi e che, parlandone, allontani dalla tua vista quasi con ri­brezzo, come se anche il solo ricordarli ti sporcasse, quelli sono uomini, ragazzi, persone, come me, come te…”

“Non come me!” lo interruppe Dante.

“Come te,” riprese Guido: “ esattamente come te, persone come te. Non m’interrompere. Ma anche per Messer Brunetto quei ragazzi, quegli uomini, sono angeli. Non potrebbe sopportarne la scomparsa, dopo una sola notte, se per quella notte il corpo del ragazzo, dell’uomo che tiene av­vinto nel letto, non lo abbagliasse con il fulgore di un angelo. Proprio come per me Monna Vanna o per te una delle tante, mica solo l’evanescente figura che ti fa beato”.

“Come puoi confrontare il corpo di una marchetta o di un garzone di beccheria con la spiri­tuale bellezza di chi accondiscese a salutarmi? Salutarmi! Conferirmi la salvezza”.

“Ma se non è riuscita a salvare nemmeno se stessa! Ora i vermi fanno banchetto del suo corpo di angelo. Non t’irritare. Sta calmo, Ascoltami. A Tolosa ho conosciuto una donna la cui ca­pacità di soffrire e di far soffrire non aveva limiti. Non che apparisse malinconica o altera, era anzi gaia e amava oltremodo gli scherzi e i giochi d’amore: la voce un po’ rauca, è vero, e diventava stridula quando rideva. Le sue risate scoppiavano all’improvviso, acutissime, e sembravano fendere l’aria con una pioggia di gridolini inarrestabili, cattivi. Ma quando la vidi la prima volta, dentro la Dorata, non ebbi occhi che per i suoi occhi. M’apparvero d’un tratto, verdi, trasparenti, dietro il velo che le copriva una parte della guancia e che le era scivolato sull’omero: il loro sguardo mi pe­netrò nelle ossa. Sentendosi guardata, s’era voltata verso di me, nell’atto di voltarsi il velo le era scivolato sull’omero, credo che se lo lasciasse scivolare apposta, e in quel punto i miei occhi si in­contrarono con i suoi. Mi sentii subito frugato, trafitto, spolpato, da quello sguardo: dai suoi occhi partivano non sguardi, ma dardi luminosi che mi ferivano, mi denudavano, scrutavano ed esamina­vano con attenzione tutto il mio corpo, mi strappavano la pelle di dosso. Sentii mancarmi le forze, quegli occhi erano diventati braccia che mi avviluppavano, bocche che mi succhiavano, m’inghiot­tivano. Poco mancò che mi arrivasse un orgasmo e io morissi ai suoi occhi solo perché mi guardava e mi fissavano in quel modo. Il prete disse qualcosa, Pange lingua, credo, non sapevo più dove sta­vo né che cosa avvenisse intorno a me. Mi smarrivo nella contemplazione d’una mia dolcissima memoria: nella trafittura di quello sguardo riconoscevo la mia consuetudine di restare trafitto dallo sguardo della donna che mi guardasse. Lo sguardo di una donna mi provoca immediatamente un’erezione. Non conoscevo ancora quella donna e già la mia mente si figurava trascorso l’incon­tro, goduto il bacio, estenuatosi il languore dell’amplesso, e si struggeva nell’ansia di replicarne il diletto. Ecco che allora mi venne una dolorosa nostalgia dei suoi occhi, una furiosa smania di guar­darli ed esserne guardato e, poiché non potevo altrimenti, di toccarli almeno con il desiderio dei miei, come fossero le mie labbra. Ma non appena cercai nel punto dove l’avevo veduta, mi sentii disperare: una fila di donne si muoveva, avanti e indietro, dall’altare al banco dove ella m’era ap­parsa, e non potevo distinguere il suo volto da quello delle altre donne, perché tutte avevano il vol­to coperto dal velo. Credevo di averla perduta e già mi abbandonavo al tormento di un diletto che la fortuna mi sottraeva prima ancora di darmi l’occasione di avvicinarlo, quando, nel gruppo di donne che si muovevano, mi colpì la luce che dalla vetrata cadeva sul capo di una che stava ferma, ingi­nocchiata, e riconobbi il suo bianchissimo velo, l’oro dei suoi capelli. Aveva chinato il capo e si era coperta la faccia con le mani. La chiesa echeggiava di canti. Due voci s’inseguivano senza incon­trarsi: uno spasimo dolcissimo pareva contorcerle in volubili peregrinazioni che ricadevano sempre sullo stesso punto, per allontanarsi di nuovo l’una dall’altra e impennarsi in vertiginose volute che poi un’altra volta precipitavano al punto dal quale s’erano distaccate, in una sorta di perpetuo e fluttuante delirio che equiparava la sofferenza del distacco alla dolcezza dell’amplesso. Sembrava che l’immagine sonora del canto m’uscisse dalla mente, invece di arrivarmi dai due cantori ritti ac­canto all’organo e rispecchiasse un’immagine di sguardi che era poi anche l’immagine dei desideri ch nella mia mente univa e disgiungeva il mio corpo e il corpo della donna. Ora , però, i suoi occhi erano coperti dalle sue mani. Il buio mi ridava la vita. E già pensavo il modo in cui potessi avvici­narla, parlarle. A un tratto sentii ancora il suo sguardo su di me: ella mi passava accanto e mi guar­dava. Prima che il turbamento di quello sguardo mi perdesse, trovai la forza di sillabarle il mio de­siderio: ‘Ai las!1’ Ella mi sorrise, ma la mano di un uomo rude e massiccio la spinse in avanti e la donna si allontanò senza riuscire a rispondermi. O almeno io m’immaginai ch’ella volesse rispon­dermi e che solo la brutalità di un gesto vile, lo spintone di quell’uomo rozzo, tarchiato, grasso, malvestito, orribile e che puzzava maledettamente di sudore (chi era? suo marito? suo padre?) glie­lo avesse impedito. Tuttavia in quell’attimo fuggitivo avevo avvertito il respiro delle sue labbra che si schiudevano, come sul punto di sussurrarmi un messaggio o inviarmi sulle ali leggere dell’aria un dolcissimo bacio, e solo la grossolanità, la villania del suo ignobile padrone le avevano richiuse. E avevo percepito, come una carezza negata, sotto lo strascico della gonna, il fruscio lieve dei passi che ora udivo lentamente a poco a poco affievolirsi, come un lungo sospiro, fino alla soglia del por­tale. Solo allora venni assordato dal trepestio di tutti gli altri fedeli che uscivano dalla chiesa, quasi che prima, al suo passaggio, ella avesse creato intorno a sé un silenzio di stupore. Mi precipitai anch’io fuori della chiesa, la vidi, in mezzo a un gruppo di donne, tenuta per bracciò dal turpe na­nerottolo, camminava pigramente, si voltò, sorrise un’altra volta, fissandomi, l’uomo le diede uno strattone, e scomparvero dietro l’angolo di una casa. Ti risparmio le smanie di quella mia giornata: dovunque io mi recassi, dovunque guardassi,sentivo su di me il suo sguardo, vedevo i suoi occhi. Era il giorno del Corpus Domini e, come al dubitante servo di Dio volsiniense apparve, durante l’elevazione, il corpo e il sangue di Cristo, a me si rivelava la miracolosa incarnazione di un ange­lo, nel verde raso dei suoi abiti mi si manifestava, come il Redentore nel candore dell’ostia, il mira­bile Corpus Dominae, quod cordis mei domicilium sibi constituit. Venni immantinente assalito dal­la paura: ma poi sbigottivo anche della mia paura. Mi sentivo quasi inanimato, morto, e insieme, da tutte le parti del mio corpo, mi sentivo bruciare, divorare dal desiderio di rivederla, come se non soltanto i miei occhi ardessero di vederla, e la mia bocca di baciarla, le mie mani di toccarla, ma ogni punto della mia pelle, ogni dramma del mio sangue si estenuasse nell’ansia di ricongiungersi, e sia pure soltanto con la vista, a lei, per poi riversarsi e smarrirsi in lei. E allora il suo corpo si af­faticava dentro di me nelle più meravigliose metamorfosi: le sue labbra si arrossavano, si aprivano, per accogliermi, ingoiarmi, e non erano più labbra, non era la sua bocca, il suo viso, che io accosta­vo alla mia bocca, alla mia lingua, al mio viso, ma il suo ventre e, in basso, la vulva rosea che pal­pitando serrava, bruciante, la mia verga. Ma io ero tutto in quella verga, ero solo quella verga: il fiotto che infine la inondava e la riempiva di me era la mia anima che usciva dal mio corpo e mi ab­bandonava. L’estasi di quell’istante mi uccideva, ma la mia morte immortalava il suo respiro, che diventava da quel momento il respiro di un angelo. Questo, anzi, era per me l’angelo: il desiderio di finire, di morire, annientarmi ed evaporarmi nell’aria. Così, per trattenere gli spiriti che fuggivano, volli fissare sulla carta, con le parole, ciò che provavo. Scrivendo, il mio tormento prendeva forma, si dava un nome. E questo nome, ma solo sulla carta, era Amore. Non voglio, però, anticiparti ciò che mi avverrà di capire solo più tardi. Il giorno dopo ritornai alla Dorata. Era da poco spuntato il giorno e durante la notte mi ero inutilmente girato e rigirato nel letto, senza trovare né pace né son­no: mi alzai indiavolato dal letto. La chiesa era deserta. Ma lei stava là, sola, nella prima fila di banchi davanti all’altare. Aveva avuto lo stesso pensiero, mi dissi. Si era seduta sulla puta estrema del banco, sul limite che divide la navata centrale da quella laterale. Una colonna separava il banco dalla navata vuota e silenziosa . Percorsi lentamente, con passo leggero, perché non mi udisse, il tratto che mi separava da lei. Quando fui giunto alla colonna, credetti che l’affanno procuratomi dal rivederla, lo smarrimento di trovarmi proprio accanto a le, e solo, mi perdessero. Un singulto mi salì alla gola, lo soffocai premendomi la bocca con una mano. Ella si voltò. Mi nascosi dietro la co­lonna. Sembrò cercarmi o comunque si guardava intorno. Si ricompose. Pareva pregare. Teneva un libro aperto sulle ginocchia. Piano piano, appoggiandomi con la schiena alla pietra, strisciai intorno alla colonna e le giunsi accanto. Ella, questa volta, mi vide e, senza darmi il tempo di ripeterle il la­mento del giorno prima, domandò: ‘Que plans?2’ Stavo già per risponderle, ma mi trovai davanti d’un tratto il muso del nanerottolo che mi guardava torvo. Le si avvicinò, le offrì il braccio, ella si alzò e uscì con lui dalla chiesa senza voltarsi e senza guardarmi. La sera andai ai vespri, ma ella non si fece vedere. Smaniavo. Uscii dalla chiesa, vagai per le strade. Se almeno avessi saputo dove abitava. Ogni rumore che mi arrivava dalle case mi faceva trasalire, in ogni voce femminile mi pa­reva di riconoscere la sua voce che avevo appena udito domandarmi che cosa mi facesse soffrire. Scappavo via per non cedere all’impulso di entrare nella casa dove immaginavo racchiudersi la fonte del mio sbigottimento. Là dentro Amore, in guisa d’un arciere soriano, traeva dagli occhi suoi sospiri che mi saettava nel cuore così forte da confondere la mia paura di rivederla con il mio desi­derio di morirne. A un tratto cominciarono a suonare insieme tutte quante le campane di Tolosa: il suono mi arrivava da ogni parte, annegavo in un delirio sonoro che mi sommergeva, mi soffocava, come se tutto il mondo, intorno a me, le persone, le case, il cielo, le stelle, gridassero il mio tor­mento, me lo restituissero nel frastuono di un urlo immenso, interminabile, che era il mio stesso urlo, la mia voce che pigliava corpo, s’incarnava nel grido delle campane. La gente usciva dalle chiese esultante, danzante. Le strade si riempirono di una folla che gridava, correva, batteva alle porte, altra gente usciva dalle case e si univa allo strepito generale: saltavano per le vie impazziti, si abbracciavano, cascavano per terra, si calpestavano, ridevano, gridavano, bevevano da enormi boc­cali, il vino colava per le gole, sugli abiti, sui piedi, dappertutto. Un gruppo di giovani arrivò con un asino bardato di porpora e d’oro: lo cavalcava un bellissimo giovane nudo, con una mitra sul capo, che ogni tanto si alzava sulle staffe e pisciava sulla folla. La folla gli faceva largo e il giovane sull’asino passava in trionfo tra due ale di gente che agitava con le braccia alzate ogni sorta di og­getti, bastoni, boccali schiumanti, spade, cappelli, berretti, fazzoletti, brache, gonne, scialli, si spo­gliavano schiamazzando, gli uomini toccavano le poppe alle donne e le donne afferravano e tirava­no l’arnese, ma se lo tiravano anche gli uomini tra loro, e le donne sculacciavano ridendo le natiche di altre donne, alcune immense, come quelle di cavalle, e tutti ridevano, si schernivano gli uni con gli altri, imprecavano e bevevano. Dietro l’asino la folla si rincollava e procedeva unita, compatta, pareva un gigantesco serpente che agitasse minaccioso la coda. La testa del serpente, con a capo il giovane sull’asino, giunse infine sul sagrato della cattedrale. Il giovane vescovo nudo fu fatto scen­dere dall’asino e tra grida, risate e glosse oscene, scomparve in un mucchio di corpi che s’intrec­ciavano, si contorcevano, si divincolavano. I pochi che avevano ancora gli abiti addosso si spoglia­rono anch’essi e lo spettacolo finì in una gozzoviglia di membra bianchicce che si strusciavano, di mani, di braccia, di gambe, che si allacciavano, di bocche che s’incollavano a bocche, ventri che aderivano a ventri, amplessi ferini che penetravano i foramina libidinis, tutte le possibili entrature del vuoto tra le candide colline dell’Eden, con le più furibonde escandescenze del desiderio e della voluttà. La mattina seguente il giovane vescovo fu trovato morto sul sagrato. Ma venne subito por­tato via. Qualcuno fu buttato in prigione e, dopo qualche giorno, impiccato. Ma la festa non fu in­terrotta. La domenica successiva tornai alla Dorata, all’ora della prima messa. La chiesa era piena di gente. Tra le facce riconobbi molte di quelle che avevo visto alla processione dell’asino. Cercai con lo sguardo un punto. La vidi. Accanto a lei sedeva l’uomo che il giorno prima l’aveva brutal­mente sottratta al mio timido, anche se appassionato, assalto. Come poi seppi, quell’uomo brutto, tarchiato, rozzo e volgare, era suo marito. Insospettito – se per intuizione originale o per le allusioni di lingue malevoli, non so, ma credo che il suo cervello nascesse già sospettoso fin dall’infanzia, anzi prima ancora che acquistasse l’uso della parola suppongo che le sue labbra tumide e sempre unte diffidassero perfino dei capezzoli della balia - insospettito, dunque, da quelle visite troppo frequenti in chiesa, aveva deciso di seguirla dovunque ella si recasse. L’amabile, dolcissima donna si voltò, mi vide, sorrise, ma subito si ricompose, ritirò gli angoli delle labbra nella smorfia seriosa della preghiera, e guardò fisso davanti a sé. Le volte della Dorata risuonavano del tripudio della Ri­surrezione e i canti intonavano le laudi della vittima pasquale. La messa mi parve eterna: i canti che due giorni prima, dolorosamente, avevano acceso la mia ingordigia di sguardi, e suscitato il diletto di un’attesa impegnata di promesse come una spugna dell’acqua della tinozza che un servo ti spre­me sulla spalla, ora che invece invitavano , e dilettosamene, con vorticoso discanto, alla gioia, mi parevano incupirsi e inabissarsi nel presentimento di un rifiuto. In mezzo a quella festa di vita e di esultanza, mi sentivo svuotare d’ogni mio desiderio, e in particolare del desiderio di rivederla a un palmo dalla mia faccia, di toccarla, di baciarle la mano e, me lo concedessero gli angeli del paradi­so, di baciarle la bella bocca rossa e carnosa di quella loro inimitabile sorella, sentivo tutte le mie membra e il mio organo afflosciarsi nel languore di una stanchezza mortale, il mio respiro si affie­voliva fino al sussurro di un impercettibile sospiro. Ella sarebbe certamente andata un’altra volta all’altare, mi dissi, e sarebbe stata in quel momento finalmente sola, per accogliere il corpo di Cri­sto. Oh come avrei voluto essere io quel corpo, io quella sottilissima pagina bianca di pane, e finire ingoiato da lei, smarrirmi e diluirmi dentro il suo corpo! Dovevo assolutamente trovare il modo di pormi sul suo cammino, di sbarrarle la via che la conduceva all’altare. Sgusciai allora tra la gente e raggiunsi la fila di banchi dove ella sedeva e, come la prima volta, mi nascosi dietro la colonna. La messa sembrava più luga del solito, cantavano ogni momento, da tutte le parti. Temetti perfino che il frastuono delle voci soffocasse la mia sbigottita implorazione. Ma finalmente vidi alzarsi il cali­ce. “Ecco”, mi dissi: “manca poco. Il mistero sta per compiersi e la fede sarà premiata”. Qualcuno mi udì: si pose un dito sulla bocca, facendomi cenno di tacere. Numi dell’inferno! parlavo. Avrei dovuto tenere più saldamente le briglie degli spiriti impazienti di avventarsi fuori della mia bocca per gridarle le parole del mio desiderio. Sporsi il capo dalla colonna: il marito la osservava, non le staccava gli occhi di dosso, ma non sembrava essersi accorto né del mio loquace delirio né del con­senziente sorriso di sua moglie. Mi ritrassi subito per non farmi scoprire: e scoprire proprio da quell’essere abbietto che già mi pareva di detestare, anzi di odiare, con tutte le forze del mio senti­mento e perfino del mio intelletto. L’Agnus Dei! Il cuore mi tremava: da che parte sarebbe uscita? E se usciva dalla parte opposta? Dovevo ad ogni costo farmi vedere un’altra volta da lei, farle capi­re che mi ero spostato e avvicinato alla fila di banchi dove elle si era collocata, per assistere alla messa. Mi sporsi un poco con il capo dalla colonna, il marito in quel momento guardava davanti a sé, ed ella ne approfittava per guardarsi intorno, per scrutare i volti della gente. Mi cerca, dunque. Mi curvai un altro poco: ora tutto il mio busto sporgeva dalla colonna. Ma perché non guardava dalla mia parte? Si voltò il marito, invece, e io mi ritrassi prestamente indietro. Li udii parlare tra loro, a voce bassa, egli le borbottava qualcosa all’orecchio ed ella gli rispondeva assentendo con un cenno del capo, esclamando: “oh, sì!”. O almeno mi pareva che dicesse: “oh sì!” Ma in realtà non percepivo le loro parole, non capivo quello che si dicevano. Ero sulle spine. Presto sarebbe venuto il momento in cui si sarebbe alzata e se non vedendomi usciva dalla parte opposta io ero perduto. Vinsi le mie paure, dominai la mia angoscia, e mi sporsi coraggiosamente e spuntai di nuovo col capo fuori della colonna: questa volta ella guardava proprio verso di me, e mi vide. Il suo sguardo mi fulminò: non so se con severo rimprovero o con impetuoso desiderio (non sarebbe stato forse lo stesso? rimprovero per la mia esitazione, come Ginevra a Lancillotto al momento di porre il piede sulla carretta dell’ignominia, e desiderio di affrettare i passaggi, di abbreviare l’avvicinamento, di provocare il contatto?), mi penetravano, mi laceravano, mi torturavano, mi schiacciavano, mi an­nientavano. La tua solita bile nera, mi dissi tra me. Trasformi ogni indugio in angoscia, ogni ritardo in disperazione, ogni incertezza ti sbigottisce. Mi sentivo salire alla bocca il sapore amaro della bile, e nel ventre l’artiglio di una belva che mi torceva le viscere. Eppure quella tortura non mi di­spiaceva, mi pareva anzi una sorta di felicità, come se il mio passo ne avesse finalmente varcato la soglia: ella mi aveva guardato! Era il suo sguardo a infliggermi adesso quel supplizio. Mi venne un dubbio: e se non esce sola? Precipitai nella disperazione. In chiesa già cominciava il movimento di quelli che andavano a prendere la comunione, ma ella ancora non usciva dalla sua fila. A un tratto, però, mi fu accanto e, prima che fuggisse via, quasi all’orecchio, tanto che mi parve di sentire il profumo dei suoi capelli e di sfiorare con le labbra la perla che pendeva dal lobo, le sussurrai: ‘Mor mi3’. Aspettavo con ansia che ritornasse indietro dall’altare, dopo essersi comunicata, ma quando fu il momento che stava per accostarsi e rasentare la mano che le tendevo, un’altra s’intromise tra me e lei e non riuscimmo nemmeno a guardarci. Come avrei resistito fino al giorno seguente senza ve­derla, senza parlarle, senza udire la sua voce? Maledissi la donna che aveva distrutto la nostra inte­sa, la fissai, torvo, sperando che il mio sguardo la incenerisse. Rideva. E faceva segno con la mano a una compagna verso di me. Come avevo potuto non capirlo? Beghina da quattro soldi, all’occor­renza ruffiana, era stata pagata dal marito perché disturbasse l’ufficio del nobile arciere, impedisse lo scoccare della freccia, l’assassinio del cuore. Tra me e quel lontano, troppo lontano e sospirato angelo s’interponeva il ghigno turpe di una Forciade. “Idiota!” mormorai tra le labbra, non so se ri­volto all’importuna strega o alla mia inettitudine, e scappai via. Appena fuori, davanti al portale, mi rimproverai l’impulsività della mia fuga e rientrai, precipitosamente come n’ero uscito, nella chie­sa. Ma ormai dentro c’era solo una grande confusione, la messa era finita, e la gente si preparava ad uscire. Non avrei mai potuto incontrarla in quel trambusto. Riuscii fuori sul sagrato e aspettai da­vanti al portale. L’attesa mi parve interminabile, ogni