ROMA, TEATRO PALLADIUM: Le ossa di Cartesio. Libretto di Guido Barbieri. Musica di Mauro Cardi
Franco Mazzi – Cartesio
Valeria Matrosova – Cristina regina di Svezia
Patrizia Polia – cantante di corte, Helèna
Federico Benetti – l’abate Vioguè, il capitano Planstrom, il medico Van Wullen
Enrico Frattaroli mise en espace e video
Ensemble In Canto
Bruno Lombardi flauto e ottavino, Roberto Petrocchi clarinetto e clarinetto basso, Marco Venturi
corno, Rodolfo Rossi percussione, Gabriele Catalucci clavicembalo, Anna Chulkina violino, Gianluca
Saggini viola, Michele Chiapperino violoncello, Franco Fraioli contrabbasso
Fabio Maestri direttore
Il 58° Festival di Nuova Consonanza, che si tiene a Roma dal 7 al 19 novembre, ha per titolo La Musica al Plurale, e ricorda, proprio per questo invito alla molteplicità, i cinquant’anni che intercorrono dalla morte di Igor Stravinskij a oggi. E’ un aspetto della musica dell’ultimo secolo e mezzo che i rancori ideologi dell’una e dell’altra parte, vale a dire tra i sostenitori di una tradizione che si vorrebbe restaurare tale e quale e gli avanguardisti sostenitori invece della necessità di continuare a sperimentare nuovi linguaggi e nuove forme, non riusciranno mai non solo a difendere, ma a capire per davvero. La musica dell’ultimo secolo e mezzo ha visto, infatti, accumunati e contrapposti, Schoenberg e Richard Strauss, Stravinskij e Britten, Poulenc e Boulez, e tanti altri, diversissimi, inconciliabili, lavorare simultaneamente. Non esiste un unico “linguaggio” del novecento, ma esistono i molti “linguaggi” del novecento. Il che non riguarda solo la musica, ma tutte le arti: questa molteplicità di scrittura dell’opera, di disegno della figurazione, è la regola, non l’eccezione. Bartók e Webern non sono mondi opposti, ma solo un diverso atteggiarsi nei confronti della tradizione. C’è tanto Bach sia nel Concerto per strumenti a corda, celesta e percussioni di Bartók che nella Sinfonia op. 21 di Webern, e c’è una valanga di modernità sia nel Dialogues des Carmelites di Poulenc che nel Pli selon pli di Boulez. Armando Gentilucci lo scrisse chiaramente già nel 1979: Oltre l’avanguardia: un invito al molteplice (Discanto). Di questa molteplicità il Festival di Nuova Consonanza vuole dare un esempio, oltre che nel titolo della manifestazione, già nel primo spettacolo che lo inaugura: Le ossa di Cartesio, opera in un atto e sei capitoli di Guido Barbieri, musica di Mauro Cardi (e di Monteverdi, Barbara Strozzi, Domenico Mazzocchi, Sigismondo D’India, Handel). I sei capitoli dono dedicati ciascuno a una passione, secondo la teorizzazione cartesiana, che le divide in sei fondamentali dalle quali derivano tutte le altre, e tutte nascono dal corpo, non dall’anima. Nell’ordine: ammirazione, amore, odio, desiderio, gioia, tristezza. La mise en espace – una forma integrale di teatro, in questo caso, che coinvolge l’attore che dice il testo, i musicisti con il proprio strumento, i cantanti – messa in atto da Enrico Frattaroli, colloca l’attore che impersona Cartesio in primo piano, seduto nel mezzo del proscenio, con un leggio davanti, sul quale legge il testo. Tutt’intorno, cantanti e gruppo strumentale. L’effetto è di un’azione mossa dalla musica e dalle luci. Cartesio si annuncia come già morto: “ieri sono morto”, dice. E divaga sulla percezione del tempo: che cosa è ieri per un morto? Un morto non possiede la panacea dell’oblio concessa solo ai vivi, l’eterno presente della loro non-esistenza i morti lo percepiscono senza articolazione di ore, giorni, mesi, anni: fluttuano in un perenne presente senza soluzione di continuità.
