SULLA TERRAZZA DEL MUSEO BENAKI
τἀ λοίσθι΄ αἰτῇ τοῦ Βίου ...
Σοφοκλέους Οἰδίπους ἐπὶ Κολώνῳ, 584
le cose ultime chiedi della vita ...
Sofocle, Edipo a Colono, 584
... μόνος οὐ γίγνεται
θεοῖσι γῆρας οὐδὲ κατθανεῖν
ποτε,
τὰ δ΄ἄλλα συγχεῖ πάνθ΄ὁ παγκρατὴς χρόνος.
Σοφοκλέους Οἰδίπους ἐπὶ Κολώνῳ, 607-609
... solo non accade
agli dei d’invecchiare e poi morire,
tutto il resto stravolge l’onnipossente tempo.
Sofocle, Edipo a Colono, 607-609
ὅστις δίκαι΄ ἀκοῦσαν ἐισελθὼν πόλιν
κἄνευ νόμου κραίνουσαν οὐδέν, ...
Σοφοκλέους Οἰδίπους ἐπὶ Κολώνῳ, 912-913
sei entrato in una città che rispetta il diritto
e senza legge niente intraprende, ...
Sofocle, Edipo a Colono, 912-913
Παύετε θρῆνον, παίδες, ἐν οἷς γὰρ
χάρις ἡ χθονία ξύν’ἀποκείται,
πενθεῖν οὐ χρή, νέμεσις γὰρ,
Σοφοκλέους Οἰδίπους ἐπὶ Κολώνῳ, 1751-1753
Cessate il compianto, ragazze: a quelli, infatti,
cui le divinità di sotterra arridono,
lamentarsi non è lecito: ma suscita punizione.
Sofocle, Edipo a Colono, 1751-1753
In quale vita ho visto tutto questo?
e perché mai le lacrime dagli occhi
scorrono come non le avessi mai
versate? [1]
Sull’Acropoli si stende
la carezza del sole, che già cade
nel cielo sopra il porto del Pireo.
Tra gli sconci palazzi anni settanta,
appena in parte occultato da un bosco
di olivi, s’ intravede, bianco, il
tempio
di Efesto. Qui lo chiamano Tissío[2],
quasi fosse all’eroe dedicato
che le porte violò del Labirinto.
Violò ben altre porte il giovinetto;
Arianna, nessun filo d’oro trasse
fuori dall’altro labirinto. Presto,
Téseo, disamorato e nudo amante,
invano scrutatrice dei passaggi,
la rinchiuse nel nulla di sé stessa.
Abbandonata all’inviolato chiuso
deserto del suo corpo, riconosce
nell’alba che riappare la figura
che fugge all’orizzonte, vuoto il
volto
dell’amato scomparso, vuoto il cielo
della mano che guida la sua mano
verso l’uscita. Desiderio, solo,
in mezzo a tanto deserto, morire.
Ma non per sempre, né per sempre resta
una reclusa. Un dio l’avrebbe avvinta,
il dio del vino e dello sperma, il dio
del desiderio che si riconosce,
risvegliata l’avrebbe a inusitata
ebbrezza: indenne uscire da sé stessa
e tornare di nuovo a ricordarsi.
Téseo torna, l’eroe dell’abbandono,
ma torna sotto un altro aspetto, il
dio
che ora l’avvince, è un altro, è
sempre un altro
Téseo, ma non più solo, questa volta:
con satiri e baccanti un’assoluta
avrebbe ridanzato, ricantato,
nuova nascita dell’amore, avvinti,
l’uno e l’altra, dall’ultimo respiro
che l’orgasmo di vivere congiunge
alla smania mai spenta di morire.
Téseo torna, torna in Atene, solo:
aveva visto e ucciso il Minotauro.
