DINO VILLATICO
FETONTE
monologo
ἐλεύθερος
δ’ ὢν
δοῦλός ἐστι τοῦ λέχους.
Ἐυριπίδου
Φαἐθοντος θραῦσμα ρ’
ν’ η’ (LOEB
506)
Sors
tua mortalis. Non est mortale quod optas.
Ovidii
Metamorphoseon
II, 56
Qual
venne a Climené, per accertarsi
di
ciò ch’avea incontro a sé udito,
quei
ch’ancor fa li padri ai figli scarsi;
tal
era io ...
Dante, Paradiso, XVII,
1 - 4
A
mio padre, in memoriam
Ombre della lontana
infanzia, sogni
del mio deserto di ricordi,
amore
mai nei miei giorni con
aperta gioia
goduto, eppure nelle mie
più dolci
notti, nei miei più
silenziosi voti
sospirato, baciato,
intrattenuto,
a che mi ritornate, quali
colpe
mi condannano, o quali
redenzioni
mi assolvono? Fermate il
vostro corso.
Ecco che mi concedo a voi.
Vi cedo.
Lasciatemi sognare questo
sogno
che ritorna. Lasciatemi
dormire.
Ogni figura mi risana.
M’apre
mondi perduti la mia
lontananza.
Ah primi sguardi, miei
primi sospiri,
come Fetonte dall’alto
dei cieli
io cado da quel culmine del
tempo
che inesperto la folgore
divina
trafisse per la prima
volta. Il resto,
non
fu che sogno. E io lo sogno ancora.
PROLOGO
A sipario calato entra
l’ATTORE. Indossa un accappatoio. La faccia impiastricciata di
biacca.
L’ATTORE Salve. Sono
l’attore che tra poco
vedrete recitare – se con
gusto
da parte vostra o con
disgusto, questo
sarete solo voi a giudicarlo
-
il monologo in cui si
rappresenta
il mito di Fetonte. Ma non
sono -
potete constatarlo - il
ragazzino
di vent’anni, che bello,
seducente,
sfida il destino: il giovane
arrapato
che celebra in quel giorno le
sue nozze
con la ragazza scelta da sua
madre.
Ma sua madre quel giorno gli
rivela -
chi sa se mai pentita della
scelta -
un segreto tenuto nel
silenzio
per venti anni, un segreto
che potrebbe
trasformare la vita del
ragazzo.
Noi rappresenteremo questa
sera
il mito di Fetonte, ma non
come
Euripide per primo, e dopo
Ovidio
ce lo hanno raccontato, ma
piuttosto
come potrebbe viverlo nel
giorno
di un oggi sgangherato e
disilluso,
tra gli orridi palazzi del
potere
di una grande città,
mettiamo Roma,
un bel ragazzo di vent’anni,
solo
e insoddisfatto della
condizione,
che per altri sarebbe
fortunata,
di figlio di papà. Perduta
dietro sogni
che non sono i suoi sogni, la
mente
del ragazzo fantastica radici
che ormai non sono quelle del
bambino,
\ seminate dal padre
magistrato,
dalla madre arrivista e
faccendiera,
radici che non sente sue, di
piante
differenti da quelle che si
osserva
quando si guarda le sue mani,
foglie
che vede separate dalla linfa
che scorre nelle vene del suo
corpo:
un sangue d’altre vite, una
sostanza
che lo raggela, la foresta
immota
e gelida del padre che
nemmeno
un giorno l’ha baciato,
stretto forte
tra le braccia, il silenzio
spaventoso
della madre che non gli
parla, o quando
parla, sta per ingiungergli
un divieto,
o parla solo per proibirgli
il mondo.
Il giorno delle nozze, che
nemmeno
si è accorto, fino a quella
mattutina
doccia fredda che il
calendario appeso
alla parete della stanza, un
frego
sulla data, glielo ha
rappresentato,
una minaccia, una condanna,
il segno
di un’ubbidienza, non se
n’era accorto,
no, di volerle, di doverle
proprio
quel giorno celebrare, non
capisce,
ancora non capisce se volute
da mamma, decretate, quelle
nozze,
dal padre, congiurate dalla
nonna,
tutta contro di lui
congiurata,
compatta, complottante la
famiglia,
il giorno delle nozze ecco
che casca
la mannaia, si sfascia la
fiducia,
finalmente sua madre gli
rivela
che suo padre non è suo
padre. Porca
la miseria, e ‘sta scema me
lo dice
adesso, pensa il giovane, nel
giorno
delle nozze. Se il giovane si
arrabbia,
in cuore suo ne gode, e su
due piedi
manda a fottio di capre il
matrimonio.
Ma di chi poi sia figlio
ascolterete
tra non molto l’enigma
districato,
lascio sospesa la sua
soluzione,
sarà lo stesso figlio a
rivelarlo.
Io qui sono venuto a
raccontavi
non tanto l’antefatto della
storia,
quanto a spiegarvi che
vedrete un uomo,
l’attore che ora qui vi sta
parlando,
indossare le vesti di un
ragazzo,
figurare i deliri di una
madre,
lamentare il dolore di chi
padre
solo da poco, solo da qualche
ora
della notte, per qualche
istante, un solo
irripetuto, interminato
istante,
l’istante interminabile di
un bacio,
vede, sente, constata in
quell'istante
dissolversi, svanire come un
soffio
l’imprevista felicità di
tutta
la sua vita, esaurirsi come
un lampo,
spegnersi come folgore
improvvisa,
l’amore che intravisto e
colto appena
si dilegua come ombra nel
passato.