momento mi pareva di scorgerla e poi la per­devo oppure mi accorgevo che la gentile damigella che avevo scambiato per lei era un’altra. Non avrei mai pensato che una chiesa contenesse tanta folla. Dubitai, a un certo punto, ch’ella fosse uscita senza che io l’avessi veduta: la città mi parve un labirinto che s’ingoiava ogni mia speranza. Non sapevo nemmeno dove abitasse. Ma finalmente la vidi uscire: era proprio lei. La fortuna si ac­caniva contro di me: aveva accanto alla sua sinistra l’uomo nel quale io sospettavo il rivale eletto, il servo che mi toglieva la mia beatitudine, chi mi diceva che fosse suo marito e non un segreto aman­te? Potevano avermi detto ch’era suo marito, per strapparmi dal cuore ogni speranza. Non sapevano che anzi così me le infiammavano. Era per me un piacere supremo sottrarre alle voglie di sordidi mariti le delicate membra di un angelo. Alla sua destra camminava, tenendola per braccio, la donna che s’era gabbata di me. L’angelo non si voltò, non mi vide (e come poteva immaginarsi che l’attendevo davanti al portale, che mi attardavo, anzi, impaniato come una mosca nel miele, nel cer­chio magico che i suoi passi avevano benedetto, e solo per incontrare ancora una volta il suo sguar­do?) e andò via, scomparve in mezzo alla folla che usciva dalla chiesa. Inseguirla? e poi? Quando l’avessi raggiunta, con che scusa le avrei rivolto la parola e quale pretesto avrei inventato per giu­stificare agli occhi del rivale, o del marito, quella mia irruzione? Ucciderlo, cavargli il cuore dal petto e offrirlo a lei quale espiazione del suo starle accanto, del suo escludermi da un contatto che solo quel suo insistente accompagnarla, starle vicino, allontanava da me fino a un’irragiungibile di­stanza non solo ogni accostamento all’angelo, ma perfino la sua visione, non fosse che proprio per­ché lo denudavo d’ogni ostile presenza finivo col proibirmi per sempre il campo dei suoi occhi, che avrei voluto a me soltanto consacrato: il sangue che ci univa, se lo avessi versato, ci avrebbe anche eternamente disgiunti. Fu una Pasqua d’inferno. Il desiderio di poterla almeno intravedere tra le amiche, scorgerla all’improvviso in qualche vicolo nascosto, e poterle così parlare senza indiscreti testimoni, mi perseguitava dovunque andassi. La tortura più atroce stava poi nel fatto che non pote­vo nemmeno chiamarla, invocarla, supplicarla, caderle in ginocchio almeno in sogno ai suoi piedi pronunciando il suo nome, chiedere a qualcuno chi fosse, dove vivesse, chi fosse l’uomo che l’accompagnava, il padre, un fratello, il marito, un amante? Ignorarne perfino il nome me la collo­cava a una lontananza incolmabile, inattingibile, come se appartenesse a un altro mondo, a un’altra costellazione, e tutte le forze del cielo e della terra impedissero che io potessi sfiorarla sia pure con l’alito lieve della sola, unica parola che racchiudeva nelle sue sillabe il segreto del suo passaggio terreno, il principio d’individuazione che nominava la luce del suo sguardo, quello sguardo miste­rioso e profondo, terribile e dolcissimo che apparteneva solo a lei e a nessun’altra. L’angelo mi ful­minava con i suoi occhi e mi abbandonava alla sofferenza di un’estasi anonima, di un desiderio che veniva lasciato al delirio d’un niente. Ma lei, l’angelo, che sapeva di me? Come mi chiamava, m’invocava, se mi chiamava, m’invocava? Oppure, che nessuno di noi due conoscesse il nome dell’altro, stava a significare un distacco che condannava me all’impotenza e innalzava lei fino alle purissime vette dell’intangibilità? Ma perché purissime e perché intoccabili? Sospiravo, certo, e maledivo la distanza, l’inaccessibilità, ma la forza del mio stesso sospirare mi strappava per così dire a me stesso, e mi faceva sentire disfatto, distrutto, frantumato, sbriciolato, polverizzato, an­nientato. Non avevo paura solo di questo vuoto immenso nel quale mi sentivo precipitare, come un sasso nel burrone, o un vulture dal cielo sulla preda, ma il vuoto stesso lo sentivo come il mio per­dermi, il mio smarrirmi nella nostalgia di non sapevo che cosa, e contemporaneamente avvertivo invece che il mio animo si dilatava, si sparpagliava , dentro quel vuoto, e bruciavo di un desiderio che invece d’infuocarmi mi consumava, mi dissolveva fino al balbettamento d’una parola impossi­bile, perché inesistente o, piuttosto, inesistente per me che non la conoscevo, e la sostituivo invano con altri nomi ai quali nessuna figura di donna poteva congiungersi, e allora sentivo che quel nome per me sconosciuto più che inesistente era un nome ignorato, e dunque intatto, ma intatto solo per me. Solo per me? Enumeravo la schiera di quanti potevano chiamarla con il suo nome, avvicinarla, parlarle, toccarla, e mi parevano una legione interminabile: la madre, il padre, i fratelli, i cugini, l’uomo che l’accompagnava, gli altri uomini che la conoscevano, le amiche, le ancelle, i servi, for­se i figli. Mio Dio! i figli? No, almeno questo: non aveva figli, non poteva avere partorito, come le altre donne, figli anche lei. L’angelo è sterile: sterile e terribile. Se uno grida il proprio dolore, se uno l’invoca, l’angelo non sente, non risponde. L’infelice che osa adorarne e invocarne lo sguardo resta inascoltato, come un reprobo, come un immondo profanatore. Ma certo! Tutti potevano chia­marla, vederla, parlarle, tutti toccarla (e forse anche i figli, forse davvero era anche una madre), tut­ti, tranne me, per nessuno ella era un angelo, io solo, guardandola, avevo intravisto nei suoi occhi la luce di questa lontananza, il segno della diversità, della disperante attrazione che respinge l’elet­to nel momento in cui lo folgora e lo incatena: per tutti era, infatti, una donna, e solo per me un an­gelo, l’intoccabile, la lontanissima trasfigurazione di un sogno, la forma evanescente d’un appetito inattuato e inattuabile, la concreta minaccia del rifiuto che la vita oppone a chi presume di posse­derla. Ma come potevo, tuttavia, volare con l’immaginazione fino al punto di figurarmi un eletto, proprio io che non ne conoscevo ancora nemmeno il nome? Inoltre: quando finalmente quel nome lo avessi appreso, perché rivelatomi da lei stessa, chi o che cosa mi assicurava che con questa rive­lazione ella volesse eleggermi a suo vassallo, a suo devoto, a sua disfatto e smunto amante, al cor­po senza vita che le giace ai piedi e che supplica da lei come un automa il soffio vitale che gli resti­tuisca il respiro? L’amore, per ora, ardeva tutto soltanto nella violenza d’uno sguardo. Ciò mi ba­stava per dedurne così avviluppanti conclusioni? La certezza, che io cercavo d’infondermi, naviga­va nel buio spesso del desiderio, come le anime dei dannati nel fumo dell’inferno: ma solo il desi­derio mi garantiva di non naufragare in un mare tempestoso di equivoci sillogismi. L’angelo, per­tanto, poteva dissolversi e svanire ai miei occhi come un vapore estivo, disperdersi nell’aria come una nuvola, lasciarmi come unica forma concreta d’adorante contemplazione l’attesa incompiuta della musica di un nome: il suo nome d’angelo, perché invece il suo nome di donna lo conoscevano tutti, tutti tranne me. Fu così che m’inventai un segno della sua appartenenza celeste, il nome do­veva cominciare per M, come quello della donna che più di ogni altra è modello di fedelissimo, in­corruttibile, duraturo e novissimo amore. La sua essenza demoniaca mi sarebbe al contrario stata rivelata da un nome che cominciasse per L, come quello della femmina che corruppe perfino Luci­fero e diede per prima nel mondo alimento al desiderio. Qualsiasi altro nome sarebbe stato soltanto un nome di donna. Al prossimo incontro, mi dissi. Ma era troppo presto, non era ancora maturo il tempo della rivelazione, l’epifania del linguaggio andava preparata, predisposta. Non potevo antici­pare con un moto d’impazienza ciò che solo un lunghissimo tormento, una sofferenza insopportabi­le, mi avrebbe reso degno di accogliere dalla sua bocca come una grazia. Sospirai perciò non tanto la fine dell’attesa, quanto l’asprezza del dolore che l’attesa avrebbe in me d’ora in poi acuito e teso come la corda di un arco, l’intensità crudele dello spasimo che avrebbe alla fine consacrato per ren­derla perfetta la delizia della segnatura. Ma non potevo allora prevedere quanto poi lunga sarebbe stata quest’attesa e quanto aspra la sofferenza. Veramente, credimi, la mia vita, per più di un mese, si racchiuse tutta nei miei sospiri, nell’attesa di quel breve instante in cui i nostri sguardi s’incontra­vano, le nostre bocche si aprivano e le nostre orecchie ascoltavano. Quell’istante cancellava ogni altro tempo e io dimenticavo in quel punto l’angoscia che mi devastava, dimenticavo fino a quale grado d’incandescenza, prima e dopo quel meraviglioso e miracoloso istante, sospirando mi di­struggesse la dolcezza di quell’attendere. La mattina seguente, lunedì dell’angelo, non venne in chiesa. Il segno della sua assenza, proprio in quel giorno, nel giorno consacrato all’angelo, poteva nascondermi due opposte verità: una, che l’angelo fuggiva dal chiasso mondano che porta il suo nome, perché quel nome lo spaventava; l’altra, che la mia attesa non si sarebbe mai conclusa e che dunque l’angelo non sarebbe mai più venuto, perché la donna che io amavo non era il mio angelo o, può darsi, non era un angelo. Anche nei giorni seguenti, di fatti, ella non venne. E così i miei oc­chi guardarono il vuoto dello spazio occupato prima da lei, lo guardarono per tutta la settimana, fino alla domenica in Albis. L’aspettavo, come sempre, dietro la colonna. La vidi entrare, mi vide. Sembrava sola, ma poi vidi dietro di lei l’uomo dei miei rancori, della mia invidia e del mio pro­fondissimo odio: questa volta lo osservai attentamente. Era un uomo di circa sessant’anni (poi sep­pi che ne aveva solo cinquanta, invecchiato precocemente), piuttosto basso, tarchiato, panciuto, cal­vo, con una grossa barba gialliccia, più che bianca, sporca e spinosa. Confermò, anzi, se possibile, rafforzò la prima impressione che ne ebbi di un uomo, rozzo, volgare, egoista. La sua gelosia de­gradava la donna caduta disgraziatamente in suo possesso in una femmina di cui controllare ogni atto, ogni gesto, come si fa con un servo, un animale. Scrutava i suoi occhi per cogliere il senso dei suoi sguardi: ma come avrebbe potuto tradurre i luminosi sguardi di un linguaggio superiore nelle abbiette e sconce parole dell’unico linguaggio che egli conosceva, quello dell’arroganza e del do­minio? Ella sussurrò qualcosa all’orecchio del suo uomo (era così? era il suo uomo?), il quale si di­resse solo verso il banco, poi ella mi fissò e alzò una mano, la destra, come per immergerla nella vaschetta dell’acqua santa, ma prima di bagnarsi le dita indicò un’immagine della Madonna che pendeva sulla parete della navata, sopra un altare. Lentamente, assai lentamente, si avviò verso l’immagine, e anch’io mi mossi verso quel punto, dove avrei conosciuto dal bagliore dei suoi occhi o la mia suprema beatitudine o la mia infima disgrazia. Per un attimo quasi ci sfiorammo le mani, giusto il tempo per lei d’aprire la bocca e sussurrarmi una domanda. ‘De que?4’, ma sopraggiunse improvvisa la donna che a Pasqua m’aveva motteggiato e io mi allontanai frettolosamente dalla cappella. Ero terrorizzato. Il sospiro diventava agonia. Il latte dell’infante, certo, quasi modo, anch’io, bramando, sospiro. Metti la tua mano, e riconoscimi. O quanto meno un rimedio, presente e futuro. Pax vobis. Ma fino a quando? Passò pertanto un’altra settimana senza vederla. Andavo tutte le mattine davanti alla Dorata e me ne allontanavo solo quando ero ormai certo che per quel giorno non l’avrei più veduta. Finalmente la seconda domenica dopo Pasqua la vidi arrivare, ac­compagnata da due donne, questa volta. Ma nessuna delle due era quella che rideva di me. Non mi avrebbero riconosciuto, dunque, riflettei, e osai parlare davanti a loro, il tempo del suo passarmi da­vanti, di fissarla negli occhi e dirle: ‘D’amor5’. Una delle due donne mi guardò, si toccò la fronte con una mano e diede una spinta con un gomito all’altra donna: tutt’e due scoppiarono a ridere ed entrarono in chiesa dietro la loro signora. un’altra settimana! Il gioco mi estenuava, non mi fossi imposto di non chiedere a nessuno di lei prima dell’ultima parola, di quella che me l’avrebbe rive­lata per il mio angelo, per non comprometterla prima del tempo, per non disonorarla con impulsiva impazienza, mi sarei messo a interrogare le due maliziose servette, a chiedere loro chi fosse e chi fosse l’uomo che l’accompagnava, oppure a cercare di conoscere il suo confessore, a implorarlo di farmi concedere da lei un incontro. I preti, come saprai, sono spesso più ruffiani della più depravata mezzana. La tua fede non t’impedirà di riconoscerlo, perché la tua passione per le femmine d’ogni tipo te ne avrà dato l’esperienza. Si può sedere nel consiglio comunale di giorno e paludarsi con abiti sontuosi, pavoneggiarsi con fiorite figure e allegorie morali, e la notte calarsi le brache per an­dare a puttane o peggio. Dove non ti sarà stato difficile incontrare molti di quanti hanno subito ton­sura, chiercuti regolari e secolari d’ogni risma. Restai sgomento: fino a quando? E che cosa mi avrebbe domandato, la domenica successiva, che cosa le avrei detto io, che cosa mi avrebbe rispo­sto? Avesse avuto almeno il tempo di parlarmi subito, lì, dopo che io le avevo dato risposta alla sua domanda (perché ormai lo sapeva anche lei: doveva certamente pormi una domanda, non poteva più sfuggire al gioco e, se non sfuggiva, le restava una sola mossa, come negli scacchi: io ero il re, lei la regina; ad te de luce vigilo), avesse avuto il tempo, e mi avesse posto la sua domanda, in ri­sposta alla mia risposta, rinascevo alla vita. Ma non ci fu tempo. I nostri occhi si distolsero dal guardarsi, i nostri corpi si divisero e furono ingoiati un’altra volta dalla incolmabile distanza di un tumultuoso silenzio. La domenica successiva, sgattaiolando leggermente tra le colonne la raggiunsi che si avviava sola all’altare, e mi chiese, senza voltarsi: ‘Per cui?6’ La risposta mi venne troncata sulle labbra dall’uomo che m’apparve all’improvviso di fronte e mi scrutò dai capelli ai piedi, pun­tandosi sulle gambe divaricate. Scappai via, un duello avrebbe rovinato tutto, e soprattutto avrebbe significato l’interruzione del gioco. Io volevo, invece, giocarlo tutto, fino in fondo, e costringere il mio angelo a scoprire le carte. Le domeniche seguenti fui perciò più cauto. Dovevo escogitare uno stratagemma per parlarle senza essere visto da altri che lei. Cercai perciò di rammentarmi tutti i movimenti che la donna faceva da quando entrava in chiesa a quando usciva, per trovare il momen­to in cui sarebbe rimasta sola, libera di ascoltarmi e di rispondermi, senza il timore di essere colta in fallo. Mi offrii al parroco come diacono. Pochi mi conoscevano a Tolosa: le mie cognizioni di la­tino bastavano a farmi passare per tale. Dissi che mi trovavo di passaggio in città, che si trovava giusto nell’itinerario del mio pellegrinaggio a Santiago di Compostela. Facevo affidamento sulla nota ignoranza del clero in questioni di strade e di geografia, e in particolare del clero del sud della Francia, che doveva difendersi dall’aperta ostilità dell’aristocrazia locale, alla quale ancora brucia­vano le ferite inferte dalla predicazione domenicana e dalla conseguente crociata indetta da Inno­cenzo III. Non si erano mai sentiti così liberi come sotto gli eretici albigesi. Ora il pugno di Roma li schiacciava con proterva violenza: li schiacciava e li saccheggia, l’appetito di Bonifacio VIII, allea­tosi ai Valois, pareva insaziabile. La civiltà, la poesia, l’arte occitaniche non erano ormai che una larva, un nostalgico ricordo. Ecco dunque che la domenica successiva, quando ella venne davanti alla balaustrata per accogliere il corpo di Cristo, vide ch’ero proprio io ad offrirle quel corpo con le mie mani, quasi come promessa dell’offerta di un altro e più appetibile corpo, e mentre infilavo l’ostia consacrata tra le sue labbra, pronunciai l’oggetto del mio sospiro e dissi. ‘Per vos7’. Quale dovette essere la sua sorpresa e il suo smarrimento! Mi guardò senza dir nulla, ingoiò l’ostia, si alzò, voltò le spalle, si allontanò, tornò al suo posto nel banco accanto al detestabile manigoldo che non la perdeva di vista un momento. La quinta domenica dopo Pasqua , ella era tra gli ultimi. Il volto, quando mi fu davanti, le s’illuminò. Sorrise, e prima che io le porgessi l’ostia, mi sussurrò: ‘Qu’en puesc?8’ Pochi giorni ancora e la beatitudine sarebbe stata raggiunta. Prima della domenica, venne il giovedì dell’Ascensione. La nostra Pentecoste era vicina. Le rovesciai addosso la mia di­sperazione, dissi: ‘Guerir9’. La domenica fra l’ottava dell’Ascensione non venne. Io precipitai dav­vero nella disperazione. Il gioco s’era interrotto: l’angelo mi rifiutava, oppure la mia angoscia non era l’angoscia per un angelo. M’immaginai tutte le perfidie, ma anche tutte le dolcezze, di cui quel­la donna potesse essere capace. Inventai mille pretesti, infiniti impedimenti che avessero potuto trattenerla a casa. Ma subito dopo mi scagliavo contro la sua malvagità, imprecavo alla crudeltà con cui mi aveva raggiato per oltre un mese. Mi raffiguravo il suo volto, le sue mani, i suoi occhi, e mi pareva impossibile che proprio alla fine di così lungo sforzo, quando i nostri desideri (nostri? ma erano davvero nostri i desideri, desideri di entrambi?), i nostri incoercibili appetiti sarebbero stati soddisfatti e si sarebbero placate le nostre smanie, proprio adesso ella mi tradisse in quel modo. Caddi in una rabbiosa cupezza, non uscivo dalla mia camera, mi buttavo sul letto, abbraccia­vo il cuscino, e urlavo, ma non sapevo che cosa, non sapevo chi implorare e chi detestare. Giunsi prostrato alla domenica di Pentecoste, certo ormai nel cuore che non l’avrei più rivista, forse era partita, andata via lontano, a Parigi, in Inghilterra, o ancora più lontano, dove il truculento marito (marito?), brutale e geloso, l’aveva trascinata, tirata per i capelli, malmenata, strapazzata, calpesta­ta, graffiata, uccisa. O Dio di tutti gli Olimpi, uccisa? Perché non ci avevo pensato? Infelice amore mio, tu sei morta, mia vita, e io respiro? Sbattevo la testa contro il muro. Mi feci male. E mentre mi asciugavo il sangue che colava dalla fronte, pensai che tutto quanto non era che un sogno. Forse quella donna non era mai esistita che nella mia fantasia, e io l’avevo sognata. Forse mi ero reso col­pevole di una colpa che ignoravo, ed ella così mi puniva. Ma poi, che differenza c’era? Sia che l’avessi sognata, sia che ella infine mi avesse respinto restava il torpore di quel vuoto, lo stordi­mento di una promessa elusa. Non guardavo nemmeno, la chiesa era affollata, anche se fosse venu­ta, mi sarebbe stato difficile individuarla in mezzo alla moltitudine vociante di tanti stupidi fedeli che si salutavano, si baciavano, sculettavano come demonietti infoiati. Ma che pensi, imbecille? L’unico infoiato, qua, sei tu. Solo un miracolo, mi dissi, poteva farmela comparire davanti. Mi sor­presi a invocare lo Spirito Santo, a chiedergli la grazia di farmela comparire. Nel giorno in cui era comparso alla Vergine e agli Apostoli riuniti in preghiera, facesse il miracolo di concretizzare da­vanti ai miei occhi la forma desiderata, il corpo inimitabile del mio angelo. E il miracolo avvenne. Ella era là, davanti a me, sorridente. Il suo sguardo, come la prima volta, mi penetrava nelle ossa. Aprì la bocca, vidi la lingua che si muoveva, e mi sentii affondare nella sua bocca, mi sentii perdu­to dentro di lei, finalmente libero di dimenticarmi, di non essere altro che quel mio perdermi in lei, quel dolcissimo e irreversibile vanificarsi dei sensi in un’unica, immensa, illimitata, inesausta e inesauribile ebbrezza. La disperata tendrur di quella vista mi fece accogliere come in sogno le sue parole: ecco, cadevo ai suoi piedi, facesse di me il suo respiro. Io, che fino a quel momento non ero stato altro che l’alito del mio sospiro, ora, vinto, soggiogato, mi prostravo ai suoi piedi e la implo­ravo di annientarmi, di distruggere, con la mia vita, il tormento di quel mio sospirare senza fine a un angelo che esiste solo nel mio desiderio. Ed ella disse: ‘Plas mi10’. Lo sapevo? O il troppo bra­mato beneplacito, come l’accordo di un potente sovrano al suo vassallo mi giungeva improvviso, inaspettato, un dono, una grazia, il cappio sciolto intorno al collo proprio sul punto in cui stava per stringersi? Succhiai dalle sue labbra tutta la beatitudine di quell’agognato assenso”.