Provata la paura della belva
che, invece di saltare irata al collo
della preda e sgozzarla con un morso,
fugge via spaventata. Percepito
l’odore della morte che schiumeggia
tra le fauci del Toro. Irrefrenata,
né rabbia né sconfitta, la caduta
dell’uomo che barcolla, il cedimento
delle ginocchia sotto il muso torvo
di bestia che tracolla. Il peso
schiaccia
il torso nudo d’uomo. Offre il suo
petto
all’assassino. E Téseo riconosce
in quella morte la sua stessa morte.
Il filo non lo aiuta. Quella belva
gli somiglia. Somiglia anche il
ritorno
alla sua fuga. Da che cosa fugge?
Eccolo di ritorno. Dalla spiaggia
riconosce le mura, riconosce
il sasso che interrato procreava
la sua stirpe. Ritorna e riconosce
le mura della casa, la campagna
ripopolata, il verde dei cipressi.
E di nuovo respira dalla terra
l’odore della salvia, ridistingue
la luce discontinua degli olivi,
l’aspetto smilzo e scarno degli steli
d’asfodelo. Ma come di lontano,
da un’altra sponda, da un mondo
scomparso:
ricorda il labirinto, la gentile
cretese che lo guida, riconosce
tra le sue dita il brivido del filo,
solo a sfiorarle, quasi una minaccia:
si riconforta di esserne scampato.
Vede la rocca, ma la vela nera
che svetta sul pennone inganna l’occhio
del padre che con ansia dalle mura
della città la scorge. Con sgomento
il figlio di lontano, sopra il ponte
della nave, contempla il lungo tuffo
di suo padre, vorrebbe trattenerlo,
con un grido arrestarlo, di lontano:
ma vede solo l’onda in cui sparisce.
Se il grido di Proserpina nell’Ade
non gli parlasse contro, se lo stupro,
anche solo intentato, non gli fosse
additato, potremmo, giovinetto
eroe del giorno, che la notte
abbaglia,
ma non ghermisce, che nell’Ade scende,
ma il dio non lo trattiene, ancora
bello
ammirarlo, e dovunque temerario
lo diremmo, ci sembrerebbe quasi
la vittima innocente che restaura
l’ordine, la protervia una scaltrezza
di monarca che chiama in assemblea
il popolo per ogni decisione;
lo crederemmo, prima di Solone,
il fondatore nella sua città
della democrazia. E subiremmo
la sua prudenza di legislatore.
Chi sa, però, se dentro il cuore
d’ogni
legislatore non si celi un mostro
che divori, come Saturno i figli.
O si nasconda il Toro che impazzisce
nei ciechi corridoi del Labirinto.
Ogni democrazia contiene, forse,
nel proprio ventre l’ultima sconfitta,
la sfida di un tiranno, se di molti
o di uno solo, non importa, resta
sempre acquattata in ogni decisione
dell’assemblea popolare. Tutti
la chiedono tremando di paura.
Ma l’ultimo passaggio di Colono
racconta un altro eroe, l’eroe giusto
che ha guardato nel niente della
morte.
Al cieco Edipo, al fuggitivo inerme
che implora protezione,Téseo ancora
sembra l’antico giovinetto, ansioso
come fu lui, di sciogliere gli enigmi.
E Téseo, generoso, la concede.
Ma da quel vecchio, cieco e mendicante,
quel bel giovane un’unica parola
ascolta pronunciare nel segreto
del bosco , ma sull’orlo il vecchio
cieco
gli sbarra il passo, il mirto lo
stordisce,
quell’ultima parola sulle cose
finali della vita, è quella, anche,
che sigilla il congedo, che apre e
chiude
la porta che mai vide alle sue spalle
senza chiudersi aprirsi né l’eroe
che per due volte, incauto, la
socchiuse,
né l’uomo che respira un solo giorno.
Un altro Labirinto, un altro Toro,
dietro la porta. Ma, come la Sfinge,
un dio che non risponde. Adesso il
vecchio
gliela dice. Sa Téseo che da Edipo
quell’ultima parola la paura
gli strappa di parlare, ma non toglie
dalla sua mente il peso di tacere.