Io sono tutti e tre. O tutti
e quattro.
L’attore, che comincia
presentando
e dopo recitando i
personaggi,
il figlio, poi la madre,
ultimo il padre,
di tutti il più infelice,
che l’amore
sente sottrarsi appena l’ha
toccato.
Non figurate una
corrispondenza,
perciò, tra la figura
dell’attore
e le varie personificazioni
dei personaggi. La persona è
solo
una maschera, la figura lieve
di un’apparenza. Sotto, chi
sa, forse
il ghigno di un ricordo, la
sembianza
di una paura, l’alito
leggero
di una parola, un sospirato
riso,
una vagante lacrima, la
faccia
di un desiderio immaginario,
tutto,
può darsi, sotto l’esagerata
smorfia
di cartapesta, sotto la
rugosa
velatura di un burattino, il
viso
inespressivo di una
marionetta.
Io stesso burattino e
marionetta.
E giovane ventenne, amato
amante,
erómenos efebo, che a suo
padre
regala un erastès, entrambi
accesi
di un impulsivo e folgorante
amore;
e maschio, mi vedrete,
sottomesso
all’amore di un uomo che
avrò prima
però, per suo volere,
sottomesso;
ma sarò donna, e madre
petulante
dopo, in un intermezzo
impuro, laido,
inverecondo, la caricatura
oscena di libidinosa madre.
Infine sarò padre, un
quarantenne
aitante, affascinante del bel
mondo,
un freddo testimone del
successo,
un distaccato ingegno
calcolante
del regno del profitto, ma
dannato
e insieme anche redento da un
amore,
che non è amore come gli
altri amori,
non è consenso speculare,
voce
dissimile che accorda l’altra
voce,
ma speculare immagine
dell’altro,
somiglianza che incontra
somiglianza,
principio che s’intona
nella fine,
fine che torna al suono
dell’inizio,
perpetuo cerchio di perpetua
brama,
cuore ferito a morte dalla
morte
di chi scopre dapprima come
figlio
ma riconosce presto come
amante,
disperato di perderlo per
sempre,
l’amore finalmente
ritrovato,
perché nel primo bacio
conosciuto,
il contatto è spezzato,
separato,
non appena goduto il primo
bacio.
Applaudite. Comincia la
finzione.
Chi sa quanti di voi da
questa storia
conosceranno di sé stessi
l’ombra
notturna che segreta e
sconosciuta
da sempre vive dentro il
proprio cuore,
ma che avida di rivelarsi
esplode
per le parole udite come un
fuoco
che incendia l’esistenza e
la consuma.
Scompare dietro il sipario.
I
Una stanza disadorna,
disordinata, un letto sfatto, pantofole e scarpe sparse per terra,
indumenti su un sedia, una scrivania ingombra di carte e di libri.
Una libreria alla parete, i libri non in fila, qualcuno verticale
qualcuno orizzontale. Sulla parete in fondo un’ampia porta di vetro
che dà su un giardino. Una finestra, accanto alla porta, sempre
aperta, si deve avere l’impressione di sentirsi addosso l’odore
delle piante. Sul letto giace un GIOVANE sui vent’anni, calzoncini
e maglietta da notte.
IL GIOVANE Una pazza! Ecco che
cos’è mia madre.
Ma come posso crederle, se
solo
adesso che ho vent’anni lei
mi viene
a dire che mio padre non è
quegli
che fino a oggi ho creduto mio
padre?
Lo ha nascosto al marito, lo
ha nascosto
a suo figlio, nascosto a tutti
quanti.
Oggi dovrei sposarmi. Sono
stati fatti
preparativi, a dire poco,
degni
della corona d’Inghilterra.
Dopo
la cerimonia, folla d’invitati
al Grand Hotel. Accanto – il
faut le dire -
a quella meraviglia di
anticaglia
d’una Roma rifatta e
ripensata
da Buonarroti, ch’è la
colossale
Santa Maria degli Angeli, là
dentro
la basilica questo matrimonio
della Roma che conta, della
Roma
del potere, l’avrebbe
celebrato
addirittura un vescovo, la
Roma
bene appagata, e fiero il
generone
capitolino. Puf! L’acuta
punta
di uno spillo che buca un
palloncino.
Tuttavia, a mia moglie, ops!
mi correggo:
a quella che sarebbe diventata
oggi mia moglie, dire ma che
cosa?
O quale scappatoia escogitare?
Ci ho ripensato, sai, no, non
è cosa,
non sono chi tu pensi,
soprattutto
non sono chi tuo padre mi
vorrebbe,
e figurarsi poi tua madre.
Quella
si figurava già sua figlia
moglie
di un magistrato. Ma mio
padre, invece,
non è mio padre. Mica una
faccenda
da poco: sono un figlio di
puttana.
Eh sì. Ora lo so. E te lo
dico.
Ho una madre puttana, me l’ha
detto
appena adesso. Cioè, non ha
detto
ch’è una puttana, ha detto
che mio padre
non è mio padre. Mio padre,
un cornuto.