Mentre Guido parlava, Dante aveva sentito crescersi dentro un’indignazione irrefrenabile, non tanto per ciò che l’amico gli andava raccontando, quanto per lo stile che s’inventava la storia, la costruiva a sua precisa immagine e misura, travalicava i confini della memoria, quasi che non la memoria fosse l’oggetto di così lungo parlare, ma lo stesso parlare, che finiva in tal modo col con­traddire, se non addirittura smentire e alla fine negare qualunque corrispondenza tra il bellissimo racconto e gli avvenimenti raccontati. Letteratura, e della peggiore specie. Quella che mescola l’invenzione letteraria, magari attinta da altre invenzioni, già codificate, registrate, e divulgate in bella copia, volumi preziosi, rilegati con copertine di pelle sbalzata, accarezzati voluttuosamente da delicate mani femminili, la mescola, questa bella e seducente invenzione, con la propria vita, anzi con le miserie, le secrezioni, gli escrementi della propria vita, e la spalma, la esibisce, la macella, e infine la offre alle affamate bocche degli ascoltatori come prelibata vivanda di orge poetiche. Av­vertì, nelle parole dell’amico, un così profondo disprezzo del mondo, e forse anche di se stesso, un così orgoglioso compiacersi della propria splendida solitudine, dei fantasmi con cui ne riempiva l’orrido vuoto, evocati, chi sa, non solo dal desiderio represso di una lunga astinenza sessuale, ma dal piacere anche di accarezzarne le sinuose e volubili forme, le uniche forse che concedessero alla contemplazione spasmodica dell’intelligenza l’appagamento di un’eiaculazione immaginaria, il soddisfacimento di un appetito tanto smodato quanto quasi soltanto intellettuale, che alla fine l’indignazione a lungo trattenuta esplose.