Non la ripeterà. Non resta , quindi,
tra loro, che quel gesto di commiato.
Lasciamo Edipo alle sue Furie. Sono
anche le nostre. E benedice Téseo
quel luogo, il bosco, in cui fu dalle
Furie
quella parola udita. Torna, solo,
alla rocca. Non dice una parola.
Senza commenti lascia che il silenzio
di quell’ultimo passo lo nasconda
alla vista degli uomini e alla loro
paura. Ma nel cuore ascolta un altro
canto che gli sussurrano le Muse:
felice chi, se nato, giovinetto
la Parca spezza il filo, ma felice
assai di più chi mai del primo giorno
vede la luce. E tutto torna muto.
Ma io, nella neoclassica terrazza
del Museo Benaki, bevo un sorso
di tè verde, seduto, come Téseo,
proprio al bordo del parapetto .
Guardo
intorno, in mezzo ai platani, le case,
e bevo. Le rovine mi figuro
più sotto, evanescenti, dell’antica
Agorà, ma non meno evanescente
anche l’oggi mi sembra, più mediocre,
e visto da quassù, una scheggiata
replica senza grazia di memorie
che abbiamo invano saccheggiate.
Per rifare che cosa? Tutto il Tempo
che verrà, come quello che ricordo,
è puro niente. Appaiono più vere
le tombe del Ceramico, può darsi,
passeggio tra le steli d’erba gialla
che sorgono sui lati dell’antica
Via Sacra. Un grande toro guarda in basso,
dall’alto, a terra, l’orma che conduce
a Eleusi, e disordina la vista;
trasento con un brivido l’odore
del macello, di Dioniso che chiede
il sangue della vittima. La vita
in un unico nodo si riallaccia
alla morte. Più avanti, ecco, una madre
stringe la mano di suo figlio. Vede
avventurarsi in un più ignoto viaggio,
che non il proprio verso il nulla,
l’ombra
che ai suoi occhi di morta è diventato
quel ragazzo che s’allontana. Tutto
parte, tutto svanisce, tranne il senso
di abbandono che serba anche il
restare.
La lapide mi resta, con la madre.
alle mie spalle. Dalle strade arriva
il rumore del traffico. Mi fermo
a sentirlo, a guardare l’orizzonte.
Le ciminiere colorate, in fondo,
di Technopolis, fredde, silenziose,
ci dicono che l’oggi si trasforma,
che il servaggio di un tempo, le operose
officine dismesse, danno vita
al fatuo che trascorre, all’incompiuta
festa del nostro passaggio. Ricorda:
qui tutto visse il proprio
intramontato
fulgore insieme alla propria
estinzione.
Sulla terrazza del Museo Benaki
oggi Atene fa festa di poesia.
A gruppi sparsi arrivano gli amici
dei poeti o chi solo ne conosce
il nome. La terrazza si riempie
di gente variopinta. Se un ignoto
sono, qui, tra le tante facce note,
che mi osservano un po’stupite, noto
mi sembra il rito. Ma la lingua,
la sento riaffiorare da lontane
vite, la stessa, forse, che ascoltavo,
improvvisato allievo di Platone,
in un immaginario Iperuranio
delle Idee. Non mi ci raccapezzo.
Una donna si accosta. “Permettete
ch’io sieda al vostro tavolo?” Sorrido
al voi che mi ricorda la mia gente
di Campania, e il mio borgo, Presenzano,
il borgo di mia nonna e di mio padre.
Diventano tre, quattro donne. Parla
la prima: “Ecco, eravate solo, e ora
siete in mezzo alle donne”. Mi
sorride.
Ma quale lingua ascolto? Ignota,
forse,
anche la vita che condussi esperto
d’altre parole, ma non queste, certo,
che la mia lingua non ricorda, scesa
chi sa dove, a trovarsi, la mia mente.