Sono figlio, lei dice,
addirittura
di un industriale enorme,
eccezionale,
un Sole sulla terra, che ha
sfondato
alla grande, nel Nord,
dapprima,
e poi in tutta Italia, in
tutta Europa,
in tutto il mondo. Lui non ha
rivali.
È il top dell’automobile.
Produce
imbattibili macchine da corsa:
un grande, un genio, un nome
che fa scena,
il nome che fa chic dove lo
senti,
e vince tutti i raid del
mondo:
da Monaco a Le Mans, a Monza.
Dove
arriva, arriva il più grande
di tutti.
Insomma, e questo è il punto
che interessa,
è per mia madre, che sarà
puttana,
ma è puttana del mondo,
questo dio
è uno che sta in alto, assai
più in alto
del marito. La gerarchia
sociale
è ciò che conta per mia
madre: poco
importa, dunque, se a scaldare
il seggio
del potere, a poggiare il culo
giusto
sul posto giusto, è il culo
rotto, marcio
di un farabutto o il culo
intatto, sano
di un onesto. Le importa che
comandi.
Si alza dal letto. Cammina
su e giù per la stanza.
Ma mo’, che faccio? Sarà
pure un grande,
ma io sono un bastardo. Mi
figuro
i battibecchi nei salotti, i
detti
e contraddetti in casa della
sposa.
Tutta quell’aria, quella
puzza al naso,
la magistrata dei miei
cavolfiori,
e poi non è nemmeno figlio
suo.
E chi ci crede all’incidente?
Fatto
con un altro, e nascondono
l’affare. -
Resta un attimo a pensarci
su.
Sarà per questo che ‘sto
grande figlio
di puttana non m’ha
riconosciuto?
Come pensano qua che me la
sbroglio?
Che dico alla ragazza che mi
aspetta
già vestita di bianco? Ma che
faccio,
afferro furibondo la cornetta
del telefono, e chiamo quello
vero,
di padre, quello che rispetto
a lui
chi credo padre è un microbo,
un insetto?
E che gli dico? Fa’
qualcosa, cazzo,
sono tuo figlio: tiramene
fuori.
Ma se nemmeno lo conosco.
Visto,
l’avrò visto sì e no tre
volte a Parma.
Uno fico, un bell’uomo sui
quaranta.
Ma era un ragazzino, porco
Giuda,
quando se l’è scopata
quella zozza
di mia madre!
Contraffà la voce,
cercando d’imitare la voce di sua madre, roca, profonda, per niente
stridula. L’imitazione è caricaturale, derisoria.
Ma come non avrei potuto,
figlio, se avevo solo quindici
anni?
L’ho nascosto, nascosto a
tutti. Un anno
di vacanza a Ginevra, e voilà
sono
tornata intatta come quando
sono
nata. Ma poi con l’altro
abbiamo fatto
un accordo, ch’è stato un
incidente
di gioventù, Si andava su a
Cortina
tutti gli anni, fin da
ragazzi, tanto
d’estate che d’inverno.
Naturale
che nessuno trovasse da
ridire.
Si ferma sul proscenio.
Guarda la platea. Esagera ancora di più la vociaccia femminile di
sua madre.
Ma l’altro, oh! l’altro,
chi mai lo vedeva
qui a Roma? Ci è venuto
quando ha preso
moglie. Pochi anni fa. Ma di
nascosto,
ogni tanto, mi strizza
l’occhio. Io volto
la faccia e lui la smette. Ma
l’hai visto,
no? quella volta a Parma. Mica
bello,
vero? Forse ho sbagliato. Lui
è forte.
Ma sai, comanda il mondo, lei
mi dice,
e piano, nell’orecchio. Lo
comanda
per davvero, lui sì, mica per
finta.
Riprende l’impostazione
della propria voce.
Sottinteso: quest’altro,
quello falso,
quello che tutti credono tuo
padre,
è un sottomesso, un servo,
una marchetta. -
Esplode. Incazzato nero.
Ma dovevi aspettare che
compissi
vent’anni, mamma. per
sputarmi in faccia
l’oscena verità? Che tu non
sei
che una puttana e mio padre un
cornuto?
Aspettare per giunta che
arrivasse
il giorno delle nozze? Giusto
prima
di andare in chiesa? Sei pazza
o che sei?
Non ti credo. Vuoi farti
grande, vuoi
liberarti di lui, di un
sottomesso,
di un insignificante
subalterno,
per essere l’amante di un
padrone,
di un dio!
Reimposta la voce a
imitazione della voce della madre.
Uno che quando apre la
bocca,
fa tremare Wall Street, fa
impallidire
con un cenno la faccia del
ministro
delle finanze. Ma lui resta,
invece,
a comandare la borsa di
Londra,
di Parigi, di Mosca, tutte
quante.
Con la propria voce:
Ma che cosa t’immagini? che
il figlio
bastardo di un potente possa
fare,
mamma, qualcosa al mondo di
più grande
che il figlio, come me, di un
magistrato?
Ma sai chi sono, che m’hai
fatto, mamma?
Io sono un figlio di puttana.
Ma puttana
di un potente, dirai. E dillo,
dillo,
mamma, così sapranno tutti,
tutti,
chi sono, chi tu veramente
sei.
