“Dal
Barocco
al choro1
brasiliano, dal ragtime allo stride piano2,
dal neoclassicismo al tango, dall’impressionismo al jazz:
`possibile mettere allo specchio musiche di stili, generi ed epoche
diversi?” si chiede il pianista Marco Fumo, presentando questa sua
incisione.
Ed
ecco, attacca con una sonata di Scarlatti (K. 382) il cui attacco
(ripetizione a allusione sono volute) assomiglia a quello di
un’invenzione a due voci di Bach, proprio per stabilire subito uno
specchio,
un fondale di riflessione. Scarlatti, infatti, assimila e trasforma
in maniera geniale ritmi e melodie della musica popolare spagnola che
ascoltava per le strade di Toledo e di Madrid. E allora, sospendendo
per un attimo il tempo (anche qui lo scontro, l’ossimoro di
un attimo senza tempo è
voluto), subito dopo
ecco Odeón
di Ernesto Nazareth (1863-1934), compositore brasiliano, anzi
dell’Impero Brasiliano, che rielabora ritmi e melodie del
subcontinente americano, in questo caso un tango, Odeón. E gli
accostamenti continuano, curiosi, divertenti, ma soprattutto
musicalmente rivelatori. Come il Tango di Stravinskij associato al
Café de Barracas di Eduardo Arolas, argentino (1892 – 1924).
Abilissimo Stravinskij a catturare il ritmo del tango, ma
inflessibile anche nel circoscriverlo dentro un ambito invalicabile
di compostezza classica.
Viejo
café de Barracas,
turbios
recuerdos de entonces,
que
allá por el año once
tenía
entreveros de facas…
Hoy
has cambiado tu pinta,
todo
es nostalgia y neblina,
ya
no es muchachos de esquina
la
del Café El Pasatiempo,
cuando
tocaba en sus tiempos
el
Tigre del Bandoneón.
(Vecchio
caffè di Barracas,
torbidi
ricordi di allora,
che
là per l’anno undici
c’erano
risse di pugnali …
Oggi
hai cambiato il tuo colore,
tutto
è nostalgia e foschia,
ormai
non c’è ragazzi d’angolo
quello
del caffè Il Passatempo,
quando
suonava ai suoi tempi
la
Tigre del Bandoneón).
Qui,
per Arolas, nessuna compostezza, ma una libertà musicale che insegue
la libertà dei versi. Si badi: non si sta ponendo differenze di
qualità tra un genere e l’altro, ma di stile. Ciascun brano, a suo
modo, nel proprio ambito, è un capolavoro. E non mancano riflessi
dall’uno all’altro. Questo vuole dirci Marco Fumo. In un paese di
guelfi e ghibellini, nel quale la differenza di genere è una
differenza di valore, questa libertà è una specie di controveleno.
Perché anche Stravinskij, nel suo amibto, è libero: di trattare
ritmi e motivi popolari, o d’intrattenimento, come una materia
classica da sottoporre a elaborazione contrappuntistica. Tutto ciò
risulta ancora più chiaro con un’altra coppia. Un valzer di
Joplin, anzi, forse, un valzerino, già di per sé di carattere
popolare, ma imbrigliato in una logica da pièce de salon
tardottocentesca, accostata a un valzer di Aníbal
Troilo, Romance de barrio. Ecco qui il link per ascoltarlo,
questo bellissimo e tristissimo romance:
Già
Joplin
rielabora a suo modo il
ritmo del valzer, sembra quasi di vederli danzare i giovani
palestrati
americani,
sgambettanti e saltellanti con forza. Troilo ci conduce, invece,
nella tragedia dei distacchi. Romance è un parola che
ha
un lunghissimo passato in spagnolo. All’inizio indicava le gesta di
eroi cavallereschi. Raccontava le prodezze del Cid Campeador. Poi
finì col raccontare storie più private. E nel secolo XVII è spesso
all’origine di molti drammi, soprattutto di Lope de Vega, per
esempio del
bellissimo Caballero de Olmedo. Ha una struttura metrica che si
trasmette di secolo in secolo, ottonari con assonanze nei versi pari.
Il testo moderno di questo romance mescola
invece rime vere e proprie e
assonanze.
E il romance è una storia privata di quartiere. Un amore che senza
colpa di nessuno finisce.
Primero
la cita lejana de Abril,
tu oscuro balcón, tu antiguo jardín,
más tarde las cartas de pulso febril
mintiendo que no, jurando que sí.
tu oscuro balcón, tu antiguo jardín,
más tarde las cartas de pulso febril
mintiendo que no, jurando que sí.
Romance
de barrio, tu amor y mi amor,
primero un querer, después un dolor,
por culpas que nunca tuvimos,
por culpas que debimos sufrir los dos.
primero un querer, después un dolor,
por culpas que nunca tuvimos,
por culpas que debimos sufrir los dos.
(Dapprima
l’appuntamento lontano di Aprile,
il
tuo oscuro balcone, il tuo antico giardino,
più
tardi le lettere di polso febbrile
mentendo
che no, giurando che sì.
