Mi è costato molta fatica e molti ripensamenti. Credo di avere trovato la stesura definitiva. Ma ancora ho qualche dubbio sulla lunga digressione che rilegge il mito di Téseo (è questa l'accentazione giusta: anche perché così lo invoca l'Arianna monteverdiana; i nomi greci passano comunque all'italiano attraverso il filtro del latino. L'uso, in ogni caso, ha finito per accogliere Edìpo al posto del più corretto Édipo. Quanto a Dióniso, lo preferisco al più tradizionalmente corretto Dioníso, perché si evita la confusione con Dionisio). Mi dicano i lettori se la lunga evocazione di Téseo spezza e interrompe l'andamento del poemetto.
SULLA TERRAZZA DEL MUSEO BENAKI
τἀ λοίσθι΄ αἰτῇ τοῦ Βίου ...
Σοφοκλέους Οἰδίπους ἐπὶ Κολώνῳ, 584
le cose ultime chiedi della vita ...
Sofocle, Edipo a Colono, 584
... μόνος οὐ γίγνεται
θεοῖσι γῆρας οὐδὲ κατθανεῖν
ποτε,
τὰ δ΄ἄλλα συγχεῖ πάνθ΄ὁ παγκρατὴς χρόνος.
Σοφοκλέους Οἰδίπους ἐπὶ Κολώνῳ, 607-609
... solo non accade
agli dei d’invecchiare e poi morire,
tutto il resto stravolge l’onnipossente tempo.
Sofocle, Edipo a Colono, 607-609
ὅστις δίκαι΄ ἀκοῦσαν ἐισελθὼν πόλιν
κἄνευ νόμου κραίνουσαν οὐδέν, ...
Σοφοκλέους Οἰδίπους ἐπὶ Κολώνῳ, 912-913
sei entrato in una città che rispetta il diritto
e senza legge niente intraprende, ...
Sofocle, Edipo a Colono, 912-913
Παύετε θρῆνον, παίδες, ἐν οἷς γὰρ
χάρις ἡ χθονία ξύν’ἀποκείται,
πενθεῖν οὐ χρή, νέμεσις γὰρ,
Σοφοκλέους Οἰδίπους ἐπὶ Κολώνῳ, 1751-1753
Cessate il compianto, ragazze: a quelli, infatti,
cui le divinità di sotterra arridono,
lamentarsi non è lecito: ma suscita punizione.
Sofocle, Edipo a Colono, 1751-1753
In quale vita ho visto tutto questo?
e perché mai le lacrime dagli occhi
scorrono come non le avessi mai
Sull’Acropoli si stende
la carezza del sole, che già cade
nel cielo sopra il porto del Pireo.
Tra gli sconci palazzi anni settanta,
appena in parte occultato da un bosco
di olivi, s’ intravede, bianco, il
tempio
di Efesto. Qui lo chiamano Tissío
,
quasi fosse all’eroe dedicato
che le porte violò del Labirinto.
Violò ben altre porte il giovinetto;
Arianna, nessun filo d’oro trasse
fuori dall’altro labirinto. Presto,
Téseo, disamorato e nudo amante,
invano scrutatrice dei passaggi,
la rinchiuse nel nulla di sé stessa.
Abbandonata all’inviolato chiuso
deserto del suo corpo, riconosce
nell’alba che riappare la figura
che fugge all’orizzonte, vuoto il
volto
dell’amato scomparso, vuoto il cielo
della mano che guida la sua mano
verso l’uscita. Desiderio, solo,
in mezzo a tanto deserto, morire.
Ma non per sempre, né per sempre resta
una reclusa. Un dio l’avrebbe avvinta,
il dio del vino e dello sperma, il dio
del desiderio che si riconosce,
risvegliata l’avrebbe a inusitata
ebbrezza: indenne uscire da sé stessa
e tornare di nuovo a ricordarsi.
Téseo torna, l’eroe dell’abbandono,
ma torna sotto un altro aspetto, il
dio
che ora l’avvince, è un altro, è
sempre un altro
Téseo, ma non più solo, questa volta:
con satiri e baccanti un’assoluta
avrebbe ridanzato, ricantato,
nuova nascita dell’amore, avvinti,
l’uno e l’altra, dall’ultimo respiro
che l’orgasmo di vivere congiunge
alla smania mai spenta di morire.
Téseo torna, torna in Atene, solo:
aveva visto e ucciso il Minotauro.