“La mia tenzone con Forese, sulla quale sembri storcere il naso, mi pare meno vile di que­sto tuo racconto che mescola il carnevale pagano con la liturgia cristiana, che sporca, anzi, e detur­pa la liturgia, e la piega agli uffici di una sordida ruffiana. Non racconti la storia di un angelo, in­tessi con astuzia e intrecci indissolubilmente le tue farneticazioni dissolute agli sconci appetiti di una puttana! Ho grazie grandi io appo te? Anzi, meravigliose! La Taide di Terenzio è meno svergo­gnata della tua Tolosana”.

“La storia”, rispose, calmo, Guido: “ha anche un’altra versione. Indovini quale?”

“Nulla di quanto hai detto è accaduto”.

“Vuoi dire che nulla è vero del mio racconto?”

“Nulla”.

Guido scoppiò a ridere.

“Ma qual è, secondo te, la verità di un racconto? Credi più vera la tua Vita Nuova?”

“Come sai che sto scrivendo un racconto che si chiama Vita Nuova?”

“Firenze è piccola, le voci fanno presto a girare e il tuo Forese, lo sai, non è uno che sa te­nere la bocca chiusa”.

Dante tacque. Si sentì colto in fallo, come se avesse voluto barare coi dadi.

“L’attesa comincia molto prima”, riprese Guido: “comincia dal mio guerir11, da quell’inuti­le richiesta di aiuto, e dura tuttora. E’ quest’attesa che ha trasfigurato in angelo una donna. L’amore non è nemmeno un atto: è solo un desiderio”.

Ma dicendo questo, Guido si accorse di mentire. Immaginazione, avrebbe dovuto dire. E soprattutto: segreto, inganno, reciproca finzione, nascondersi. L’oggetto amato diventa desiderabile solo se lontano, irraggiungibile, ricordato più che veduto. Appena lo si guarda, gli si parla, o si la­scia toccare, è una voce rauca, una presenza che infastidisce, un ostacolo che ingombra. Aveva ri­veduto Mandetta dopo qualche anno, e appena l’ebbe davanti agli occhi si chiese come avesse po­tuto delirare fino a quel punto. Gli occhi verdi e trasparenti erano solo diafani e acquosi, le labbra tumide e rosse due protuberanze flaccide e cascanti, sempre infiammate come due enormi pustole, il soave e delicato seno due mamme inesistenti, quasi di fanciullo. Hanno maggiore spessore e for­me più sinuose le filiformi figure di Simone Martini. Ma poteva anche darsi che fosse ugualmente falsa quanto la prima anche questa seconda immagine, la repulsione che lo assaliva così acerba­mente nel rivederla similmente sproporzionata al dato di fatto e ancora più alla cieca venerazione che l’aveva preceduta, Solo il tremito, l’angoscia, il desiderio, e poi la delusione, perfino il disgusto che lo forzava alla ripulsa e al distacco , lo svuotamento del cervello e del cuore gli parevano reali. Irreale tutto quanto il resto, l’amore trovava una forma e una consistenza solo nello stile, nella co­struzione di un fantasma, nell’ideazione di un ritratto immaginario, l’aspetto sognato di una bellez­za inafferrabile e separata dal mondo, che prendeva corpo e figura nella fatica di una pagina bene organizzata. Ecco perché lo irritava l’irruzione del disordine nella scrittura, l’avvento del deforme sulla pagina, disordine e deformità che parevano invece stregare l’amico. L’angelo non è né la don­na né il desiderio che la esalta, ma la pagina che lo raffigura: solo raffigurato l’angelo prende con­sistenza, s’incarna per così dire nel vagheggiamento d’un modello ideale. Non si può amare un ca­davere, ma si continua ad amare l’immagine che il cadavere dissolve. Ma forse ogni amore finito è il sepolcro che custodisce il cadavere della donna amata. Sarà così anche per le donne? E che cosa ricordano dell’uomo amato, gli occhi, la bocca, il viso, le mani, l’appendice irruente e retrattile che le procurava piacere? Ma poi: che cosa vuol dire amare, se non desiderare di congiungere e tratte­nere congiunto a sé ciò che invece si vede e si sente perduto e si teme ogni volta di perdere, anzi forse proprio ciò che si vuole perdere, perché se in effetti lo si possedesse, non lo si desidererebbe più? L’amore, dunque, non sarebbe amore di un oggetto, bensì del desiderio di un oggetto, del desi­derio cioè di possedere un oggetto o, forse, amore solo del desiderio e, più insidiosamente, deside­rio del desiderio. Come se, da parte dell’uomo, si confondesse la voglia che si ha dell’altro, il corpo della donna, con il bene stesso dell’altro, con il piacere di quel corpo, come se per lui il godimento di un possesso, del possesso finalmente ottenuto del corpo di una donna, si assimilasse, coincidesse con la felicità che si potrebbe invece leggere negli occhi della donna appagata. Come se la direzio­ne dell’amore fosse una sola, dal maschio alla femmina, e non conoscesse la via del ritorno. La fuga, allora, per l’uomo, comincia quando il segno è toccato, non è più segno, ma corpo, e si prova il bisogno di sfigurarlo, distruggerlo, il corpo, per estrarne di nuovo il segno scomparso, o cercarne, meglio, e inventarne un altro altrove. L’immagine, insomma, non corrisponde mai all’oggetto che dovrebbe rispecchiare, l’amore pertanto non adegua mai l’immagine all’oggetto, ma sfigura l’oggetto per adeguarlo all’immagine. Non si conoscono persone, si conoscono oggetti. Tutto ciò che si guarda è per l’occhio un oggetto. Due che s’incontrano, se sono un uomo e una donna, non si amano, si possiedono l’un l’altro, l’uno chiede all’altro solo ciò che non è, solo ciò che dall’altro si vuole o dell’altro si vede, ma restano perennemente diversi, l’uno e l’altro, dall’oggetto con cui en­trambi credono di giocare. Si percorrono miglia e miglia, si attraversano mari e montagne, ma quando poi si giunge alla meta, l’incontro non è il riconoscimento di una speranza, la conferma di un’attesa, ma la constatazione di un errore. Accade, tuttavia, che proprio l’errore, anzi il riconosci­mento dell’errore, insinui nella carne, più che nella mente, il sospetto di un’incompiutezza, o piut­tosto la paura di un’inadeguatezza, lo strazio di un compito evaso e sia la mente che la carne si ac­cendano allora di un desiderio tanto più devastante quanto più irrealizzabile. La sconfitta dei sensi e il rifiuto di accettarla da parte della mente, o qualunque sia la parte del corpo che presieda ai no­stri desideri e guidi la nostra volontà, non guariscono la stessa volontà dall’impulso che la spinge, anzi la sforza a ripetere la prova, a tentare la sorte, adescare la fortuna, violare la vita, per ritrovarsi un’altra volta sconfitta e rifiutata. Il distacco, l’allontanamento inarrestabile può sembrarci allora quasi una sorta di allettante dolcezza, quasi il ricompensarsi di una voluttà che spaventa, perché nell’attimo stesso in cui la si gode viene prefigurata la sua irreversibile fine. A spaventarci non è l’attesa che il piacere si compia, ma l’esaurirsi stesso del piacere. Il desiderio di un imminente pia­cere diventa, per questo, più reale di qualsiasi piacere goduto. E che cos’altro attrae la fantasia e il desiderio se non ciò che ancora non s’è goduto o, se goduto una volta, si pensa che possa di nuovo appagarci, con un piacere ancora più intenso di quello già vissuto e dal quale i sensi, mai sazi del limite toccato, anelano ancora di sentirsi sopraffatti, annichiliti.

