Ma in quanti e quali recessi
può nascondersi l’ottusità di un pregiudizio ideologico!
Pre-giudizio, appunto. Prima, o fuori, cioè, del giudizio. Continuo
a leggere, costernato, giudizi secchi di condanna per opere,
musicali, letterarie, figurative, che non ubbidiscano a una
predeterminata idea d’avanguardia, da una parte e, sulla stessa
opera, dall’altra, di un’identica e secca condanna perché invece
troppo d’avanguardia. Per esempio: il concerto op. 42 per
pianoforte e orchestra di Schoenberg. Troppo nostalgicamente
espressionistico, per alcuni, gli avanguardisti; troppo sgradevole,
dissonante, per altri, i nostalgici del paradiso perduto della
tonalità. Per entrambi gli schieramenti, e per opposti motivi,
nessuno in realtà che riguardi l’opera, un’opera fallita,
sbagliata.
Ma
se uscissimo, finalmente, da questi pre-giudizi? Se la smettessimo,
una buona volta, di giocare a guelfi e ghibellini? La domanda
corretta da porsi è, infatti, non se l’opera ubbidisca a modelli,
bensì: è scritta bene, è scritta male? È coerente? Ha una sua
logica costruttiva? Se sì, è un’opera riuscita. Se no, qualunque
sia la sua impostazione, è un’opera non riuscita. A mio avviso è
un capolavoro. Ma non perché rinuncia, come sembra (ma non è vero),
al rigore seriale e appaia più accattivante di altre opere. Non
rinuncia, in realtà, a nessun rigore, perché il problema del
rigore, dell’ubbidienza a un modello, nemmeno se lo pone: qual è,
di fatti, il rigore di una scrittura seriale? evitare le terze, le
seste? Schoenberg non si è mai posto rigide barriere, muri
prescrittivi non scavalcabili. E perfino un compositore maniacalmente
costruttivo come Boulez confessa poi di porsi impedimenti e regole
difficili per il piacere di infrangerli. E’ un po’ come quando
negli esercizi di armonia si proibiscono le quinte parallele. Il che
ha una senso solo in una scrittura polifonica, e di fatti quando i
compositori vogliono uscirne non osservano il divieto. Ma se escono
lo fanno consapevolmente. Sta qui il punto: le quinte non devono
nascere da una scrittura distratta o disattenta o inesperta, ma solo
dalla volontà di usarle. Ecco allora che, per esempio Mozart e
Chopin vi ricorrono, qualche volta. Non sono l’eccezione che
conferma la regola. Lo fanno perché lo permette il piano compositivo
che si sono scelti, il percorso di scrittura che hanno programmato.
Il
concerto schoenberghiano segue, del resto, una propria originalissima
idea di riesame di tutti i parametri storici della composizione,
almeno da Brahms e Wagner in poi; a parte questo, l’ascoltatore non
prevenuto, né nel senso di un’adesione alle avanguardie né nel
senso di un rifiuto di ciò che travalichi l’eufonia di
un’immaginaria tonalità mai storicamente esistita, seguirà con
crescente interesse e partecipazione – eh sì! anche quella,
emotiva, viscerale, istintiva – perché no? - che poi anche
l’istinto, l’emozione non è irriflessivo, automatico,
ma è il
frutto di cultura, di
educazione, di
formazione individuale – seguirà, dico, con emozione, con
partecipata emozione, questa
che è un’avventura talmente carica di storia musicale da far
venire le vertigini, a cominciare dall’attacco: Brahms, forse?
primo concerto per pianoforte? Wagner, Tristano? Per favore,
buttiamole nella spazzatura le nostre attese di come dovrebbe essere
la musica che ascolteremo e abbandoniamoci a scoprire invece com’è.
Sto
ascoltando l’interpretazione di Pina Napolitano, insieme alla
Liepāja Symphony
Orchestra diretta da Atvars Lakstīgala
(cd Odradek). Incisione splendida, anzi entusiasmante. Accostamento
illuminante con il Terzo Concerto di Bartók.
I due concerti sono quasi coevi, del 1944 Schoenberg, dell’anno
seguente Bartók.
Tutti e due attaccano con
un a solo del pianoforte (come il Quarto di Beethoven! un
caso?), ma Bartók
sostiene il pianoforte
con una fascia sonora proposta
dai
violini secondi e dalle
viole. Pina
Napolitano queste memorie musicali sembra sprigionarle dalle dita,
dal tocco, ora morbido, ora duro, dalla libertà del fraseggiare,
dall’abbandono al canto, quando si deve cantare, dal distacco quasi
analitico di una successione armonica, quando a prevalere nella
pagina è la pura costruzione armonica degli accordi o l’incatenarsi
contrappuntistico delle
frasi. Apparentemente
Bartók,
tuttavia, a
differenza di Schoenberg non sembra
uscire
dai parametri tonali. Ma
che tonalità è? Senza andare troppo indietro, quella di Liszt,
ungherese come lui? No,
non è Liszt. Anche
Šostakovič
e Prokofiev, anche Janáček,
restano
in ambito tonale, se
ci si pensa.
E allora? Allora,
le funzioni armoniche non hanno la stessa interdipendenza,
interrelazione che avevano, che so, in Schubert. Cambiano
di epoca in epoca, anzi da compositore a compositore nella stessa
epoca.
Ecco,
dunque,
che cosa intendo per pre-giudizio: aspettarsi che l’opera si adegui
a un modello, ma non a quello magari predisposto dall’autore, bensì
a quello che, da
parte di chi ascolta (o legge, o guarda)
si
è
scelto come inappellabile
riferimento, sia
questo modello ispirato alla nostalgia dell’irreversibile passato
oppure
a un’astratta idea di rigore avanguardistico.