Sai le risate al bridge della
stronza
dove ti metti in ghingheri le
volte
che ci vai. Te li sogni
promozioni
e avanzamenti per quel
figurante
di tuo marito. - E già che
siamo al punto,
all’impiegato, al tuttofare,
al servo,
glielo hai detto? Ma quanti
cazzi, mamma,
di un uomo che non fosse tuo
marito,
hanno bucato la tua fica,
l’hanno
spupazzata, e tu, generosa, li
hai
ricevuti, ospitati, benedetti?
Si ode una voce femminile
da fuori, apertamente femminile, anche se non acuta né stridula, ma
roca, tuttavia diversa dalla imitazione caricaturale del figlio:
Cincìn! Che fai lì solo al
buio? Vieni
qua, c’è il sole che
splende sul giardino.
IL GIOVANE Il Sole! Tsé!
Rivolto all’interno:
Che vuoi? No, preferisco
il buio. Non seccarmi. Ci
sentiamo
più tardi.
Si butta sul letto supino,
le mani sotto la nuca.
Quanto
rompe. Poi si dice
che
a creare problemi oggi nel
mondo
sono i giovani. Sono i
vecchi, vecchi,
cornuti vecchi, pippe,
strafottute
pippe la notte e il giorno
che si fanno,
e straparlano, imprecano,
bugiardi,
vomitando sui giovani veleno
-
sconclusionati ,
inefficienti,
vuoti
-
ma
se la sono costruita loro
questa miseria, questa
porcheria
di società che si sono
inventata.
Quasi quasi mi ammazzo. Così
almeno
lascio addosso il rimorso
della merda,
tutta la merda, che mi hanno
buttato
nelle orecchie: per il tuo
bene, figlio
mio, che credi? solo per il
tuo bene.
Puah! - Ma tanto per
cominciare, adesso
parlo io e lo dico forte,
forte:
non mi sposo, non voglio più
sposarmi.
Quella sciacquetta se la
cucchi un altro.
Buio.
II
La stessa scena. Qualche
ora dopo. Sulla scrivania c’è un computer portatile aperto. Si ode
gracchiare un rap. Il GIOVANE è sdraiato sul letto in mutande.
La vita e ‘na monnezza.
Non vedo che schifezza.
Mia madre è ‘na puttana.
Quel frocio di mio padre
lo piglia in culo, ma sta
‘n campana.
Lo stesso che mia madre,
mia madre è ‘na puttana,
sta ‘n campana tutto ‘l
giorno,
tutto ‘l giorno per un
cazzo,
un cazzo a cena e dopocena
e finisce lo stramazzo,
finisce ‘n quarantena.
Basta un cazzo ben fornito,
conto in banca ben nutrito.
La vita è ‘na schifezza.
E tu si’ ‘a vita mia,
c’ho puoi giurà, mamma
mia,
‘na vera fentenzia.
Il mondo è un culo senza
buco,
e dentro ci sta un bruco,
un bruco che lo mangia,
lo mozzica, e s’arrangia,
ma è un culo senza buco,
‘na chiavica puzzolente,
e ‘l mondo è ‘na
monnezza.
Ci muoio dentro con la
pezza,
ci muoio senza pezza.
Non mi resta che la fossa.
Ci casco dentro pelle e
ossa.
IL GIOVANE L’hanno portata
all’ospedale, morta
di rabbia. La famiglia mi
minaccia
una causa. Di che? Che il
bravo figlio
di mammà, che il pupillo di
papà
non glielo ficca più? Ma la
vergogna,
la vergogna, mio caro! La
vergogna,
stronza, è quello che non
sapevo, il fatto
tenuto nella pancia per
vent’anni!
No, non mi sposo, non mi
sposo più.
Guarda. Lo piglio in culo.
Preferisco
frocio, perché lo voglio io,
che senza
che io lo sappia, sentirmelo
ficcato.
Ma tu, mignotta, mamma,
mamma, come
te lo sei sbrindellato nella
fica
il cazzo di papà, quel cazzo
grosso
di un dominante? Mamma, mi
fai schifo! -
Si alza. S’infila un paio
di jeans, indossa una maglietta rossa.
Non resisto. Mi faccio un
giro. Vado
a puttane. Mi calmeranno.
Cazzo!
Ma come credo di poterne
uscire
da questo maledetto
imbroglio? Vado,
mi scopo la puttana che
m’illude
carezzandomi il lobo
dell’orecchio,
e mi sussurra: mio piccino,
quanto
male ti fanno! O merda!
Vaffanculo!
Io penso che mi fotto, mi
strafotto
del lugubre casino, del
merdaio
in cui m’hanno ficcato. Sì,
ficcato!
Mia madre, e anche mio padre.
Figurarsi
se non lo sa. Capire, invece,
questo
devo fare: capire. Ero
felice,
da bambino? Mi pare, mi
ricordo
ch’ero felice. O forse no?
Se tutti
ripetono che da bambini sono
stati felici, tutti, tutti
sono
nient’altro che ridicoli
bugiardi.
Anche te, che ti dicono mio
padre.
Ma no! Sono più brave le
puttane.
Mi servono, le voglio, questa
notte
voglio morire tra le braccia
di una
puttana. Su. Vediamo. Sì,
vediamo.
Si siede davanti alla
scrivania. Apre il computer, lo avvia.
E dai! Sbrìgati, pezzo di
ferraglia!
Ecco.
Sì, sono io. Qui, nato a Roma.
Fichetto
che ti fotte. Questo è il nick.