Tramonta, scendi dietro la lontana
Éghina, invendicato dio! la luce
che oggi rifletti sulle inquiete
strade
del nostro interminato esilio, forse
luce straniera, spegnila, e nascondi
le cose che vediamo, sono proprio
quelle, forse, che meno conosciamo .
il tempo ha sotterrato le tue frecce,
dimenticato il tiro del tuo arco,
la ferita che tramortisce, il segno
della sua punta che guarisce: credo
d’un giorno la parola che pronunci,
ch’evapora nell’aria. Come questi
nuovi poeti d’una terra antica,
credono di parlare al mondo, e il
mondo
proprio non sa che farsene di quelle
loro parole; anzi, non le conosce,
e si risparmia la fatica vana
d’impararle. Ma sono le parole
ancora intatte, impronunciate,
sono le impronunciabili parole
di chi trema ogni volta a
pronunciarle,
che hanno davvero un senso, il solo senso
che li comprende tutti. Zitti! Zitti!
L’attrice guarda il Partenone, e
grida:
Θέλω νὰ γράψω ἔνα ποίημα
γιὰ τὴν
πραγματικότητα
αὐτὴ ποὺ δὲν ἔζεσε ποτὲ κανεὶς
ἀφοῦ ὁ καθένας
στὴν δική του βρέθεκε φυλακισμένος
Atene, 14 ottobre – Fiano Romano, 22 novembre 2016
[1]
Shakespeare, sonetto XXX.
[2] Θησείο.
[3] Voglio
scrivere una poesia / sulla realtà / quella che nessuno ha mai vissuto / poiché
ciascuno / nella sua realtà si è trovato imprigionato / per secoli tendendo le
mani all’esterno. Katerina Anghelaki-Rooke, Traslitterazione dei versi greci
(greco politonico, prima della riforma monotonica): Thélo nà grápso éna píima /
yià tèn pragmatikótita / aftì pù dèn ézese potè kanìs/ aphû o kathénas / stìn
dikì tu vrétheke philakisménos / eónes tentónontas tà chéria pròs tà éxo.
Leggerti, Dino, mi comunica sempre un qualche sgomento, una punta di sofferenza. la prima sensazione è il pessimismo della tua visione che in qualche momento rasenta il nichilismo (...e il mondo proprio non sa che farsene di quelle parole...) l'angoscia di una vita o realtà immaginata e mai vissuta. Ma mi fermo qui. Devo rileggerlo per poter mettere ordine nelle sensazioni ricevute. Lo farò quando si sarà sedimentata questa prima impressione e, se me lo consenti, tornerò a parlarne con te. Grazie per il momento e buona notte.
RispondiEliminaHo riletto il poemetto con attenzione e vorrei chiederti se ne ho capito l'essenza o no. Premettendo che la lunga digressione su Téseo, secondo me è il fulcro della composizione e quindi necessaria anche per capire il passo sull'epoca presente, proprio da quella, inserita nell'altra, ho creduto di poter trarre indicazioni sul senso attorno a cui ruotano le parole. Mi sembra d'aver capito che il fondamento del tuo pensiero sia l'effimera sostanza dell'uomo e di ogni cosa che lo riguarda e che lui crea, tutto segnato da un destino di morte anticipata ("al fatuo che trascorre, all'incompiuta festa del nostro passaggio") dopo aver trascorso il proprio tempo terreno in una sorta di Panta Rei ad incastri e contrasti ("l'orgasmo di vivere congiunge alla smania mai spenta di morire" "tutto visse il proprio intramontato fulgore insieme alla propria estinzione") che decreta perciò l'effimera sostanza di ogni umana cosa e l'impotenza nel tentare di ottenere risposte alle proprie domande o preghiere ("nella sua realtà si è trovato imprigionato/per secoli tendendo le mani all'esterno"). Perciò terribile la conclusione "felice assai di più chi mai del primo giorno vede la luce. E TUTTO TORNA MUTO." Nichilismo nero, totale negazione della speranza che da i brividi, rafforzata, se ce ne fosse bisogno dall'incertezza della comprensione perfino di ciò che vediamo, ingannevole nella sua apparenza. Questa angoscia di un'esistenza terrena dove niente si salva (la democrazia reca già in sé il fallimento di cui uno o più autocrati approfitteranno), secondo quanto io ho sentito, raggiunge l'apice della "melancolia" quando constati che mentre tutto, il tempo muta e deteriora, solo gli dei restano immutati, immutabili e immortali. E questa, è per me la tragedia più grande, ripeto, per me. Perché gli dei non ci sono, e non ci sono mai stati. L'Iperuranio, il Valhalla, l'Eden e qualsiasi altro luogo simile a questi, sono invenzioni consolatorie di chi trovava insopportabile la sola esistenza di questa di questa terra segnata da confini invalicabili se non attraverso la morte. Spero che mi scuserai se mi sono dilungata un po' troppo, ma soprattutto mi auguro di avere colto le tue intenzioni filosofiche e poetiche. Buona notte e buon riposo.