“Io cerco Dio”, disse Dante: “o la verità, anche quando scrivo. Comunque tu voglia chiama­re Dio o la verità. Ma tu dai per scontato che Dio ti sia nemico, nemico anzi di tutta l’umanità”.

“No, non nemico: estraneo. Forse semplicemente perché è una nostra invenzione, come del resto anche l’amore”.

“E’ strano. Tu che dici di detestare il disordine nella scrittura, sei poi spaventato dall’ordine nella vita. Che qualcosa non possa accadere diversamente da come accade ti sconvolge. E allora, invece di tentare di capire come sia accaduto ciò che è accaduto, scateni la tua rabbia contro tutto ciò che si oppone al tuo desiderio. T’infastidisce che le cose non siano come vorresti che fossero. La tua esperienza del male è ridotta, non t’indigna, non arma la tua mano contro l’ingiustizia: è male per te solo ciò che contrasta i tuoi desideri”.

“E’ forse qualcos’altro, di più, di meno, il male?”

“Se lo riferisci a te stesso, no. Ma non sei qui sulla terra l’unico bipede che parla”.

Guido si sentì infastidito, irritato da quell’appello generosamente etico. Avrebbe dovuto fare il predicatore, non il poeta quell’amico così intelligente, ma così moralista, intollerante. Le cose tutte quante, e dunque anche le azioni degli uomini, hanno regole, misure, cataloghi, inventari, caselle in cui essere collocate, e giudicate. Ma chi aveva giudicato che lo sperma di suo padre fe­condasse quel dato giorno l’utero di sua madre e lui così venisse al mondo? Chi giudicava il mo­mento in cui il respiro l’avesse abbandonato? Aveva ucciso in battaglia un ragazzino. E allora? Se non lo avesse ucciso, chi sa, quel ragazzino avrebbe ucciso lui. Una battaglia è una battaglia: chi giudica da che parte sta il bene? e per chi sia giusto e per chi no ammazzare l’altro? Se un giorno quel maniaco della giustizia a tutti costi, in una terra che conosce solo l’ingiustizia, e la conosce da sempre, se un giorno quel visionario concepirà qualcosa di grande, è capace di farlo, un’opera che meravigli tutti quanti, e per secoli, sembra destinato a qualcosa di simile, ebbene, se quell’amico troppo amato, forse proprio perché così diverso da lui, se quell’anima generosa, ma inflessibile, im­maginerà un giorno di scrivere il libro che salverà il mondo, un libro del destino quasi come la Bib­bia, o forse più della Bibbia, un’enciclopedia della sapienza umana, il tesoro di tutta la storia dell’umanità, quell’uomo ammirevole, dolcissimo, eppure così rigido, così implacabile scriverà al­lora il Giudizio Universale di tutta la storia dell’uomo, si porrà lui stesso sul trono di Dio, e caccerà con la sinistra giù nell’inferno l’infinita moltitudine dei dannati di tutte le epoche, per afferrare e stringere con la destra, sollevandoli fino alla luce della beatitudine, lo striminzito manipolo dei giu­sti e dei salvati. Come poteva immaginare che questo fosse il bene, questa la giustizia, questa la vo­lontà di Dio, questo il destino del bipede che parla?

Guido fissò in faccia l’amico. Sentì che un’amarezza inconsolabile gli allagava il cuore. Era destino che amasse di un amore impossibile l’unica donna che l’aveva respinto e che provasse per quell’amico inimitabile un’ammirazione e un amore, che probabilmente non erano ricambiati con la stessa misura e intensità. Non poté dire una parola. La voce gli si soffocava in gola. Stese una mano. L’amico gliel’afferrò e la strinse forte. Egli allora prese la mano dell’amico con tutt’e due le mani e la strinse così forte quasi da fargli male. Sentì due righe di lacrime scivolargli calde e lente sulle guance. Si rimproverò la debolezza di lasciarsi vedere così facilmente vulnerabile dall’amico. Ma la fragilità del cuore è una natura difficilmente controllabile.

“Presto morirò”, disse: “lo sento. Ma questa volta per davvero e non soltanto per figura”.

“Fantasie!” rispose l’amico: “sono anni che annunci al mondo intero di morire, che procla­mi a gran voce imminente la tua fine”.

“Perché mi giudichi così severamente?”

“Ma non eri tu, invece, che sei venuto qui per giudicare la mia condotta?”

“Giudicarti! No, volevo solo metterti in guardia dal giudizio della città, ma soprattutto ri­cordarti la tua dignità, riconfermarti l’onore della tua posizione di uomo pubblico e di poeta, che sembravi avere smarrito”.

“Il male, forse, in sé, non è nulla. Qualcosa che ci manca, la sottrazione di un oggetto desi­derato, la sofferenza per ciò che si vorrebbe essere e non si è. La volontà di ciascuno si muove solo per amore di qualcosa che l’attrae: e questo è ciò che noi chiamiamo bene. Proviamo gioia e diletto, se il bene c’è ed è da noi posseduto, ma se lontano o non ancora raggiunto, nel desiderio e nella speranza si racchiude quanto la memoria crede amore. Dunque puoi vedere come sia tutto e solo amore ciò che ci spinge a desiderare e a possedere, e tutto e solo bene ciò che si desidera e si pos­siede. Perfino la conoscenza, l’atto dell’intelletto, non avrebbe principio, se a muoverla non inter­venisse qualcosa ch’è prima dell’intelletto, nella volontà, desiderio appunto di possedere non un oggetto ma la comprensione di un oggetto. Questa comprensione, però, non sempre corrisponde a ciò che si attende e allora chiamiamo male la delusione, o piuttosto l’inganno, la lacerazione tra ciò che si aspettava e ciò che come un muro ci ostacola e ci costringe a sbattervi inutilmente contro la fronte. Si tratta quindi di scegliere, a questo punto, la misura sulla quale misurare il nostro concetto di bene: se ciò che ci appaga o ciò che non possiamo mutare perché sta fuori di noi. Io dico bene ciò che esiste, non ciò che vorremmo”.

“Ora che Agostino e Tommaso hanno messo ordine nelle nostre idee, che cosa sappiamo di più di quanto sapevamo prima? La conoscenza non nasce dal desiderio, e il bene non è fuori di noi. La conoscenza nasce dalla meraviglia che destano in noi le cose del mondo, e che ci spinge a chie­derci la causa della meraviglia. Come puoi distinguere qualunque fuori, qualunque oggetto, in sé, dal fuori e dall’oggetto che la tua volontà desidera e il tuo intelletto circoscrive? Come puoi dise­gnare l’angelo del tuo delirio nella donna che per la strada ti saluta? E che conforto, questa cono­scenza, e quale pace può dare all’angoscia, alla paura che ti assale per ciò che non si sa, non si co­nosce?”

Il sole cominciava ad entrare nella stanza. Le candele si erano spente. Una penombra legge­ra avvolgeva le cose e il raggio di sole, penetrando dalla finestra, la trafiggeva. Anche il sole, dun­que, sembrava offrire l’immagine di una ferita, di una dolcezza che divide, di un contatto che di­strugge. L’ombra ne veniva squarciata, e il raggio penetrava nell’ombra per dissolverla, le si univa per cancellarla. Dentro il fascio di luce che il raggio apriva nell’ombra brulicava un pulviscolo lu­minoso che pareva conferire una vorticosa consistenza alla invisibile sostanza dell’aria, come se quelle irrequiete particelle di polvere rivelassero all’improvviso all’occhio umano la materia di cui è composto il mondo. Pareva suggerire che l’invisibile è un’illusione, che anche la più piccola e la più trasparente delle particelle gode di una consistenza non inferiore a quella di un insetto. Guido fissava la luce del raggio con occhi stupefatti, avvertiva nell’irruzione di quella luce una violenza che credeva di conoscere, di averla anzi sperimentata, vissuta sulla pelle, e sentita sconvolgergli il flusso del sangue nelle vene, il calore e il chiarore del raggio non gli apparivano diversi, né meno rapaci, crudeli, dalla luce dell’angelo che lo aveva guardato nella Dorata di Tolosa, riconosceva anzi nell’effusione di quegli splendori abbaglianti lo stesso veleno insidioso che l’angelo gli aveva iniettato nelle vene quando dopo una tumultuosa e furibonda notte d’amore lo aveva congedato, freddato con una sola parola: addio. Che c’entravano le male lingue? la gelosia del marito? il brusio pettegolo di una città provinciale? Non siamo a Parigi, aveva detto. Si era stancata. Forse annoiata. Aspettava qualcuno che la divertisse con nuovi giochi. L’amore in poche notti sembrava essersi in­vecchiato. Firenze gli parve a un tratto perduta in una lontananza senza ritorno. Sentiva, non sapeva perché, che non vi sarebbe morto, che anche la sua città lo congedava, e la sua vita si sarebbe visto costretto a lasciarla altrove, depositarla in un’altra terra, in una terra straniera, inospitale, paludosa, malsana. Chi sa come gli venivano simili premonizioni. Ma sapeva che partito da Firenze non avrebbe avuto più nessuna speranza di ritornarvi. E gli maturava dentro, come una pianta che a poco a poco si radicasse nella sua carne, una angoscia inconsolabile, quasi una malattia, del suo cuore già morto, della sua mente che sembrava volergli scappare via per chi sa quali strade. Voleva dirglielo all’amico: tu non sai come sono malato, qui, nella regione del mio cuore. Ma lo avrebbe deriso, forse. Continuava a fissare il raggio di luce. La naturale delicatezza con cui la luce del sole prendeva possesso delle cose, le denudava per offrirle al suo sguardo, gli appariva devastante e ter­ribile quanto la lancinante bellezza degli occhi dell’amata, il freddo smeraldo di uno sguardo che taglia l’aria, attraversa la pelle, ferisce il cuore, e lo uccide. Il bagliore fulmineo di quello sguardo accecava la vista come l’improvvisa epifania del sole in montagna, uscendo dal bosco. L’angelo si concedeva solo per ottenere una più completa sottomissione, non permetteva alla tenerezza di av­volgerlo e insinuarsi tra le sue membra se non per distruggere proprio con la tenerezza nel cuore se­dotto ogni altro appetito, e annegarlo nella melassa di un imbambolamento definitivo, in modo da troncare sul nascere qualsiasi velleità di opporsi al suo trionfo. Detestava il giorno: non perché con­trastasse la notte, le sottraesse la sua morbida e inquieta indeterminatezza, ma perché nel ritmo not­turno del tempo egli sentiva più naturalmente imprigionarsi l’anelito del proprio corpo, come se, immerso nell’indistinta materia del buio, quell’animale da indistinti aneliti animato, ch’egli avverti­va gemere e godere dentro se stesso un respiro rubato alla memoria della sua infanzia, finalmente s’appagasse nella quiete d’una perenne estraneità alla vita, e come quel pulviscolo luminoso entro il fascio di luce riposasse irrequieto ma placato nel brulichio d’un indifferenziato levitare tra le cose. La luce propone un’immagine falsa delle cose: sembra , infatti, che ogni cosa abbia margini definiti, possa essere misurata, toccata, usata; invece le cose sfuggono, non hanno confini precisi, non si lasciano catturare. Quelle che oggi, sotto una particolare luce, ci appare in una certa forma, con determinati contorni, di una propria consistenza, un altro giorno o in un altro momento, sotto altra luce, apparirà diverso, deforme o addirittura informe, sfumato, trasparente. Ma allora qual è la luce giusta? La luce s’impone a spese del buio, lascia vedere solo ciò ch’è riuscita a strappare al buio, solo ciò che il buio non può sottrarle. E’ un parassita: vive di ciò che ruba. Le cose, però, si vendicano: non si fissano nell’occhio, scompaiono non appena si distolga lo sguardo, non si lascia­no afferrare, ogni notte ritornano alla loro primitiva indeterminatezza, ripiombano nel nulla da cui le avevamo con violenza estratte. Il bene! Che cosa sarebbe il bene senza la paura e il desiderio del male? Irreali entrambi, senza la contrapposizione dell’altro, e non perché sia necessario riconoscere la consistenza anche fisica di una realtà qualsiasi, poco importa se interna o esterna, o addirittura ammettere il valore (già! il valore: ma quale delitto non è stato commesso chiamando in causa ogni volta un valore?), il valore morale, diciamo, dei principi che dovrebbero regolare le nostre azioni, e da qui prendere le mosse per misurare la liceità dei propri atti, no, no, non già per questo, bensì per­ché l’uno non è che la faccia nascosta dell’altro, il bene del male o il male del bene, poco importa l’ordine, o la precedenza, e sia l’uno che l’altro si determinano, si misurano, si valutano e si oppon­gono solo nel nostro cervello, a seconda che il desiderio ne invochi l’assenza o ne tema la perdita. La morale umana s’illude se crede di potere misurare, e quindi valutare, le azioni degli uomini: si regge in realtà su presupposti, mai esplicitati, perfettamente intercambiabili. Unica misura possibi­le, nella grande confusione che la vita sparge a piene mani nel mondo, unico punto di certezza, se proprio bisogna possederne qualcuno, è lo stile, che non conosce né bene né male, né soggetti né oggetti, ma soltanto forme, apparenze, desideri.