Perché profilo in cui non
mento, sono
chi sono. Uso quell’altro,
del pischello
senza
fissa dimora? Uno
sfigato,
come tutti i pischelli.
Attira like,
impietosisce, allo sfigato
mica
si nega una carezza. Se poi
paga,
perché negarsi, rifiutarsi?
I soldi
sono apolidi. Tanto una
piotta
è sempre una piotta. Guarda
questa!
Si accontenta di mezza. Ma
che cozza!
Guardiamo un’altra. Cazzo!
Un’alra cozza!
Ma davvero mi basta una
scopata
a
spegnere la rabbia? Se
mi
chiedo
da che mi monta questa
rabbia, quale
fica l’appagherebbe? A
questa chat,
non è sempre questione di
una fica
o di un cazzo. La fuga è
proprio questa:
pensare che si tratta di una
fica
o di un cazzo. Ma quando ero
un bambino,
ero
felice? Ma
poi che
pretendevo?
Felicità, sapessimo che cosa
cerchiamo quando ci diciamo,
piano,
per paura che scappi, la
parola
felicità. Mi sfotte anche il
mio nome.
Salvatore. Di che? Di chi? La
fine
di ogni salvatore è sempre
quella:
di morire ammazzato. O
fulminato,
come Fetonte, il figlio
luminoso
anche lui di un potente,
addirittura
del Sole o di uno che diceva,
furbo,
di essere il Sole. Povero
ragazzo!
Chiese il carro del Sole che
attraversa
il cielo, ma rischiò
d’incenerire
l’universo. Non lo sapeva,
forse,
suo padre che ogni figlio
questo vuole:
bruciare il mondo? Un fuoco
solo
non basta a compensare la
distanza,
la differenza tra la vita
scelta
per me da un altro, e l’altra
vita, quella
che non è ciò che gli
uomini mortali
chiamano vita? Che vita
pensarmi
se
non sono la scoria dei viventi,
ma il figlio di qualcuno che
la gente
venera come un dio? Lo
sospettava,
chi sa, l’impiegatuccio che
credevo,
e credo ancora, non lo so,
mio padre.
Ma se lo sospettava, il
sottomesso,
l’ha ben nascosto, anche a
sé stesso. Il figlio,
il sospettato figlio, non
doveva
nemmeno intravederlo, non
doveva
nemmeno dubitare, che di un
altro
fosse figlio. Ragioni di
decenza
più che di convenienza. Ma
ritorno
a chiedermi: felice, ero
felice
da bambino? Il silenzio delle
cose,
la verità celata, m’era un
fatto
di tutti i giorni. Ma non ne
soffrivo.
Avrei sofferto, invece, se lo
avessi
saputo, ciò che tanto l’una
quanto
l’altro mi nascondevano,
mia madre,
e, consenziente, opaco, anche
mio padre?
Si alza. Butta il computer
per terra.
Buio.
III
La
stessa scena. Vuota. La radio, a tutto volume, lancia una canzone:
Mina, Parole, parole.
https://www.youtube.com/watch?v=siQ3vEWSYkM
Entra come una belva,
SALVATORE, guarda il computer per terra. Lo raccoglie. Lo poggia
sulla scrivania. Prova se funziona. Sulla parete in fondo appaiono le
parole che sta digitando: “Sei tu mio padre?”
Buio.
IV
La stessa scena. SALVATORE
ha in mano un cellulare. Compone un numero. Porta il cellulare alla
bocca.
SALVATORE Quando devo venire?
Dove? Bene.
Aspettami. Verrò, non
dubitare.
Perché dovrei fregarti? Mica
sono
come te. Puntualmente, tra
mezz’ora.
No, aspetta. Mi dimenticavo.
Devo
prima aggiustare alcune cose.
Questa
sera, magari per l’ora di
cena,
così abbiamo più tempo per
parlare.
Andiamo in qualche
ristorante. Oppure
m’inviti a casa tua. Non
puoi? Ah, certo.
Tua moglie. Già, la mia
matrigna. Questa,
ch’è mia madre, non so
come chiamarla.
Va bene per le nove. Al
Mattatoio.
Sì, so dov’è, ci vado
spesso. Mica
sono un pischello casalingo.
Vado
dove cazzo mi pare, quando
voglio.
Se poi mi piaci? Ma che cazzo
dici?
Non sono frocio. Ah, solo
come padre.
Boh, fa’ te. Che mi frega?
Puoi piacermi
oppure non piacermi. Fa lo
stesso.
Uno le amanti, e anche gli
amanti, visto
che ti piace parlarne, non
capisco,
uno le amanti e. se ti piace,
pure
gli amanti, se li sceglie. Le
separa
dal mazzo, quelle che ha
deciso giuste.
E le altre, vaffanculo.
Vabbe’, gli altri,
anche gli altri. Perché
insisti, c’hai
‘n problema? Io, no. Ma ti
volevo
spiegare che c’è qualche
differenza.
Il padre uno mica se lo
sceglie.
O frocio o puttaniere te lo
tieni.
Vabbe’, ciao! No, figurati.
L’offeso,
se mai, dovrebbe essere un
altro. Un altro,
sì, e sai chi. Ve bene. Ci
vediamo
alle nove, stasera, lì,
davanti
al Mattatoio. Con i fiocchi,
vedi,
mattanza con i fiocchi. Tutti
e due.
Anzi no, tutti e quattro.
