martedì 3 dicembre 2019

Lo Zen e l'arte di aprire una porta aperta




Bruno Ballardini, Lo Zen e l’arte di aprire una porta aperta.
Milano, Piemme, 2018, pagg. 178, € 17,50

Non sono forse la persona più giusta per scrivere di questo libro, perché della cultura giapponese, e orientale in genere, sono informato solo attraverso traduzioni. Non conosco né il cinese né il giapponese, e pochissimo il sanscrito. Ma fin dagli anni giovanili mi sono interessato delle culture orientali: attraverso le traduzioni italiane, francesi, inglesi, tedesche dei testi filosofici, di poesia, di narrazione, e della vasta letteratura storica e critica, soprattutto francese, sulla cultura cinese (Granet) e le altre culture orientali. Mi è stato però credo sufficiente, per comprendere la differenza di chi parla e scrive di cultura orientale perché la conosce e di chi ne riecheggia solo ciò che la moda del momento gli suggerisce. Bruno Ballardini, già a una prima lettura, mostra di muoversi in territorio familiare. A cominciare dalle “riflessioni pre liminari” (perfetto: prima dei confini, prima de limiti, come chi si addentri in zone sconosciute, dove non ci sono leoni, ma lingue e usanze da conoscere). I riti di passaggio esistono e sono fondamentali in ogni cultura. Significa passare da una zona della vita a un’altra. E a lungo questo passaggio è stato ritualizzato, anche nelle civiltà che consideriamo più “avanzate” (dovremmo però smetterla di considerare barbare o selvagge, le altre!1), per esempio quella greca e romana. Nelle società moderne si parla di maggiore età, quando si diventa cioè maggiorenni e si ha diritto di votare. Osserva Ballardini: “… l’umanità di oggi, persi quei riti, resta sospesa in un’eterna condizione infantile, non avendo più chiaro quando debba avvenire il passaggio nell’età adulta, e senza più una chiara consapevolezza dei ruoli che deve ricoprire nelle varie stagioni della vita, con l’assunzione di responsabilità che comporta” (pag. 5).

In questo libro Ballardini affronta il mondo Zen. L’occidentale lo conosce per stereotipi (ma che cosa l’uomo del tramonto non conosce per stereotipi?). Quando mi sono trasferito nella casa dove adesso vivo, sulle colline del borgo sabino di Fiano Romano, volevo costruire nel mio giardino uno spazio zen, un giardino di pietre. Ancora non l’ho realizzato, perché devo trovare il sistema di non far crescere l’erba senza usare diserbanti. Ma è significativo che tutti i giardinieri che ho consultato – tranne uno, che ahimè! non c’è più! - abbiano commentato la mia richiesta con una scrollata di spalle: ah! quella cosa che non è un giardino ma quattro pietre che non servono a niente, non sono un pavimento, non sono aiuole!

Ecco, credo che stia qui il nodo della questione. Una cosa non è quello che è, ma quello per cui serve, quello per cui sembra. E soprattutto: quello che io so per cui serve, che io vedo com’è. Per esempio, un quadro. Tutti pensano in genere di vederlo come l’ha dipinto il pittore. Scrive Ballardini: “Un quadro si può guardare, ma in nessun modo potremo avere la stessa visione dell’artista che l’ha dipinto” (pagg. 18-19). Proviamo a metterci da parte. A sospendere il giudizio. A non credere che la mia impressione, la mia opinione corrispondano esattamente alla realtà che le ha suscitate. “Questo non è arte”, dicono i più davanti a un’installazione moderna di un artista. Ma se poi gli chiedi che cosa è l’arte, balbettano. O dicono: il bello, qualcosa che tutti capiscono. Ah sì? Perché naturalmente un milanese, un romano, che non siano mai stati in Africa o non abbiano mai studiato le culture africane, capisce subito il senso, la bellezza di una maschera rituale o di un totem. Capisce ciò che lui crede bello, ciò che lui intuisce del loro significato. Sempre un io, io io io, che guarda, giudica, crede di sapere ciò che vede. Perché l’emozione glielo dice o per ispirazione divina. E se poi uno gli fa osservare che magari l’africano che ha costruito la maschera, il totem, della bellezza proprio non gliene fregava niente, s’incazza. Ma come niente? Lo vedo io ch’è bello! (Si dà anche il caso che qualcuno dica: d’accordo, infatti è brutto). Ecco, questo libro di Ballardini cerca non già di rispondere a queste questioni (è impossibile!) ma di togliere il bisogno di porsele. Perché non hanno senso, perché non sono una ricerca della realtà, bensì un’invasione del proprio io nella realtà. Che senso ha una pietra? Ricordate un bellissimo episodio della Strada di Fellini? Gelsomina e il Matto parlano. Il Matto a un certo prende in mano una pietra e dice: se questa pietra non ha senso, niente ha senso. E se ne va. Gelsomina prende in mano la pietra, la guarda, la rigira, e poi la butta via.

Lo Zen ha molte origini. Una è il Tao, e il principio fondamentale del Tao è che l’essere e il non essere sono la stessa cosa. Il pensiero occidentale – non tutto, a dire il vero, ma quella parte che alla fine ha prevalso – si fonda sul principio di non contraddizione: una cosa non può essere allo stesso tempo sé stessa e il contrario di sé stessa. Per il pensiero orientale, o almeno per una parte del pensiero orientale, sì. E, non troppo stranamente, anche per la fisica quantistica. Allora, chi ha ragione? Ma – obiezione – se invece d’indagare chi abbia ragione e chi no, ci disponessimo a “capire” l’enorme complessità del reale, ad accettare che esistono logiche diverse e che in ogni caso la logica non è la realtà, ma solo uno dei possibili discorsi sulla realtà? Perfino il massimo fondatore della logica, colui che ne ha penetrato profondamente i meccanismi, Aristotele, non ha mai sostenuto che la logica fosse la realtà, bensì solo il funzionamento del pensiero, il sistema con cui il pensiero pensa. E, anzi, nel De Interpretatione va ancora più lontano, e sostiene che noi la realtà la conosciamo solo attraverso il linguaggio, senza linguaggio non c’è conoscenza della realtà. Ma è questo l’unico tipo di conoscenza? Ballardini sembra dirci di no. Ma leggete questo libro, e troverete, come ho già detto, non già la risposta, bensì la liberazione dall’esigenza di una risposta. O, se proprio la si vuole chiamare risposta, ci si troverà disposti ad accettare la molteplicità delle risposte, o, meglio, a non cercare affatto nessun tipo di risposta, perché ciò significherebbe che noi siamo una cosa e la realtà un’altra. Ma ne siamo sicuri? E’ come quando si dice: la natura intorno a noi. Ma la natura non sta intorno a noi, perché noi ci stiamo dentro, ne facciamo parte, noi siamo la natura. Ecco: forse bisognerebbe cominciare a partire da qui. E a capire dunque che il pensiero non è qualcosa di staccato dalla materia, ma è lo stesso pensarsi della materia. Il cervello non è qualcosa separato dal corpo, ma una sua parte, e dunque noi pensiamo con il corpo, con tutto il corpo. Spinoza? Può darsi. Ma che in questo assomiglia tanto a Lao tse. O a Mumon. Ma sono andato troppo oltre. Leggete Ballardini.

1Nel programma ministeriale di storia della musica per i conservatori ancora esiste una “tesina” che recita: “La musica dei selvaggi”!

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