“Il tuo amore”, disse Dante: “è una volontà perversa di possesso che annienta il desiderio perché non può annientare l’oggetto che lo scatena. Il tuo mondo è un mondo di desideri inappaga­ti”.

“Inappagabili”, sussurrò Guido. Si sentiva strozzare: qualcuno lo afferrava alla gola, gli to­glieva il respiro; la vista gli si appannava, i sensi gli si annebbiavano, come se fuggissero via dal corpo. “Inappagabili”, ripeté, quasi senza voce.

“Ma che cos’hai?” domandò Dante. Si avvicinò all’amico, lo scosse, afferrandogli gli omeri e scrollandoli bruscamente, lo fissò negli occhi. Guido pareva non vederlo: guardava, con le pupille immote, un punto lontano, oltre il corpo dell’amico, oltre i muri della stanza, come se gli oggetti venissero attraversati dal suo sguardo senza lasciare traccia nella memoria. “Guido!” gridò Dante: “Che fai? Questa tua ostinazione a piangere ciò che hai perduto, ciò che non puoi più ottenere, è in­fantile. E io? Che dovrei dire io, di me, che piango una morta? E che cosa sono io per te? Che cosa la nostra amicizia? A quale inferno, se ogni amore è inferno, apparterrebbe il nostro amore, il mio per chi non c’è più, il tuo per chi non ti vuole più? E perché parlarne, io a te e tu a me, se non per amore? Ma più di tutto, amico a me caro più di chiunque altro, a quale inferno apparterrebbe il mio amore per te e il tuo per me?”

“Amore?” mormorò Guido.

“Sì, amore! Quello che ci ha tenuti per una intera notte chiusi qua dentro in questa stanza, l’uno di fronte all’altro, a implorare, l’uno dall’altro, una scheggia della propria anima, il conforto di condividere la stessa infelicità”.

Guido chinò il capo. Il corpo si sciolse dalla contrazione nervosa che l’aveva irrigidito, ma a quella ostinata rigidezza sembrava ora sostituirsi l’afflosciarsi d’ogni fibra, l’allentarsi dei musco­li in una molliccia inerzia, tutte le membra distendersi pertanto in un innaturale riposo, che tuttavia sembrava preannunciare nuove contrazioni. Amore anche l’amicizia, certo. Non per niente le due parole nascono dalla stessa radice. Ma quanto c’era di sincero nella confessione dell’amico? O per­ché quella notte l’aveva sentito, e continuava a sentirlo ormai così lontano, separato, crudele, indif­ferente, e forse perfino ostile? La severità con cui giudicava se stesso non si sarebbe ammorbidita nel giudizio sugli altri solo per la tenerezza di un affetto, avrebbe anzi soffocato l’affetto, avrebbe fatto prevalere il giudizio sulla solidarietà, il sentimento, la lealtà. Il giudizio! Anche nei momenti di dolcezza non dimenticava mai che posto darle tra i suoi sentimenti, se giudicarla un atto d’amore o di debolezza. Era certo che se un giorno il contrasto tra loro due si fosse spinto al ripudio non più soltanto delle idee, ma anche dell’uomo che le professava, del suo comportamento, non avrebbe esitato un momento a condannare questa diversità, a scacciarlo dal cuore e dalla mente, a espellerlo dalla sua cerchia di amici e, forse, ne avesse avuto il potere, dalla città. “Una scheggia, certo”, so­spirò: “ma non dell’anima: del mondo che ci manca. Ognuno di noi due lo cerca nell’altro, come una conferma della propria mutilazione, ma poiché non una conferma vi riscontra, bensì, se pure diversa, un’altra mutilazione, allora è subito tentato di cancellare nell’altro proprio quella cicatrice che testimonia e rispecchia la propria indigenza, cancellarla, sì, distruggere quella parte dell’anima in cui fa sentire la traccia di una sofferenza e, se necessario, distruggere l’uomo, il sodale, l’amico, il compagno di lotte politiche e letterarie, non importa se poi il prezzo da pagare sarà di nuovo l’immedicabile angoscia di una perdita. Ma ti chiedo: e se il mondo che inseguiamo e di cui sentia­mo la mancanza fosse solo una nostra fantasia? o il fuori che cerchiamo non fosse che lo specchio del nostro dentro? o non altrimenti potessimo vedere ciò che sta fuori se non come immagine rifles­sa di ciò che dentro di noi desideriamo? Amico mio, chi sa se forse i nostri angeli, adesso, senten­doci così parlare di loro, non si mettano a ridere: non avrebbero mai pensato, credo, di vedersi spuntare un giorno due ali alle spalle sul posto delle scapole. Anch’io ti amo, amico mio: più di chiunque altro amico. E forse la profondità o, se preferisci, l’inferno di questo mio amore, non lo conosci appieno. L’hai detto comunque anche tu, mi pare: l’amore non è qualcosa di reale, qualcu­no che esiste, una forma, una sostanza. E’ un atto, qualcosa che accade, tra una persona e un’altra”.

“Tommaso così lo definisce”.

“Hai sempre bisogno di un’autorità che confermi le tue idee. Ma sia. Spesso, però, quest’atto accade in una sola persona. L’altra o si rifiuta o è del tutto superflua. E allora?”

Dante si aspettava questa obiezione. Conosceva anche lui, come l’amico, la disperazione di un amore solitario, il grido che non riceve risposta, il silenzio degli angeli e di Dio, aveva sofferto anche lui lo sguardo evitato, il dirottamento dei passi su sentieri non calpestati dal proprio piede, se l’oggetto del proprio tormento lo s’incontrava per caso, durante una passeggiata, e se si osava per giunta insolentemente alzare la mano in segno di saluto. “Allora arriva il momento di fermarsi”, disse: “di guardarsi indietro, di cercare il punto in cui si è smarrita la strada, riconoscere che lo smarrimento nasce da qualche errore, fosse anche un errore tutta la nostra vita fino a quel punto, e avere il coraggio di rifare tutto il cammino, da capo, e affrontare le cose come sono, non come si vorrebbe che fossero. Al di là dei nostri deliri, e sopra questi nostri infimi turbamenti, dietro le no­stre immaginarie contorsioni amorose, ci deve essere una via più solida per giungere al nodo di questo fantasticato intrico. Credo, infatti, che la vita stia altrove, al di là delle nostre fantasie”.

“Conosco questa tua via: non è la mia”.

“Perciò il tuo dolore ti sembra inconsolabile, senza speranza”.

“Ma lo è!”

“Potresti trovargli la via di uscita”.

“Dio?”

“E che cosa, o chi, altrimenti?”

“Già. Dimenticavo che c’è una terza persona che si preoccupa di noi, che si precipita a sal­varci quando corriamo un pericolo. Si fa chiamare Spirito e si compiace di definirsi Amore, il Mo­tore di tutto l’universo. Resta comunque il fatto che questo Spirito, per significare agli uomini la sua vera natura, si è visto costretto a prendere un corpo e questo corpo se lo è costruito nell’unico modo con cui lo costruisce la natura: nel ventre di una donna. Anche lui ha dunque ha avuto biso­gno di un angelo per attuare concretamente la propria volontà, e lo ha voluto perfetto: donna e ver­gine. Degli altri senza sesso non sapeva che farsene”.

“Perché sei sempre così acido quando parli di Dio?”

“Perché lui sta addirittura zitto quando io sto male”.

“Sei tu che non vuoi ascoltarlo”:

“Già, già, e come no? Ma dimmi, amico mio: e se questa via non ci fosse, e non ci fosse non già perché impenetrabile all’uomo, bensì, molto più semplicemente e, se ci rifletti, più logica­mente, perché al mondo esiste solo l’intrico? Che senso ha cercare una spiegazione fuori della cosa da spiegare, una causa senza capire la sostanza dell’effetto”.

“Sei come quegli che, voltandosi indietro e guardando, crede di guardare avanti le cose che guarderà, invece che indietro quelle già guardate”.

Guido scoppiò a ridere. “Che posizione scomoda!” esclamò. “Saprei benissimo di guardare indietro. Ma se guardo avanti vedo i miei piedi, la strada su cui cammino, e nient’altro, non vedo certo le cose che vedrò, prima di vederle”.

“La volontà s’invera sempre nell’intrico, nel disordine, negli appetiti, nel caos, prima anco­ra che un ordine possa essere pensato dalla mente. Perciò a distinguere nell’intrico, nel caos degli appetiti il bene dal male, il vero dal falso…”

“Scusami se t’interrompo: ma ciò che si sente non è né vero né falso, è”.