Nessun artista, nemmeno il più mediocre, il più corrivo, il più
commerciale, si adegua al modello che chi
si accosta all’opera
si aspetta: tra
ascoltatore e musicista, tra lettore e scrittore, tra osservatore e
pittore, si inserisce
sempre qualche sorpresa, qualche deviazione, che
il musicista, lo scrittore, il pittore sbattono sul pentagramma,
sulla pagina, sulla tela, per disorientare chi ascolta, chi legge,
chi guarda.
E bisogna cogliere proprio la sorpresa, la deviazione, per
comprendere il senso dell’opera: se
ne proverà allora un piacere ancora maggiore che se l’opera
accondiscendesse a tutte le predisposte attese del fruitore.
In una parola, chi si accosta a un opera d’arte non deve
sovrapporsi all’artista, ma deve
sforzarsi
di capire che cosa l’artista vuole proporgli. Deve
dimenticare
il proprio io per entrare nell’io dell’artista. Che è
tra l’altro la regola fondamentale di qualunque ascolto, anche
interpersonale, anche
nella vita quotidiana, anche nell’amicizia,
in famiglia, nell’amore. Tanto più dunque con un artista. Vogliamo
smetterla, dunque,
di imporci sempre
all’opera
e ai nostri simili
come inguaribili,
infantili, insopportabili,
spocchiosi Narcisi, autosufficienti e soddisfatti solo
dalla
propria autistica insensibilità? Vogliamo
finalmente capire che la bellezza, il “valore”, non sta quasi mai
nel soddisfacimento dei propri appetiti, bensì nella scoperta di
ciò che l’altro offre al nostro appetito, in una parola non nella
scoperta di noi, bensì dell’altro?
Vogliamo
finalmente afferrare la realtà che
solo quando capisco quanto l’altro è diverso da me e dunque chi sa
proprio per questo più attraente, perché ancora sconosciuto, solo
allora capisco veramente anche me stesso, la complementarietà
dell’altro a me stesso e, più profondamente, la mia
complementarietà non solo a lui, ma al mondo? Vogliamo
finalmente godere dell’immenso, inesauribile godimento di regalarci
ciascuno all’altro ciò che si è? E come faccio ad abbandonarmi
al piacere dell’altro, che mi può dare l’altro, se non mi sforzo
di conoscerlo quest’altro?
Formidabile,
poi,
anche il Bartók
che
in questo cd ci propone
Piana Napolitano. Si
ascolti l’affondare in regioni armoniche apparentemente statiche,
in realtà più insidiose delle sabbie mobili, che sorprende
l’ascoltatore nelle prima battute dell’adagio religioso, per poi
tuffarlo in una tempesta senza ritorno, che non sia ancora, di nuovo
l’alveo di un’immobilità irrequieta. E’ l’inimitabile
capacità di Bartók
di
immergerci in un’ossimoro
musicale, in una
sorta, cioè,
di silenzio musicale, di sospensione delle attese, perché in realtà
tutte le attese sono in allerta e tutto può accadere. Sublime!
Straordinaria Pina Napolitano a restituircelo, così immobile e
insieme inquieto, così carico di attese inespresse, ma che proprio
perciò si fanno per così dire l’espressione di un’unica
insondabile attesa, forse, l’ultima, quella senza ritorno. Anche
di Bartók
dissero, scrissero, dicono, scrivono, che nel terzo concerto
ammorbidisce le proprie asprezze armoniche, attenua le asperità
ritmiche. E per lo stesso motivo: accondiscendere ai gusti più
conservatori del pubblico americano. E se invece fosse, per i due
esiliati, un ripiegarsi su sé stessi? L’Europa naufragava in una
catastrofe incommensurabile. E con essa l’utopia di una cultura
sovranazionale. La mescolanza di popoli e di culture degli USA, di
quell’utopia non erano nemmeno l’ombra, celava anzi in sé una
diversa, ma non meno aggressiva forma di nazionalismo. E
d’intolleranza. Nessuno che si fosse proclamato apertamente ateo o
anche solo agnostico ne sarebbe potuto diventare il Presidente: la
Costituzione comincia nominando Dio. Il laico Bartók
come l’ebreo Schoenberg, scacciati dal furore nazista in Europa,
non avevano trovato qui la promessa utopia realizzata. Fermenti di
divisione e di odio, sotto la cenere di una guerra civile mai
veramente superata, covavano anche lì. Presto una nuova divisione
del mondo sarebbe venuta a chiarire le posizioni, di nuovo il giusto
e l’ingiusta dall’una o dall’altra parte, fossero Washington o
Mosca, Pechino
o Parigi. E allora quella sintesi del dolore musicale come si era
venuto concentrando nell’ultimo secolo, appariva più che come un
nostalgico sguardo al paradiso perduto – non c’era mai stato
nessun paradiso, nemmeno per l’aereo Mozart – come una bottiglia
nell’oceano: salvatemi, se potete. Sia Schoenberg sia Bartók.
Entrambi
sotto il segno dell’unica ancora che possa legarci a una realtà
sopportabile: la libertà, del proprio cervello, più che del proprio
corpo. Ammesso che senza un corpo si possa disporre di un cervello.
Ai
due concerti sono associati, come due intermezzi, l’Accompagnamento
per una scena cinematografica di Schoenberg e l’Elegia sinfonica di
Krenek, che dà il titolo al cd. Intelligente, sensibile, la lettura
di Lastīgala
è
lucida, limpida, quanto la scrittura di Schoenberg e di Krenek.
Elegy
Schoenberg
- Bartók
– Krenek
Pina
Napolitano
Liepāja
Symphony Orchestra
Atvars
Lastīgala,
dir.
Odradek ODRCD339
1
cd
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