Romance
di quartiere, il tuo amore e il mio amore,
dapprima
un amarsi, dopo un dolore,
per
colpe che mai non avemmo,
per
colpe che dovemmo soffrire tutti e due).
L’ultimo
“riflesso” è tra Debussy (Claire
de lune, dalla Suite Bergamasque) e Duke Ellington, con un brano che
dà il titolo a tutto il cd: Reflections (in
D), riflessi (in
re maggiore) – tra parentesi le parole
che dal titolo sono state espunte.
Un
viaggio, un’avventura, che libera il cervello da griglie, caselle,
etichette. Il filo rosso ce lo regala, splendido, luminoso, Marco
Fumo. Una lezione d’interpretazione, di
che cosa sia un’interpretazione, e come, anzi, qualunque esecuzione
non può essere altro che un’interpretazione: anche l’esecuzone
cattiva, sbagliata, asettica, menzogneramente oggettiva (suono ciò
ch’è scritto, dicono molti; ma è una cosa che non è possibile:
quale piano rispetto a quale forte?), anche
l’esecuzione furba, cialtronesca, resta sempre un interpretazione,
un’interpretazione appunto cattiva, sbagliata, asettica,
menzogneramente oggettiva, furba, cialtronesca.
Marco
Fumo abolisce
i confini di genere. Non è che un tango, perché è un ballabile, si
debba
suonare con minore accuratezza di
un valzer di Chopin. L’accuratezza deve essere la stessa. La
differenza sta altrove. Ed è una differenza d’interpretazione,
l’interpretazione
che
coglie le differenze di genere. Mi sono trovato molto spesso a
disagio quando, per esempio, grandi soprani, senza fare nomi,
affrontano il repertorio afroamericano, spirituals, jazz vero e
proprio. Lo stesso disagio che provo quando sento un tenore sparare
le canzoni napoletane. Si sente che, tanto
i soprani che i tenori,
agiscono in un campo che non è il proprio. Per esempio, dimenticano,
diciamo così, di lasciare perdere l’impostazione melodrammatica
della voce, l’impostazione
vocale alla quale sono abituati e che devono impostare per cantare
Verdi o Wagner.
Devono cantare a voce nuda, che
sia uno spiritual o una canzone napoletana,
e non sanno o non vogliono farlo. Anche i pianisti incorrono nello
stesso sbaglio
quando escono dal repertorio “classico”. Oddio! Spesso i
pianisti, a
dire il vero,
vanno fuori strada anche solo se, invece di suonare Rachmaninov,
devono suonare Haydn. O Bach. Ecco, Marco Fumo, invece, ci fa
percepire la differenza dei generi – il suo Clair de lune è
mirabile per discrezione di fraseggio e delicatezza di tocco, il suo
Scarlatti da manuale – ma in Joplin, Troilo, Arolas e,
naturalmente, Duke Ellington, c’è un altro clima. Ecco: si tratta
proprio di questo, di atmosfere diverse, ciascuna, in sé, con il suo
fascino, la sua bellezza. E soprattutto: che grande esercizio di
libertà, anche mentale, passare da un genere all’altro! Quando
ascoltate questo cd non state a impazzire per capire che cosa è che
cosa, chi è il compositore, che genere di musica ascoltate.
Abbandonatevi, con
la testa e con il corpo,
completamente,
semplicemente, all’ascolto, e godete. Sarà una liberazione anche
per voi. Come
se spezzaste le catene di una schiavitù. Che non sono solo catene
musicali, ma catene mentali
secolari che noi italiani ci teniamo strette addosso: che non conta
la cosa, ma di chi è, da che parte sta; non conta la verità di
un’affermazione, la bellezza di un’idea, ma chi la dice, chi la
propone. Guelfi e ghibellini. Giusti e sbagliati. Furbi e sfigati.
Personaggio che conta, tipo
che non è Nessuno.
Ma vogliamo smetterla, una buona volta? Ascoltiamo Marco Fumo.
Abbiamo molto da imparare da lui.
REFLECTIONS
marco
fumo
ODRADEK
ODRCD 524
1termine
portoghese che significa lamento o pianto .
2loc.
angloamericana (stride, camminare a grandi falcate+piano,
pianoforte) usata in italiano come sm.
Stile pianistico jazz
sorto a Harlem
verso il 1920. Eredita dal ragtime
la struttura e i ruoli delle due mani (la sinistra fornisce bassi,
spinta ritmica e armonie con un continuo “um-pa um-pa”;
la destra ricama melodie e abbellimenti), cui aggiunge l'
improvvisazione
e la pronuncia ritmica swing.
Ne fu caposcuola J.P.
Johnson, seguito da T.
“Fats” Waller
e Willie
“the Lion” Smith.
Ebbe schiere di praticanti negli anni Venti, quando risuonava nelle
case di Harlem dove si tenevano feste private. Sebbene fosse usato
per il ballo e l'intrattenimento, lo stile stride piano è musica
d'arte, non folk,
eseguita da veri virtuosi, dotati di grande preparazione tecnica e
teorica. Esso ha influenzato anche molti pianisti dei decenni
successivi (Duke
Ellington,
Earl Hines,
, T. Wilson,
A. Tatum)