Provata la paura della belva
che, invece di saltare irata al collo
della preda e sgozzarla con un morso,
fugge via spaventata. Percepito
l’odore della morte che schiumeggia
tra le fauci del Toro. Irrefrenata,
né rabbia né sconfitta, la caduta
dell’uomo che barcolla, il cedimento
delle ginocchia sotto il muso torvo
di bestia che tracolla. Il peso
schiaccia
il torso nudo d’uomo. Offre il suo
petto
all’assassino. E Téseo riconosce
in quella morte la sua stessa morte.
Il filo non lo aiuta. Quella belva
gli somiglia. Somiglia anche il
ritorno
alla sua fuga. Da che cosa fugge?
Eccolo di ritorno. Dalla spiaggia
riconosce le mura, riconosce
il sasso che interrato procreava
la sua stirpe. Ritorna e riconosce
le mura della casa, la campagna
ripopolata, il verde dei cipressi.
E di nuovo respira dalla terra
l’odore della salvia, ridistingue
la luce discontinua degli olivi,
l’aspetto smilzo e scarno degli steli
d’asfodelo. Ma come di lontano,
da un’altra sponda, da un mondo
scomparso:
ricorda il labirinto, la gentile
cretese che lo guida, riconosce
tra le sue dita il brivido del filo,
solo a sfiorarle, quasi una minaccia:
si riconforta di esserne scampato.
Vede la rocca, ma la vela nera
che svetta sul pennone inganna l’occhio
del padre che con ansia dalle mura
della città la scorge. Con sgomento
il figlio di lontano, sopra il ponte
della nave, contempla il lungo tuffo
di suo padre, vorrebbe trattenerlo,
con un grido arrestarlo, di lontano:
ma vede solo l’onda in cui sparisce.
Se il grido di Proserpina nell’Ade
non gli parlasse contro, se lo stupro,
anche solo intentato, non gli fosse
additato, potremmo, giovinetto
eroe del giorno, che la notte
abbaglia,
ma non ghermisce, che nell’Ade scende,
ma il dio non lo trattiene, ancora
bello
ammirarlo, e dovunque temerario
lo diremmo, ci sembrerebbe quasi
la vittima innocente che restaura
l’ordine, la protervia una scaltrezza
di monarca che chiama in assemblea
il popolo per ogni decisione;
lo crederemmo, prima di Solone,
il fondatore nella sua città
della democrazia. E subiremmo
la sua prudenza di legislatore.
Chi sa, però, se dentro il cuore
d’ogni
legislatore non si celi un mostro
che divori, come Saturno i figli.
O si nasconda il Toro che impazzisce
nei ciechi corridoi del Labirinto.
Ogni democrazia contiene, forse,
nel proprio ventre l’ultima sconfitta,
la sfida di un tiranno, se di molti
o di uno solo, non importa, resta
sempre acquattata in ogni decisione
dell’assemblea popolare. Tutti
la chiedono tremando di paura.
Ma l’ultimo passaggio di Colono
racconta un altro eroe, l’eroe giusto
che ha guardato nel niente della
morte.
Al cieco Edipo, al fuggitivo inerme
che implora protezione,Téseo ancora
sembra l’antico giovinetto, ansioso
come fu lui, di sciogliere gli enigmi.
E Téseo, generoso, la concede.
Ma da quel vecchio, cieco e mendicante,
quel bel giovane un’unica parola
ascolta pronunciare nel segreto
del bosco , ma sull’orlo il vecchio
cieco
gli sbarra il passo, il mirto lo
stordisce,
quell’ultima parola sulle cose
finali della vita, è quella, anche,
che sigilla il congedo, che apre e
chiude
la porta che mai vide alle sue spalle
senza chiudersi aprirsi né l’eroe
che per due volte, incauto, la
socchiuse,
né l’uomo che respira un solo giorno.
Un altro Labirinto, un altro Toro,
dietro la porta. Ma, come la Sfinge,
un dio che non risponde. Adesso il
vecchio
gliela dice. Sa Téseo che da Edipo
quell’ultima parola la paura
gli strappa di parlare, ma non toglie
dalla sua mente il peso di tacere.
Non la ripeterà. Non resta , quindi,
tra loro, che quel gesto di commiato.
Lasciamo Edipo alle sue Furie. Sono
anche le nostre. E benedice Téseo
quel luogo, il bosco, in cui fu dalle
Furie
quella parola udita. Torna, solo,
alla rocca. Non dice una parola.
Senza commenti lascia che il silenzio
di quell’ultimo passo lo nasconda
alla vista degli uomini e alla loro
paura. Ma nel cuore ascolta un altro
canto che gli sussurrano le Muse:
felice chi, se nato, giovinetto
la Parca spezza il filo, ma felice
assai di più chi mai del primo giorno
vede la luce. E tutto torna muto.