RispondiEliminaGrazie dell'attenta lettura, Fiorella. Sono commosso. La visione "nera" della vita non è solo mia. Ma affonda proprio nei poeti greci di ieri e di oggi. E soprattutto fanno riferimento, quasi citandolo alla lettera al terzo, bellissimo, coro dell'Edipo a Colono di Sofocle (vv. 1211 sgg.) "Non essere mai nati vince ogni discorso. Ma una volta venuti alla luce. tornare presto là da dove si venne è senz'altro l'esito migliore". La concezione antica dell'oltretomba è amara, priva di conforto, Achille, nell'11° canto dell'Odissea dice a Ulisse che la vita nell'Ade è infelice e che preferirebbe essere l'ultimo contadino, ma vivo, piuttosto che l'eroe ch'è stato, ma morto. Epicuro e poi Lucrezio trovarono che uscire dalla vita è un bene, perché non si esiste più. Nei giorni in cui stavo ad Atene, e bevevo un tè sulla terrazza del Museo Benaki, mi arrivavano notizie terribili dal Medio Oriente. Non troppo lontano da lì. E sentivo dalla televisione, leggevo sui giornali, della frivolezza italiana perduta dietro un ridicolo referendum, vissuto con rabbia da entrambe le parti. E guardavo giù l'Agorà, il Ceramico, e pensavo alla morte di Socrate, condannato dall'esperimento più radicale della democrazia ateniese. Fu ucciso infatti non da reazionari rabbiosi, ma dalla demcrazia diventata demagogia, spaventata dalla libertà del suo pensare. pensavo a un Grillo che chiama "vecchia puttana" Rita Levi Montalcino. A un Tremonti che dichiara che con la cultura "non si mangia". A Renzi, tanto per citarli tutti, che parla tanto di "buona scuola", ma toglie soldi alla ricerca scientifica. "Perché non ci sono soldi", si giustifica. Anche in Spagna non ci sono soldi. E c'è un governo di destra. Ma l'uunica voce del bilancio che non hanno toccato è proprio quella dell'istruzione e della ricerca. Anzi hanno aumentato i finanziamenti. E allora mi chiedo se non viviamo in un paese sbagliato, sbagliato proprio nella sua cultura della convivenza. Anche nei comportamenti. Siamo diventati aggessivi, rabbiosi. I greci stanno molto peggio di noi. Ma non hanno perso il sorriso, la gentilezza. Nelle trattorie popolari (certo non nei locali turisici) alla fine del pasto ti offrono uva, cocomero, dolci. Anche ad Atene. Ma soprattutto nelle isole. E la civiltà è questo. Ecco. Spero di avere comunicato tutto questo nel breve poemetto. E ricordo che Menandro, scrittore di commedie, in una commedia fa dire a un personaggio, che muore giovane chi è caro ali dei. Fu acconentato. Grazie ancora dell'attenzione e delle belle parole.
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