“… il vero dal falso”, riprese Dante, irritato: “se c’è un vero, e un bene, e che cosa siano questo vero e questo bene, a comprenderlo, e distinguerlo, il desiderio non può guidarci, non è suf­ficiente a spiegarcelo, ma deve condurci per mano l’intelletto, con cui solo possiamo attingere alla conoscenza delle cose. Il desiderio vede solo ciò che vuole vedere: la sua è una realtà ridotta, muti­lata, buona o cattiva, a seconda se lo soddisfa oppure no, ma sempre una parte di ciò che è. Ora io dico che qui sta il punto della nostra discussione: può essere a noi grato o no, può darci diletto o farci soffrire, ma esiste un piano delle cose che il nostro desiderio trascura, forse lo ignora, ma è più probabile che gli dia fastidio, perché contrasta con i suoi impulsi fondamentali, e perciò finge che non ci sia, decide che gli conviene considerarlo inesistente: se ne avverte invece l’esistenza quando i nostri desideri più forti incontrano un’opposizione, vengono contrastati. Ora, è proprio questa parte del mondo che oppone resistenza ai nostri desideri, questa zona oscura, inafferrabile, ma limita le nostre azioni, ne circoscrive il campo, ne ostacola la prevaricazione, indirizza o distor­ce i moti dell’animo, guida i passi nel cammino della vita, è questa cosa consistente, inevitabile, ciò che io chiamo realtà. Che poi questa realtà debba il suo ordine, la sua costituzione a un Dio o sia piuttosto regolata dalla Fortuna , è un altro discorso. Ma nessun desiderio, per quanto violento, per quanto invadente, potrà mai contrastarla o, addirittura, illogicamente negarla. Il tuo Dio vive lonta­no dagli uomini, indifferente al loro destino o, come talvolta sembri affermare, non vive, non c’è, possiamo discuterne fino a domani, fino a dopodomani, fino alla fine dei nostri giorni, e non ne verremo mai a capo, tu continuerai a volere morta col tuo corpo anche la tua anima, io continuerò a crederla immortale. Ma questa realtà che ci contrasta, che ci oppone la sua resistenza, devi ammet­terlo, non potrai mai abolirla, o se tenterai di farlo, l’abolirai soltanto nel tuo pensiero. Chiamala pure caos, disordine, male, essa ti opporrà sempre ad ogni tua imprecazione la durezza della sua persistenza, al tuo sogno di libertà assoluta l’invulnerabilità della sua testarda e massiccia concre­tezza. Il bene è questa realtà che il cuore non riesce ad afferrare, lo sguardo che oltrepassa i limiti del desiderio: il vero è riconoscere che al di là del nostro sguardo il mondo è ignoto, ma non per questo inesistente o necessariamente nemico. Il bene è l’ordine delle cose, il male il disordine che v’immette la nostra libidine. Il vero sta nel riconoscerlo, e rispettarlo. Il male peggiore è restare dentro i nostri limiti di animali spauriti, confondere e scambiare anzi quei limiti non già con i limiti del nostro occhio, ma con i limiti del mondo”.

“Parli bene tu! Ma non vivi per niente come parli. Si direbbe, anzi, che io, l’eretico, il mi­scredente, viva una vita di asceta e tu, il devoto, l’eletto da Dio, da dissoluto”.

“La materia è sorda. Non sempre risponde alle intenzioni della ragione. Il cuore conosce impulsi che la ragione disapprova, ma non è capace di frenare e spesso anzi ne resta sopraffatta”.

“Molto comodo dare la colpa del male al cuore. Come se la ragione fosse neutrale, innocen­te. Perché vi ostinate tanto a separare il corpo dall’anima, voi cristiani? Aristotele non ha mai scrit­to nulla di simile. E Tommaso salta sugli specchi per immettere lo spirito, un principio evanescen­te, astratto, in un sistema sostanzialmente materialistico, e attribuire così un’anima al corpo, come se fossero una sostanza a sé, e non una parte della materia, del corpo, anche l’anima, anche lo spiri­to”.

“Recalcitri a riconoscerlo, ma la tua opinione della materialità dell’anima non è più fondata della mia che sostiene la sua spiritualità: entrambe sono, a loro modo, una fede”.

“La mia ha dalla sua l’evidenza della morte degli animali, compreso l’uomo. Perché soltan­to l’uomo dovrebbe fare eccezione? Perché la natura dovrebbe concedergli il privilegio di non mo­rire?”

“L’evidenza dei sensi non è la certezza della ragione: anche la terra ti sembra piatta, ed è invece una sfera, come la luna, come il sole”.

“E sarebbe una certezza della ragione l’immortalità dell’anima? La possibilità che invece muoia con il corpo ha più fondatezza della tua illusione di sperarla immortale”.

“Perché allora soltanto l’uomo parla?”

“Il tuo Filosofo lo spiega bene: perché così si fa completa la scala degli esseri viventi, dalle piante agli animali, dall’insetto, dal verme, all’uomo. La natura non fa salti, come una cattiva trage­dia: ricordi?”.

“Una vita che non abbia la sua spiegazione ultima in un principio più grande della vita, la credi degna di essere vissuta?”

“E credi dignitoso sprecare il tempo della propria vita a cercare una spiegazione oltre la vita e imporsi uno scopo dopo la vita?”

“Ti basta questa breve che t’è concessa quaggiù?”

“Se anche non mi bastasse, perché dovrei inventarmene un’altra? Per consolarmi battendo­mi il petto tutto il giorno?”

“Non sono così bigotto!” protestò Dante.

“Ma dove io vivo, il modo e l’intensità del mio sentire, stanno dentro un cerchio che il mio desiderio disegna: solo le cose che si trovano nel cerchio io vedo, tocco, amo, distruggo. La via che esce fuori dal cerchio non è conosciuta da nessuno: se c’è, è una via intransitata e intransitabile. Accende, certo, la fantasia, ma non conduce da nessuna parte, perché ritorna sempre al punto da cui si era mossa, e questo punto è dentro, non fuori del cerchio. Non è possibile per nessuno staccarsi dall’intrico nel quale il desiderio lo impiglia. Nemmeno per te, che sembri avere trovato nuova gui­da ai tuoi vagabondaggi, nuova donna per i tuoi amori. Ma la Ragione non è cosa più salda solo perché invece di sensi usa parole. I fallimenti sono altrettanto probabili che il delirare del cuore: e anche più crudeli, perché non ammettono oblio. L’ultima ratio è sempre un deserto: quando si è spiegato tutto e ci si accorge che non si è chiarito niente e allora l’intrico nel quale ci si smarrisce resta inestricabile”.

“Se il mondo non fosse altro che un intrecciarsi di cerchi anelanti, separati, indifferenti l’uno al raggio dell’altro, allora, è vero, tu vivi e sei isolato nel cerchio dei tuoi desideri, ma esiste anche il cerchio della donna, dell’angelo: che cosa sei tu per l’angelo, e che cosa chiede l’angelo da te?”

“Sono quale egli mi vuole e ciò che mi chiede io ardo di darglielo”.

“Ma che direbbe Monna Vanna di questo tuo nuovo angelo tolosano?”

“Monna Vanna non è che il riflesso dell’angelo che io sogno. La donna di Tolosa era invece il riflesso dell’immagine che la mia Primavera fa bruciare nel mio sguardo: quando i miei folli oc­chi l’hanno veduta, si sono rispecchiati in quest’immagine e vi hanno riconosciuto il sogno che l’angelo vi aveva impresso”.

“Mi pare un po’ contorto, a dire il vero. E alquanto enigmatico. Come poeta puoi anche na­scondere la tua verità dietro una bella immagine. Ma con me, amico, la verità e la poesia devono essere la stessa cosa. Qual è, dunque, il tuo vero angelo? e, soprattutto, che cosa è, per te, un ange­lo, quale la sua natura?”

“Quand’ebbe detto ‘plas mi’, Mandetta (questo era il nome della bella di Tolosa, e con que­sto nome ella mi rivelava la sua natura di angelo), Mandetta mi fece un segno con la mano e m’indicò una nicchia aperta, a destra dell’altare che si trovava all’estremo della navata, prima del transetto, proprio là dove la domenica di Pasqua, dietro la colonna, le avevo confessato la mia mor­te d’amore. Appena la messa fu finita, mi precipitai verso quella porticina en entrai in una piccola cella. La donna che prima aveva riso di me mi aspettava con le braccia conserte, in piedi davanti a un’immagine dell’Annunciazione. Su fondo d’oro un angelo bianco con le ali rosse porgeva con una mano un lungo giglio verde e bianco a una azzurrissima Madonna, annunciandole così la venu­ta d’Amore; in alto, nel mezzo della tavola, sopra l’ultimo calice del giglio, alitante tra la testa bionda dell’angelo e il capo velato della soave creatura azzurra, una candidissima colomba, come fossero aerei sospiri che uscissero dal suo becco, irradiava nell’aria dorata dorati dardi che la divi­na trafittura incidevano nel cuore della vergine eletta. Il capo della messaggera terrena toccava qua­si la mano dell’angelo, il candore della sua fronte pareva gareggiare con la bianchezza del messag­gero celeste e del giglio che porgeva alla divina e castissima amata, l’oro dei capelli splendeva più dell’oro che faceva da sfondo alla scena, e io già mi sentivo smarrire in un dolcissimo sospiro per l’estenuazione di quel guardare, ma dalla mano sinistra della donna che la mia donna aveva eletto a messaggera vidi spuntare il colore giallognolo dì una carta e al divino messaggio dell’aurea raffi­gurazione vidi aggiungersi, in un solo campo, l’umano invito al futuro divino diletto. Ella sorride­va, non disse nulla. Mi avvicinai a lei tremando e quando le fui con il viso sopra il suo viso, come se la mia bocca dovesse leggermente posarsi sulla sua bocca, ella mi diede il biglietto e fuggì via ridendo. Quella stessa notte, e poi altre notti ancora, Mandetta dormì tra le mie braccia e io credetti di avere toccato il mio paradiso. La dolcezza pareva ogni notte oltrepassare la dolcezza della notte precedente e qualsiasi altra dolcezza fino allora provata, perché il desiderio, invece di acquietarsi, si accendeva ogni notte, dopo essere stato appagato, di più ardente acume e io mi sentivo ogni notte consumare nello spasimo di consumarmi fino all’estremo annebbiamento dei sensi, a quel limite ul­timo della percezione del piacere, oltre il quale il piacere supremo è morire. A quel limite, tuttavia, non so se per pietà o con perfidia, ella non volle condurmi: e una notte l’aspettai invano. L’onda del desiderio mi travolgeva, vidi l’alba spuntare e imbiancare il letto nel quale, solo, sospiravo l’assente. Frequentavo ormai la sua casa con una certa libertà: il marito mi mostrava una particolare predilezione, alcuni amici gli avevano parlato di me ed egli ora mi pregava di andare sempre più spesso da lui. Passavamo le sere a discorrere di filosofia, a ragionare delle nuove teorie arabe che tanto rumore e scandalo suscitavano tra la gente di chiesa o, piuttosto, tra i prelati della gerarchia: i giovani chierici che vagavano da una cattedrale all’altra, da una università francese a una università tedesca o italiana, ne erano invece entusiasti. E faceva rumore la lettura, la consultazione e l’uso di Averroè e Avicenna, ma anche dell’ebreo Maimonide, tra i banchi e le cattedre della Sorbona, o an­cora più nella Scuola di Navarra. Mi fece conoscere qualche poeta del nuovo stile provenzale e francese, leggemmo insieme il romanzo Flamenca, uscito da poco, e che veniva divorato soprattut­to dalle dame. Ma il nostro piacere maggiore stava nel leggere e rileggere i romanzi di Chrestien de Troyes, di Thomas, di Béroul. Le sofferenze di Lancillotto, i patimenti e la morte di Tristano gli strappano le lacrime dagli occhi. Ella restava indifferente alla commozione del marito, si lasciò solo scappare un debole ‘Ai las’, quando con voce morbida, suadente, condotta ad arte sul limite del sussurro, lessi la dolcissima morte di Ysolt:


Tristrans morut pur son desir,

Ysolt q’a tens n’i pout venir,

Tristrans morut pur sue amur,

E la bele Ysolt pur tendrur.


Ella ripeté a voce bassa i versi, accennò una melodia sul liuto e infine condusse, cantando e suonando, un mottetto a due voci nel nuovo stile di Nôtre Dame, che tanto irrita il Papa. Ma c’è stato forse un momento, nella sua storia, che la Chiesa abbia accettato, riconosciuto, onorato e pra­ticato il nuovo? Anche la poesia, anche la musica le fanno ombra, se non osservano le regole di una secolare ubbidienza. Ma so che, almeno su questo, anche tu sei d’accordo”.

“Continua il racconto”.

“Non fu la sola volta che, senza intervenire nelle nostre conversazioni, ella cantasse, ac­compagnandosi col liuto. Quando non si accomiatava, con qualsiasi scusa, stanchezza, mal di testa, paura di disturbare – oh sì! aveva la sfrontatezza di pretendersi inopportuna, quando sapeva bene che quando poi mi fossi congedato dal marito, e lei lo avesse salutato sulla soglia della camera da letto, per dargli la buona notte, io l’avrei subito raggiunta nei suoi appartamenti, nascondendomi prima dietro una tenda dell’anticamera e poi, quando la casa fosse piombata nel silenzio del sonno, mi sarei rapidamente infilato tra le lenzuola del letto dove ella mi attendeva. Spesso, però, le serate musicali si protraevano fino a tarda notte. Portai anch’io, qualche volta, una mia ballata o canzone, ed ella la cantava, improvvisando la melodia: egli lodava le parole e la musica, io allora lodavo la voce che aveva dato nuova forma sensibile alle parole e alla musica. Ma ascoltando il suo canto, la nuova melodia che intonava i miei versi, le mie parole quasi non mi appartenevano più, mi arriva­vano da sconosciute regioni: perfino la sua voce mutava. E mi chiedevo chi fosse l’anima, quale fosse la natura dell’angelo che così cantava il mio dolore: solo il suo canto, infatti, finalmente dava un corpo alla mia paura. Questa paura era la sua voce, il suo sguardo mentre cantava, il mio deside­rio che così spudoratamente la sua voce e il suo sguardo mi rovesciavano addosso, e quasi mi spor­cavano, come una pioggia di fango, di melma viscida e vischiosa, sospesi, la voce e lo sguardo, tra la paurosa lontananza dell’angelo e l’avvolgente sensualità della donna.


