Bruno Ballardini, Lo Zen e
l’arte di aprire una porta aperta.
Milano,
Piemme, 2018, pagg. 178, € 17,50
Non
sono forse la persona più giusta per scrivere di questo libro,
perché della cultura giapponese, e orientale in genere, sono
informato solo attraverso traduzioni. Non conosco né il cinese né
il giapponese, e pochissimo il sanscrito. Ma fin dagli anni giovanili
mi sono interessato delle culture orientali: attraverso le traduzioni
italiane, francesi, inglesi, tedesche dei testi filosofici, di
poesia, di narrazione, e della vasta letteratura storica e critica,
soprattutto francese, sulla cultura cinese (Granet) e le altre
culture orientali. Mi è stato però credo sufficiente, per
comprendere la differenza di chi parla e scrive di cultura orientale
perché la conosce e di chi ne riecheggia solo ciò che la moda del
momento gli suggerisce. Bruno Ballardini, già a una prima lettura,
mostra di muoversi in territorio familiare. A cominciare dalle
“riflessioni pre liminari” (perfetto: prima dei confini, prima de
limiti, come chi si addentri in zone sconosciute, dove non ci sono
leoni, ma lingue e usanze da conoscere). I riti di passaggio esistono
e sono fondamentali in ogni cultura. Significa passare da una zona
della vita a un’altra. E a lungo questo passaggio è stato
ritualizzato, anche nelle civiltà che consideriamo più “avanzate”
(dovremmo però smetterla di considerare barbare o selvagge, le
altre!1),
per esempio quella greca e romana. Nelle società moderne si parla di
maggiore età, quando si diventa cioè maggiorenni e si ha diritto di
votare. Osserva Ballardini: “… l’umanità di oggi, persi quei
riti, resta sospesa in un’eterna condizione infantile, non avendo
più chiaro quando debba avvenire il passaggio nell’età adulta, e
senza più una chiara consapevolezza dei ruoli che deve ricoprire
nelle varie stagioni della vita, con l’assunzione di responsabilità
che comporta” (pag. 5).
In
questo libro Ballardini affronta il mondo Zen. L’occidentale lo
conosce per stereotipi (ma che cosa l’uomo del tramonto non conosce
per stereotipi?). Quando mi sono trasferito nella casa dove adesso
vivo, sulle colline del borgo sabino di Fiano Romano, volevo
costruire nel mio giardino uno spazio zen, un giardino di pietre.
Ancora non l’ho realizzato, perché devo trovare il sistema di non
far crescere l’erba senza usare diserbanti. Ma è significativo che
tutti i giardinieri che ho consultato – tranne uno, che ahimè! non
c’è più! - abbiano commentato la mia richiesta con una scrollata
di spalle: ah! quella cosa che non è un giardino ma quattro pietre
che non servono a niente, non sono un pavimento, non sono aiuole!
Ecco,
credo che stia qui il nodo della questione. Una cosa non è quello
che è, ma quello per cui serve, quello per cui sembra. E
soprattutto: quello che io so per cui serve, che io vedo com’è.
Per esempio, un quadro. Tutti pensano in genere di vederlo come l’ha
dipinto il pittore. Scrive Ballardini: “Un quadro si può
guardare, ma in nessun modo potremo avere la stessa visione
dell’artista che l’ha dipinto” (pagg. 18-19). Proviamo a
metterci da parte. A sospendere il giudizio. A non credere che la mia
impressione, la mia opinione corrispondano esattamente alla realtà
che le ha suscitate. “Questo non è arte”, dicono i più davanti
a un’installazione moderna di un artista. Ma se poi gli chiedi che
cosa è l’arte, balbettano. O dicono: il bello, qualcosa che tutti
capiscono. Ah sì? Perché naturalmente un milanese, un romano, che
non siano mai stati in Africa o non abbiano mai studiato le culture
africane, capisce subito il senso, la bellezza di una maschera
rituale o di un totem. Capisce ciò che lui crede bello, ciò che lui
intuisce del loro significato. Sempre un io, io io io, che guarda,
giudica, crede di sapere ciò che vede. Perché l’emozione glielo
dice o per ispirazione divina. E se poi uno gli fa osservare che
magari l’africano che ha costruito la maschera, il totem, della
bellezza proprio non gliene fregava niente, s’incazza. Ma come
niente? Lo vedo io ch’è bello! (Si dà anche il caso che qualcuno
dica: d’accordo, infatti è brutto). Ecco, questo libro di
Ballardini cerca non già di rispondere a queste questioni (è
impossibile!) ma di togliere il bisogno di porsele. Perché non hanno
senso, perché non sono una ricerca della realtà, bensì
un’invasione del proprio io nella realtà. Che senso ha una pietra?
Ricordate un bellissimo episodio della Strada di Fellini? Gelsomina e
il Matto parlano. Il Matto a un certo prende in mano una pietra e
dice: se questa pietra non ha senso, niente ha senso. E se ne va.
Gelsomina prende in mano la pietra, la guarda, la rigira, e poi la
butta via.
Lo
Zen ha molte origini. Una è il Tao, e il principio fondamentale del
Tao è che l’essere e il non essere sono la stessa cosa. Il
pensiero occidentale – non tutto, a dire il vero, ma quella parte
che alla fine ha prevalso – si fonda sul principio di non
contraddizione: una cosa non può essere allo stesso tempo sé stessa
e il contrario di sé stessa. Per il pensiero orientale, o almeno per
una parte del pensiero orientale, sì. E, non troppo stranamente,
anche per la fisica quantistica. Allora, chi ha ragione? Ma –
obiezione – se invece d’indagare chi abbia ragione e chi no, ci
disponessimo a “capire” l’enorme complessità del reale, ad
accettare che esistono logiche diverse e che in ogni caso la logica
non è la realtà, ma solo uno dei possibili discorsi sulla realtà?
Perfino il massimo fondatore della logica, colui che ne ha penetrato
profondamente i meccanismi, Aristotele, non ha mai sostenuto che la
logica fosse la realtà, bensì solo il funzionamento del pensiero,
il sistema con cui il pensiero pensa. E, anzi, nel De Interpretatione
va ancora più lontano, e sostiene che noi la realtà la conosciamo
solo attraverso il linguaggio, senza linguaggio non c’è conoscenza
della realtà. Ma è questo l’unico tipo di conoscenza? Ballardini
sembra dirci di no. Ma leggete questo libro, e troverete, come ho già
detto, non già la risposta, bensì la liberazione dall’esigenza di
una risposta. O, se proprio la si vuole chiamare risposta, ci si
troverà disposti ad accettare la molteplicità delle risposte, o,
meglio, a non cercare affatto nessun tipo di risposta, perché ciò
significherebbe che noi siamo una cosa e la realtà un’altra. Ma ne
siamo sicuri? E’ come quando si dice: la natura intorno a noi. Ma
la natura non sta intorno a noi, perché noi ci stiamo dentro, ne
facciamo parte, noi siamo la natura. Ecco: forse bisognerebbe
cominciare a partire da qui. E a capire dunque che il pensiero non è
qualcosa di staccato dalla materia, ma è lo stesso pensarsi della
materia. Il cervello non è qualcosa separato dal corpo, ma una sua
parte, e dunque noi pensiamo con il corpo, con tutto il corpo.
Spinoza? Può darsi. Ma che in questo assomiglia tanto a Lao tse. O a
Mumon. Ma sono andato troppo oltre. Leggete Ballardini.
1Nel
programma ministeriale di storia della musica per i conservatori
ancora esiste una “tesina” che recita: “La musica dei
selvaggi”!
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