Ma io, nella neoclassica terrazza
del Museo Benaki, bevo un sorso
di tè verde, seduto, come Téseo,
proprio al bordo del parapetto .
Guardo
intorno, in mezzo ai platani, le case,
e bevo. Le rovine mi figuro
più sotto, evanescenti, dell’antica
Agorà, ma non meno evanescente
anche l’oggi mi sembra, più mediocre,
e visto da quassù, una scheggiata
replica senza grazia di memorie
che abbiamo invano saccheggiate.
Per rifare che cosa? Tutto il Tempo
che verrà, come quello che ricordo,
è puro niente. Appaiono più vere
le tombe del Ceramico, può darsi,
passeggio tra le steli d’erba gialla
che sorgono sui lati dell’antica
Via Sacra. Un grande toro guarda in basso,
dall’alto, a terra, l’orma che conduce
a Eleusi, e disordina la vista;
trasento con un brivido l’odore
del macello, di Dioniso che chiede
il sangue della vittima. La vita
in un unico nodo si riallaccia
alla morte. Più avanti, ecco, una madre
stringe la mano di suo figlio. Vede
avventurarsi in un più ignoto viaggio,
che non il proprio verso il nulla,
l’ombra
che ai suoi occhi di morta è diventato
quel ragazzo che s’allontana. Tutto
parte, tutto svanisce, tranne il senso
di abbandono che serba anche il
restare.
La lapide mi resta, con la madre.
alle mie spalle. Dalle strade arriva
il rumore del traffico. Mi fermo
a sentirlo, a guardare l’orizzonte.
Le ciminiere colorate, in fondo,
di Technopolis, fredde, silenziose,
ci dicono che l’oggi si trasforma,
che il servaggio di un tempo, le operose
officine dismesse, danno vita
al fatuo che trascorre, all’incompiuta
festa del nostro passaggio. Ricorda:
qui tutto visse il proprio
intramontato
fulgore insieme alla propria
estinzione.
Sulla terrazza del Museo Benaki
oggi Atene fa festa di poesia.
A gruppi sparsi arrivano gli amici
dei poeti o chi solo ne conosce
il nome. La terrazza si riempie
di gente variopinta. Se un ignoto
sono, qui, tra le tante facce note,
che mi osservano un po’stupite, noto
mi sembra il rito. Ma la lingua,
la sento riaffiorare da lontane
vite, la stessa, forse, che ascoltavo,
improvvisato allievo di Platone,
in un immaginario Iperuranio
delle Idee. Non mi ci raccapezzo.
Una donna si accosta. “Permettete
ch’io sieda al vostro tavolo?” Sorrido
al voi che mi ricorda la mia gente
di Campania, e il mio borgo, Presenzano,
il borgo di mia nonna e di mio padre.
Diventano tre, quattro donne. Parla
la prima: “Ecco, eravate solo, e ora
siete in mezzo alle donne”. Mi
sorride.
Ma quale lingua ascolto? Ignota,
forse,
anche la vita che condussi esperto
d’altre parole, ma non queste, certo,
che la mia lingua non ricorda, scesa
chi sa dove, a trovarsi, la mia mente.
Tramonta, scendi dietro la lontana
Éghina, invendicato dio! la luce
che oggi rifletti sulle inquiete
strade
del nostro interminato esilio, forse
luce straniera, spegnila, e nascondi
le cose che vediamo, sono proprio
quelle, forse, che meno conosciamo .
il tempo ha sotterrato le tue frecce,
dimenticato il tiro del tuo arco,
la ferita che tramortisce, il segno
della sua punta che guarisce: credo
d’un giorno la parola che pronunci,
ch’evapora nell’aria. Come questi
nuovi poeti d’una terra antica,
credono di parlare al mondo, e il
mondo
proprio non sa che farsene di quelle
loro parole; anzi, non le conosce,
e si risparmia la fatica vana
d’impararle. Ma sono le parole
ancora intatte, impronunciate,
sono le impronunciabili parole
di chi trema ogni volta a
pronunciarle,
che hanno davvero un senso, il solo senso
che li comprende tutti. Zitti! Zitti!
L’attrice guarda il Partenone, e
grida:
Θέλω νὰ γράψω ἔνα ποίημα
γιὰ τὴν
πραγματικότητα
αὐτὴ ποὺ δὲν ἔζεσε ποτὲ κανεὶς
ἀφοῦ ὁ καθένας
στὴν δική του βρέθεκε φυλακισμένος
αἰῶνες τεντώνοντας τὰ χέρια πρὸς τὰ ἔξω.
Atene, 14 ottobre – Fiano Romano, 22 novembre 2016