Ma ciò che Cartesio ha da comunicarci è sconvolgente: la smentita di una tradizione che lo vuole ucciso da una polmonite, contratta nelle mattine invernali di conversazione con la regina Cristina di Svezia. La sovrana convocava il filosofo, nella gelida Stoccolma, alle sei del mattino. Stoccolma, tuttavia, non è più fredda della cittadina olandese dove Cartesio soggiornava da qualche tempo. Un filosofo e storico tedesco, però, Theodor Ebert, dell’Università di Erlangen, formula, dopo tre anni di ricerca, un’altra ipotesi. Che a uccidere il filosofo francese sia stato l’abate Freançois Vioghé, inviato alla corte di Stoccolma dal papa Innocenzo X (quello del terribile ritratto di Velázquez) per seguire la conversione al cattolicesimo della regina. L’eretico Cartesio era individuo troppo sospetto per lasciarlo tranquillamente accanto alla sovrana libero d’iniettarle le sue distorte idee. L’abate escogita il sotterfugio di avvelenarlo intingendo l’ostia consacrata della comunione nell’arsenico. L’esame autoptico delle ossa confermerebbe l’ipotesi. Che però molti ritengono improbabile. In ogni caso, Barbieri e Cardi danno credito al filosofo tedesco e raccontano la sua morte per avvelenamento, o meglio: la fanno raccontare da Cartesio stesso. A ognuna delle passioni si associa un canto, un’aria, una declamazione di recitar cantando o, monteverdianamente, di parlar cantando. Due soprani, Valeria Matrosova e Patrizia Polia impersonano, rispettivamente, Cristina di Svezia, l’una, e, la moglie di Cartesio, Heléna, e una cantante della corte, l’altra. Al basso Federico Benetti sono affidate le parti dell’abate Vioghé, del capitano Planstrom e del medico Van Wullen. E proprio attraverso le loro voci si percepiscono le affinità e le differenze tra la musica barocca e quella di oggi. Seicento e novecento hanno in comune il fatto di essere due epoche di sfrenato sperimentalismo non solo musicale, ma anche teatrale, figurativo,, architettonico, poetico, linguaggi e forme sono rinnovati dalle fondamenta. La musica poi sta vivendo il passaggio da una configurazione modale a una configurazione tonale dell’armonia, suscitando nei musicisti una febbre d’invenzioni nuove del tutto affine a ciò che accadrà tra otto e novecento con il dissolversi dei legami tonali. Ecco allora che il melodizzare di Mauro Cardi non ci appare così estraneo accostato al parlar cantando di un Monteverdi o agli arabeschi musicali di Sigismondo D’India. Anzi, il profilo delle avanguardie novecentesche, di cui Cardi è erede, ma le cui invenzioni usa con parsimonia e morbidezza, ne esce per così dire storicizzato, acquista una ulteriore giustificazione, ammesso che ci sia bisogno di giustificare l’invenzione di nuove strutture e nuove forme musicali. Così ciò che sembrava una rottura, ci appare invece straordinariamente coerente, la continuità di una sfida a oltrepassare le abitudini di scrittura e di ascolto che in ogni epoca si sbandierano come tradizione. Per esempio le elegantissime fioriture del virtuosismo vocale seicentesco sembrano porgere una mano ai voluttuosi vocalizzi moderni, come se si rispecchiassero in uno specchio che distorce, e si presentassero come splendide anamorfosi di profili melodici. I tre cantanti reggono bene il passaggio da una vocalità all’altra, anzi ne mettono in risalto l’affine fluidità melodica. L’attore Franco Mazzi, nella parte di Cartesio, tiene in maniera accattivante un tono continuo di conversazione che convince l’ascoltatore, lo cattura. Mai un’enfasi esagerata, mai un fuori tono, un sopra le righe di troppo. L’incidente di un Frensis, per François (l’abate Vioghé), che avrebbe dovuto essere all’ascolto un Fransuà, si potrebbe interpretare come involontaria e banale resa all’anglicizzazione dominante di tutti i nomi non italiani che ormai affligge la maggior parte dei parlanti italiani, soprattutto quando parlano in pubblico. Con piacere si constata che il teatro Palladium era pieno. Lo spettacolo è realizzato in coproduzione con Associazione In Canto, è stato messa in scena, il 9 ottobre 2021, a Terni presso il Teatro Sergio Secci. Arriva a Roma il 7 novembre, in collaborazione con Fondazione Roma Tre - Teatro Palladium, per l’inaugurazione, come s’è detto, del 58° Festival di Nuova Consonanza. Fabio Maestri ha diretto, con grande finezza, il gruppo strumentale In Canto, e gli altri interpreti. La lettura attenta, penetrante, della partitura, ne ha fatto apprezzare la complessa strutturazione. La riscrittura, poi, dell’aria finale di Barbara Strozzi, trascritta da Cardi da una a tre voci – due soprani e un basso – è apparsa di una delicatezza da cui si percepisce chiaramente che l’esercizio d’avanguardia non è un arbitrio, ma la naturale conseguenza di un lunga, lunghissima tradizione. Benedetto Croce afferma che ogni storia è storia contemporanea. Potremmo, crociani e non crociani, per la musica, dire che ogni musica, se musica del suo tempo e non anacronistica rimasticatura del già scritto, è musica d’avanguardia.