Cinque, poi,
se ci ficchi tua moglie. Un
bacio? Certo.
Per telefono non fa danni. A
dopo.
Chiude la conversazione.
Butta il cellulare sul letto. Apre il computer, cerca, comincia a
navigare. Sulla parete in fondo compare la scritta: Padre versatile
40 per figlio uguale. SALVATORE digita una domanda: Dove? Risposta:
Testaccio. Domanda: Quando, stasera? Risposta: Stasera non posso.
Brutto
frocio schifoso! Non mi fotti.
Me, frocio, puttaniere, non
mi fotti.
Buio.
V
La stessa scena. Vuota. Il
letto sfatto. Sulla vetrata un immenso schermo di computer. Compare
la faccia di una donna (per la rappresentazione potrebbe essere lo
stesso attore che recita la parte di Salvatore, vistosamente truccato
da donna). Labbra col rossetto viola. Ciglia vistosamente
impiastricciate di rimmel. Sopracciglia inesistenti. Voce melliflua,
suadente, platealmente caricaturale, quasi da checca o da trans. Ma
non femminile. Anzi robusta, profonda, da “maschio”.
LA DONNA Sono tua madre. Sono
uscita presto
dall’ospedale. Mi hanno
spinta fuori
dal letto e dalla stanza,
neanche fossi
una zingara, un’abusiva,
qualche
zozza pezzente senz’arte né
parte.
Ci ho riflettuto: hai fatto
bene. In fondo
quella squinzia che t’eri
preso, figlio,
non mi piaceva. Mi è bastato
avere
davanti agli occhi la sua
faccia piena
di brufoli, grassoccia,
opaca; udire
la sua voce di papera
spennata,
guardare la sua ruvida
cotenna,
una carta assorbente,
devastata
dai tatuaggi, com’è di
moda oggi;
mi è bastato sentirla
strascicare,
con voce di gallina
spennacchiata,
“No, no, Salviuccio mio,
no, non lo fare!”
e m’è venuto il vomito! le
smorfie,
le mossettine di una
bambolina,
mi hanno presto restituito
tutta
la fattispecie della
situazione.
Hai fatto bene. Non valeva,
figlio
chi sei. Ma tu dovevi
laurearti,
prima, infilarti in qualche
grande studio
di avvocato, azzardare la
carriera
di magistrato, come quel
coglione
che credevi tuo padre. Per
imboscarti
tra chi conta nel mondo, chi
comanda.
Questo volevo. Che non
somigliassi
a un impiegato. Come mio
marito,
ch’è giudice, e ubbidisce
al primo stronzo
che gli strilla sul naso.
Come fosse
l’ultimo dipendente di un
ministro.
Ti volevo ministro, ti volevo
seduto tra i potenti, un
figlio, il mio,
che non è dipendente, ma
comanda
ai dipendenti. Lo capivi,
questo?
Non capisco perché dunque mi
sputi
tante sconcezze addosso.
Capisco
le sconcezze, non quelle che
mi dici.
Ma so che hai fatto bene.
Quella squinzia
non meritava il letto che le
offrivi.
Dobbiamo, figlio mio, dunque,
vederci.
Che tu lo voglia o no, resto
tua madre.
Ma stasera non posso. Vado al
bridge
della moglie del giudice che
sai.
Mio marito – non vuoi – e
giustamente -
che lo chiami tuo padre –
mio marito
non viene: dice che non è
decente
per un giudice andare con la
moglie
al bridge della moglie di un
collega.
Ma domani dobbiamo senza meno
vederci. Indispensabile
parlarci,
dirci tutto. Ti spiegherò,
vedrai.
Non sono la puttana che
spiattelli
a destra e a manca. Non
dimenticare
che sono e resterò sempre
tua madre. -
Cincìn, che vuoi, se a letto
quella cozza
tu te la sei scopata – no?
- nemmeno
una volta? - ma dai! sei più
fichetto
di come ti facevo – ma
ripeto:
se a letto qualche volta
l’hai leccata,
quell’umida sorchetta,
saprai quanto
la porca gode e smania se un
trivello
la ispeziona e la smucina per
bene.
Questo tua madre te lo deve
dire.
Non mi facevi quella che ti
sembro,
adesso che ti parlo come
parlo?
E allora, gnucco, ascoltami!
Tuo padre -
quello vero, non quel
coglione calvo
che ho sposato, e che ha
perso a cinquant'anni
tutti i denti, non morde una
lumaca,
somiglia a chi s’inchina
quando passa
il superiore, apre la bocca,
e ride,
e fa vedere a tutti che non
morde -
ah no! non quello - ma il tuo
vero padre -
ebbene, quello, sappi, figlio
mio,
la trivella ce l’ha grossa
e potente.
Mai nessuno nel mondo con più
forza
la usa e resistenza e
ostinazione
più di lui. Tu, perciò, non
giudicarmi.
Nessuna donna – ma, chi sa,
può darsi,
nemmeno un uomo - a lui sa
dire un no .
Chi sa che un giorno, invece,
se non sono
del tutto cieca, capirai;
mignotta,
forse, non so, tu lo sei più
di me.
Bacino, mio Cincìn. Tu mi
assomigli
più di quanto supponi.
Auguri, figlio,
sarai, lo so, ciò che
davvero sei.
Muove le labbra in un
osceno lunghissimo viscidissimo bacio.