I’ vo come colui ch’è fuor di vita,

che pare, a chi lo sguarda, ch’omo sia

fatto di rame o di pietra o di legno,


che si conduca sol per maestria

e porti ne lo core una ferita

che sia, com’egli è morto, aperto segno.


I messaggi pellegrinavano dalla sua bocca ai miei occhi e alle mie orecchie e io tremavo che per via ogni altro occhio e ogni altro orecchio potesse vederli e ascoltarli così come io li vede­vo e li ascoltavo. La memoria del mio sospirare, ora che non solo il canto, ma anche il suo sguardo, mi veniva tolto, m’accendeva nel cuore nuovi sospiri e nuove paure, poiché del cantare e del guar­darmi il termine promesso improvvisamente mi svaniva nello stupore di un silenzio e di un’assen­za. Decisi, dunque, di tornare nella sua casa. Il marito mi rimproverò i troppi giorni in cui non mi ero fatto vedere. Come i sentimenti cambiano la percezione degli altri! Quell’uomo che m’era par­so rozzo e volgare, perché gl’invidiavo il possesso del mio angelo, amava la musica, la poesia, era anche lui amico di poeti, e conosceva la mia città. Aveva un feudo nel Rossiglione. Mi faceva quasi dannare il pensiero che invece io lo ingannavo, gli sottraevo di nascosto la donna. Non meritava un simile torto, e non lo meritava da me. Ma quella donna era diventata il mio tormento. Ora angelo che m’inebriava, più spesso demonio che mi bruciava le viscere e mi consumava il cervello. Cantò anche quella sera, come aveva fatto quasi sempre, quando andavo nella sua casa, con il pretesto di visitare il marito che, colto e intelligente com’era, non s’era tuttavia ancora accorto che le mie visi­te avevano di mira un altro bersaglio. Ella dunque cantava, mentre noi parlavamo, ma la sua voce, dolce come non l’avevo mai udita, pareva quella notte raggelata, e che mi cantasse non più la tene­rezza di un’impaziente attesa che il desiderio accarezzava con febbricitante languore, bensì ormai solo il ricordo di un distacco, che mi ostinavo a crederlo e volerlo impossibile, ma che la mia mente contemplava, inorridendo, sbigottita. Quando ebbe finito di cantare disse ch’era stanca e si ritirò nelle sue stanze. La trattenni con lo sguardo mentre attraversava la soglia della sala per uscire: si era voltata per salutarmi, mi fissò dura negli occhi, senza sorridere, si voltò, e scomparve. Smania­vo. Finsi di congedarmi, ma mi nascosi dietro un arazzo in un angolo del corridoio che conduceva alla sua camera da letto, e attesi. Bussai, piano, alla sua porta: mi aprì la donna che rideva, si tappò la bocca con le mani per soffocare uno strillo, la spinsi da parte, e penetrai nella stanza. ‘Folle!’ mi assalì Mandetta. ‘Che cosa cercate?’ ‘Te, te cerco, e lo sai: te, e non me ne andrò finché non mi avrai, con una parola, sgombrato il cuore da qualunque sospetto di tradimento’. Ella scoppiò in una risata: la sua voce diventò improvvisamente stridula, il suo sguardo feroce, perverso. Mi sentivo graffiare, trafiggere, da quello sguardo; assordare, stordire, da quella voce. ‘Come osate?’ doman­dò: ‘non sono un vostro possesso e non siete né mio marito né il mio amante’. ‘Impazzisco’, suppli­cai. ‘Non mi meraviglio della vostra pazzia’, rispose: ‘mi meraviglio che vi accorgiate solo adesso di essere pazzo’. Non credevo alle mie orecchie: la durezza del rifiuto mi toglieva ogni impulso di difesa, ogni volontà di oppormi, mi sentivo incapace di trovare argomenti, spiegazioni, preghiere che potessero, se non impedire il congedo, almeno ammorbidire, attenuarne l’inesorabile fermezza. ‘Che vuoi, dunque, da me?’ implorai. ‘Che ve ne andiate via di qua’, rispose, calma (la sua calma mi esasperava): ‘subito, e per sempre’. ‘Ma perché?’ domandai, in ginocchio ai suoi piedi. ‘Alzate­vi!’ ordinò. ‘Mi chiedete perché. Non lo capite? Perché i maligni, di cui è pieno il mondo, non trag­gano materia di che divertirsi se scoprissero che c’incontriamo segretamente quasi ogni notte’. ‘Ma che dirò a tuo marito?’ le chiesi, più per restare ancora là dentro con lei, che per aspettare una ri­sposta. ‘Ditegli quello che vi pare, purché non mettiate in pericolo il mio onore’ disse, e poi, im­provvisamente raddolcita, avvicinatasi, mi sollevò con le braccia da quella ridicola posa di sotto­missione e mi sussurrò in un orecchio: ‘Vi prego, non mi tormentate, andatevene via e non fatevi più vedere: almeno fino a quando non sarò io stessa a farvi chiamare e a chiedervi di ritornare a vi­sitarmi’. Ubbidii, e senza dire niente a suo marito lasciai Tolosa, Il paradiso dal quale mi sentivo scacciato non era più il luogo di un angelo, e nemmeno la sentina di un demonio, ma la memoria insopportabile di un desiderio rifiutato, e tremavo ancora, come un adolescente, al ricordo del suo sguardo nella Dorata, che aveva fatto di quella donna lo specchio del mio angelo. Mi sentivo strap­pato a me stesso: come se io e il mio desiderio fossimo diventati ormai due cose diverse che non si sarebbero più incontrate. Tanto più violenta mi feriva quella scissione, quanto più dolcemente l’angelo che avevo sognato persisteva a nascondermi la donna che mi aveva respinto, e non la don­na, ma l’angelo serbava nella mia mente una forma”.

“L’angelo, dunque, non muore. Scivola nelle vene, percorre le vie del sangue, si fissa nella memoria con il desiderio incompiuto di una salvezza”.

“Ma da che cosa?” gemette Guido. “Non c’è nessuna salvezza, per noi, quaggiù. Siamo condannati a sprecare in un sogno impossibile l’unica vita che ci è concessa”.

“Un sogno, forse. Ma che potrebbe aiutarci ad affrontare con occhio nuovo la veglia. Vedi, l’amore che, quando la donna era viva, era causa per noi di smarrimento, ora che non c’è più o che benignamente, dopo la separazione, ci concede il suo saluto, non è più causa di paura, ma si disten­de tranquillamente in un’attesa che non è più incrinata dall’incertezza dell’assenso. Ciò che pareva paura, lo sprofondare dei sensi in un attonito mancamento, quasi come ci si sentisse sottratti dal mondo, o un perdersi dentro se stessi, si rivela adesso finalmente per lo spasimo di un uscire da sé, di un congiungersi non si sa più a chi o a che cosa, e solo si percepisce nei nervi una volontà di ab­bandono, si avverte nelle vene l’anelito di tutto il sangue ad allargarsi, oltrepassare i confini della pelle, ad allagare la mente, e ad offrirsi alla beatitudine di uno struggimento dolcissimo che sospira un contatto, arde dal desiderio di un contatto, attraverso il quale si dilati il proprio limitato respiro al respiro universale di tutte le cose. L’angelo, amico, non è che il messaggero divino di questo contatto, l’annuncio di una beatitudine che il corpo può desiderare ma non potrà mai possedere”.

“Ma chi questo respiro delle cose, pur desiderandolo, lo ritiene una infantile illusione? L’amore non è contatto: è desiderio. L’angelo non è messaggero di nessun messaggio, è via via solo una forma che il desiderio disegna nella mente. Al di fuori di questa forma, non c’è amore, ma passione, tormento, né altro luogo contiene la forma dell’angelo che quell’unico sguardo che l’ha visto una volta e con immedicabile nostalgia continua a contemplarlo. L’angelo non occupa né in­cide nessun altro spazio che la pagina dove si trascrive il suo passaggio. Di questa trascrizione fa testimonianza lo stile, non d’altro, e tanto meno della vita: si scrive un desiderio, non un possesso, una memoria, non un oggi, solo ciò che si è perduto o non si possiede trova parole. Ogni possesso è muto. La donna è dunque angelo per chi l’ama, cioè per chi ancora non la possiede, ma cessa di es­serlo quando è posseduta e diventa allora solo una donna ed è cessato il desiderio. Nessuna donna per l’amante è reale: reale è solo il suo desiderio di eleggere un angelo ed esserne l’eletto”.

“Che follia!”

“Lo disse anche Mandetta. I miei occhi sono folli. L’hai sempre saputo. Mi cercasti e mi eleggesti come il più intimo dei tuoi amici proprio per questo. Anche tu sei pazzo, ma vuoi porre una regola alla tua pazzia, sottometterla alla ragione. In fondo sei fortunato. Non rischi di perdere il tuo angelo o di essere da lui respinto: non c’è più, puoi immaginarlo, invece che scomparso, felice­mente sopravissuto e confinato in un paradiso da cui ti protegge”.

“Tu presupponi una libertà che all’uomo non è data. In fondo la tua pretesa di non imporre e di non lasciarti imporre regole, limiti, leggi, restrizioni, è anch’essa un limite, una regola, una leg­ge, una restrizione. Credi di ubbidire solo ai tuoi impulsi e perciò di non vincolarti a divieti che ti vengano imposti: unica tua legge è il tuo desiderio, che non conosce né il bene né il male, ma solo la sofferenza di oggetti che non si lasciano possedere, di promesse che sei costretto a non mantene­re, azioni alle quali devi rinunciare. La tua libertà si racchiude nel piccolo cerchio del tuo sguardo affamato, nel carcere di te stesso. Vorrei mostrarti come da questo cerchio si possa uscire; come, dopo l’angoscia di aver perduto un angelo, il dolore possa dissolversi nella consapevolezza che l’angelo c’è ancora, non più fuori di te, ma dentro di te, e ti condurrà per mano fino allo sguardo di una vita nuova, perché non più racchiusa nel piccolo cerchio della tua piccola solitudine. L’angelo allora ti direbbe: ‘Non sai guardarmi altrimenti che come mi vuoi: per questo ti sfuggo’. Fuori di questa stanza – guarda! è già giorno, e il sole illumina lo studio – fuori di questa stanza la gente si scanna, i giovani si ubriacano, i bambini si sporcano di merda, gli angeli muoiono di parto”.

“Piccola, dici. E’ vero: si è fatto giorno e il sole illumina tutta la stanza. Quando io non po­trò più guardarlo, perché i miei occhi non sapranno più vedere, che questo sole m’illumini o no, mi sarà del tutto indifferente. Solo per questo riesco ancora a sopportare il mio respiro”.

“Vai via?” domandò Dante, vedendo che l’amico si alzava.

“Un altro giorno e un’altra notte non ci faranno dire nulla più di quanto abbiamo detto. Spezza pure i confini del tuo cerchio, cambia stile, cerca il mondo, scruta nell’intrico il filo che ti mostri il bandolo smarrito: e quando finalmente avrai scoperto l’ordine che ti manca, dimmi se tro­verai quell’ordine diverso dall’intrico o se l’intrico si lascia governare dalla sua legge. Chi sa, forse quell’ordine non ti parrà diverso da ciò che chiami il mio guardarmi, la sua legge ti sembrerà una copia dei desideri che ci torturano, la voglia di giustizia una chimera, e come i desideri e le voglie, anche la legge ti sembrerà incompiuta e inappagata. Sarà così un altro desiderio, un altro sogno, un’altra disperata immaginazione che si sovrapporrà ai desideri, ai sogni, alle disperate immagina­zioni che ci fanno sbigottire, quando ci accorgiamo di avere ancora nel nostro petto un respiro da consumare”.

Quando si dissero queste cose, Guido aveva trentun anno e Dante venticinque. Morirono entrambi in esilio.



Roma, 9 ottobre 1980 – Monte Caminetto, Sacrofano, 16 luglio 2010.


1 Ahimè, in provenzale, come tutte le altre battute dello strano dialogo tra Cavalcanti e la Mandetta di Tolosa. L’episodio è ispirato dall’episodio analogo del bellissimo romanzo provenzale Flamenca.

2 Di che ti lamenti?

3 Muoio.

4 Di che?

5 D’amore.

6 Per chi?

7 Per voi.

8 Che posso fare?

9 Guarire.

10 Mi piace.

11 Guarire, in provenzale antico.

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