La percezione del
bello è una questione complessa. Naturale che si possa cadere in
semplificazioni fuorvianti, quando la si debba affrontare con una certa
rapidità. Ma cerco di spiegare almeno un aspetto. Intanto, il concetto di bello
non è lo stesso né in tutte le culture né in tutte le epoche. Quando, però,
parlo di "competenze" necessarie ad afferrare pienamente il senso di
un’opera d’arte, non mi riferisco necessariamente alla conoscenza strettamente
tecnica del campo, ma appunto alla conoscenza che si ha, superficiale o
profonda che sia, del fenomeno di volta in volta considerato. Ora, un tempio
greco, ma potrei anche dire una sinfonia di Beethoven, o un romanzo di Thomas
Mann, fanno parte, o dovrebbero fare parte, della cultura media di un uomo
europeo, e forse addirittura di un uomo di tutto l'Occidente, ma, con la
globalizzazione, anche di molti che appartengono a un'altra storia e a un'altra
tradizione. E' probabile, infatti, che un giapponese colto sappia di arte
europea molto più di un italiano medio. Ho conosciuto un professore coreano di
storia medievale europea in un’Università italiana. Così, per quanto riguarda
l'architettura orientale, per esempio, per quanto estranea potrebbe apparirci, essa
è tuttavia a noi familiare ormai almeno fin dal tempo delle crociate, e poi
della colonizzazione. Ma, per esempio, Haydn componeva i suoi quartetti per i
suoi musicisti dell'orchestra di Eszterháza. E se li pubblicava, li pubblicava
perché fossero apprezzati da altri musicisti, e soprattutto da altri
compositori. Spesso i compositori, dichiaravano apertamente, nelle
presentazioni e nelle prefazioni delle partiture pubblicate, che la
pubblicazione era indirizzata soprattutto agl’intenditori. Inoltre, il pubblico
al quale i compositori destinavano le loro musiche, almeno fino a metà
dell'Ottocento, era un pubblico educato alla musica, e spesso anzi la
praticava. Ed erano costoro che venivano chiamati “dilettanti”, termine che non
indicava, come oggi, persona poco abile o poco esperta, bensì chi della musica,
pur conoscendola bene, non faceva la propria professione. Ma c’erano sovrani
che potevano permettersi di suggerire a Bach un tema sul quale costruire
contrappunti e variazioni. Oggi la situazione è totalmente cambiata. Quella
competenza che faceva parte dell'uomo colto medio del tempo, già fin dal
Rinascimento (ne parla Castiglione nel suo “Cortegiano”), anzi ancora da prima,
poiché nelle Università medievali la musica costituiva materia obbligatoria di
studio (Dante la conosceva così bene da adoperare la polifonia come metafora
delle beatitudini celesti), oggi quella competenza non c'è più, e va dunque
acquisita. La scuola dovrebbe essere l'istituzione che la fornisce. Ma per
quanto riguarda la musica, l'Italia sta messa male, e si trova molto indietro, indietro
perfino rispetto ai paesi
latinoamericani, nelle cui scuole la musica s'insegna. Ciò detto, c'è una
percezione per così dire "naturale" del bello che lo fa cogliere in
qualsiasi sua manifestazione. Ma siamo sicuri poi che quella percezione colga
davvero il senso del fenomeno che la suscita? All'inizio del Novecento si
scoprì la bellezza delle sculture africane. Ma quelle sculture non sono
scolpite per essere belle, bensì per essere venerate. Il bello ve lo coglievano
gli europei. Che è una dimostrazione indiretta dell'intuizione hegeliana che il
bello non è un dato di natura, ma un fenomeno culturale. Il bello in natura non
esiste: un tramonto è bello per chi lo vede, non in sé. Anche Leopardi dice
qualcosa di simile. E mi scuso per la lunga digressione. Croce, che pure fu un
lettore attento di Hegel, non capì mai questa preziosa intuizione, questo
aspetto del problema gli sfuggiva, e
pertanto lo semplificò, dando per scontato che la percezione di un europeo
fosse la percezione assoluta del bello, quella cioè di tutta l'umanità. Non era
il solo, allora, a pensarla così. L'antropologia era ancora agli inizi. E
Croce, tra l'altro, la disprezzava, come disprezzava anche la psicanalisi e le
scienze matematiche, scienze che per lui non possono assurgere al ruolo
teoretico della conoscenza, ma che svolgono la loro funzione intermente nella
sfera pratica. Si deve al suo influsso il poco interesse che oggi la maggior
parte degli italiani dimostra per le scienze che non siano
"umanistiche". E pensare che già nell’antichità Platone e,
soprattutto, Aristotele, proprio alle scienze della natura prestarono il
massimo interesse. Aristotele fu, tra l’altro, un grande biologo. Come il suo
allievo e genero Teofrasto, successore nella direzione del Peripato. E’,
infatti, erronea l’idea che Aristotele considerasse non scientifiche le scienze
della natura, semplicemente distingueva la verità alla quale accedono dalla
verità del pensiero astratto. E ne distingueva anche i metodi. Ma questo è un
altro, e assai complesso, discorso.
Fiano Romano, 4 febbraio
2015