Buio.
VI
La stessa scena, notte.
SALVATORE, vestito, supino sul letto.
SALVATORE La prima notte con
mio padre. Notte
profonda, cupa, come la mia
vita,
forse anche la sua vita.
Notte dura,
di temuta, ma preveduta, vera
-
ah! quanto vera! - più per
lui, può darsi,
che per me, riscoperta di sé
stesso -
ma insieme la sconfitta, anzi
la resa,
come se l’atto, lo
sprofondamento
totale di conoscersi per
quello
che si è, discrostando dalla
pelle
la polvere e le croste che
negli anni
la famiglia, la scuola, le
amicizie,
anche le più fidate, le
segrete,
in cui l’intimità, la
confidenza
studiano una complicità
perversa,
ti hanno incollato addosso,
quasi
una seconda pelle, una
mostruosa
maschera di altri personaggi,
quelli
che vuoi, quelli che vogliono
tu sia,
come se dopo la recitazione,
quell’atto di levarti dalla
faccia
la maschera, ti tolga, con
ferocia,
anche la pelle, scopra la tua
carne,
dissolva le tue ossa, e resti
un’ombra,
un simulacro di chi eri, o,
meglio,
di chi credevi di essere. Sei
nudo,
sei di te stesso solo
un’apparenza.
E hai paura di polverizzarti,
scomparire, dissolverti nel
nulla.
Lo sapevo a che cosa andavo
incontro.
Sapevo che incontravo non mio
padre,
o non solo mio padre. Ma la
parte
di me che avevo ricacciato
indietro,
rintuzzato, soppressa, come
stolta
fantasia, l’illusione di un
me stesso
che sapevo chi fosse, ma
negavo
che lo fossi. Di fronte a lui
non ero
che uno che chiedeva
spiegazioni.
La voglia d’insultarlo,
svergognarlo,
farlo sentire un microbo, un
insetto,
per non essere io l’insetto,
il virus
che infettava la mia
sopravvivenza.
Ma non così. Mio Dio, no,
che pazzia,
la stessa che travolse,
un’altra notte,
venti anni fa, chi sa, mia
madre. Notte
per tutti e due di
perdimento, strazio,
di spreco, una tortura,
voglia matta
di strafarsi, dimenticare
tutto,
dimenticare tutto fino in
fondo,
quello che c’era prima che
accadesse,
e quello che accadeva, mentre
stava
accadendo, e poi, dopo,
risvuotarsi,
dimenticare che fosse
accaduto:
non essere che un assoluto
niente.
Il peggio è che l’oltraggio,
il suo supposto
oltraggio, non lo fu, né per
mia madre,
né per me, come lo pensavo,
come
lo temevo. Nel figlio, e
nella madre,
non un oltraggio - per la
madre, forse,
uno stupro - ma per il figlio
come
chiamarlo? La violenza era,
se mai,
tutta da parte mia. Per
aggredirlo,
demolirlo, distruggerlo. Quel
padre
che ti rifiuta, che anzi,
peggio, vuole
toglierti il nome,
cancellarti, come
a negare che esisti, un
incidente
di percorso, la scema ti ha
tenuto,
si è rifiutata di abortire,
dici:
ma lui che c’entra? - il
piccolo fardello,
se non si può buttarlo
dentro un secchio
dell’immondizia, basta
cancellarlo
dal registro dei vivi, dei
presenti,
rifiutarsi di dargli un nome,
il tuo,
fingerlo inesistente. Sono
io,
papà, ma lo capisci? Sono
io!
Sei tu, è vero. E hai la
stessa faccia
di tua madre. La stessa
bocca, gli occhi
come i suoi. Ma più bello,
forse, il loro
azzurro, più profondo, più
tremendo.
Com’è sempre tremendo
quando guardi
la cosa che conosci e hai
paura
di conoscerla. Oh, tu. Come
sei bello,
Chi sa che cosa mi nasconde
ancora
il tuo corpo di te. Non ti
nasconde
niente. Non sono come te. Ma
vuoi
vederlo? Dal bicchiere
scivolava
tra le tue labbra l’ultima
sorsata
di vino. Vidi la tua lingua.
Dove
vuoi farmelo vedere? Lascia
stare.
Qui non si può. Ma tu, lo
vuoi vedere?
Non chiederlo, non
chiedermelo più.
Sapresti dove andare? Due
minuti,
e ti rispondo. Il cellulare
fece
da Galeotto, offerse un
imprevisto
ma sospirato spazio - e più
da lui
che da me, sospirato – fui
la preda
delle pupille di un voyeur
voglioso,
le vidi che mi stavano
scrutando,
disegnando, svestendo dalla
testa
ai piedi, e in quel momento
fui travolto
dal mio nuovo, ma
stradesiderato
e fino a quel momento
insospettato
frenetico capriccio di
strip-teaser:
la ripetuta rappresentazione
di quel maldestro istinto
familiare
che ci univa, adesso
conosceva
il suo teatro adatto: una
stamberga
di un single puttaniere –
inappropriato,
troppo fine chiamarla
garçonnière -
da porco navigato la cedeva
volentieri e curioso alle
porcate
di un amico. Che novità mai
questa?
Con un uomo? e da quando?
Tagliai corto,
si sbagliava. Pensava male,
dissi.
Ma non sapevo ancora se tra
noi,
ci sarebbero state le
porcate,
o se la porcheria sarebbe
stata
solo una sfida, una vendetta,
voglia
di sputtanarlo, o la sua di
vedere
fino a che punto questo
strano figlio
si sarebbe lasciato da suo
padre,
da quest’uomo potente,
imprenditore
aitante e puttaniere, lui che
aveva
inseminato con l’inganno
quella
Bovary scriteriata di sua
madre,
fino a che punto, vero, padre
mio,
mi avresti trascinato in quel
profondo
gorgo di cattiveria, di paure
che minacciano il sesso,
quando un padre
sfida suo figlio. Povero
demente!
Se qualcuno sfidava l’altro,
certo
non era il padre. Mi vedrai.
Ma peggio
per te, se poi, demonio,
brutto frocio,
vorrai farmi anche a me, che
non lo voglio,
ciò che hai fatto a mia
madre. Vieni, Andiamo. -
Il ricordo mi acceca. Questa
prima
parte l’abbiamo noi già
recitata.
Oppure il desiderio
suggerisce
che quanto sto vivendo non
l’ho ancora
vissuto fino in fondo, e la
paura
mi dice che non l’ho
vissuto affatto.
Buio.
VII
La stessa scena. Ma la
porta di vetri che dà sul giardino è spalancata. Sdraiato
sull’erba, SALVATORE, supino, le mani sotto la nuca, guarda il
cielo. Indossa pantaloni e maglietta bianchi, scarpe da tennis
Superga bianche. Sole a picco.
SALVATORE Finalmente, ecco il
giorno. Più ci penso,
più ricordo, più sembra che
non sono nato
che questa notte, che per
questa notte.
Chi fosse il predatore, chi
la preda,
non lo capisco. Ma una
scappatoia -
per lui, per me? - l’insulto
che gli ho, dopo -
ah già! dopo - sputato
sulla faccia.
Frocio, tra noi, chi di noi
due? Il figlio
che s’incula suo padre, o
l’uomo, il padre,
che si lascia inculare da suo
figlio?
Ma – e se fosse amore? -
urlando:
Non lo accetto!
Sussurrando, quasi
impercettibile:
Non posso, non potrò mai
accettarlo:
no, no, non devo. - Chi me
lo proibisce?
Mia
madre? Io? - Ma se chi più
dovrebbe
inorridirne, sembra invece
estratto
da sé stesso, rapito,
inebetito,
felice e soddisfatto, come
solo
può esserlo un bambino,
quasi il figlio
fosse lui, e io chi glielo
chiarisce,
il padre che gli spiega la
lezione.
Buio.
VIII
La stessa scena. La vetrata
è chiusa. SALVATORE davanti alla scrivania che digita sulla tastiera
del computer. È notte. Sullo schermo del computer ingrandito sulla
parete compare il dialogo di SALVATORE con suo PADRE.
SALVATORE Chi sei? Come hai
potuto? Ero tua preda.
Hai voluto – con quanta
tenerezza! -
essere tu la mia. Chi ti
obbligava?
IL PADRE Nessuno, figlio. O,
forse, perdonarmi,
e punirmi, non so, questi
venti anni
di silenzio, finzione, di
menzogna.
SALVATORE Bastava un bacio.
Quello che mai volle
darmi l’altro, anche se
glielo chiedevo.
Tu ti sei consegnato,
offerto, dato.
IL PADRE Tutti e due esitiamo
a dirci, figlio,
la parola che chiarirebbe il
senso
di ciò che abbiamo fatto. Ma
va bene.
SALVATORE E se invece te la
dicessi, quella
parola? Ma con quale nome
posso,
per dirtela, chiamarti? Ne
conosco …
IL PADRE Non scriverne nessuna
di parola.
Tutte ci sembrerebbero
sbagliate.
Quella vera, la sola, tu la
sai.
SALVATORE Sì, la so. Mi
solletica le labbra.
Ma ho paura a dirla. Tu la
sai.
Anche tu come me. Perché la
taci?
IL PADRE Perché dirla non
salva. Non ci salva.
E non ci assolverebbe. Ma
noi, prima
di pronunciarla, l’abbiamo
vissuta.
Buio.
IX
La stessa scena. SALVATORE
sul proscenio. Indossa gli stessi pantaloni bianchi e la stessa
maglietta anch’essa bianca della scena VII. Sfila il cellulare da
una tasca dei pantaloni. Compone un numero. Si porta il cellulare,
orizzontale, davanti alla bocca. Aspetta. Finalmente risponde:
SALVATORE Ciao! Riconosci la
mia voce? Sono
io, sì. Avevo voglia di
sentirti.
Sono passati dieci giorni. Un
tempo
sterminato, papà, senza
vederci.
Non sono più lo stesso. Puoi
capire.
Gli insulti che ti ho detto,
prima, prima -
oh sai tu di che cosa sono
rabbia,
furono il mio furore di
deluso.
Ma non contro di te.
Piuttosto contro
di me. Ho sempre questa
rabbia addosso.
Come se mi sentissi
catturato,
ingannato, non so da chi, da
un padre
che non è padre, da una
madre stolta,
da me stesso, vorrei essere
io
chi sorprende, raccoglie, chi
cattura.
Sento invece che fuggono, che
fanno
giochi con il mio corpo, come
quando
mi lanciavano in aria per
lasciarmi
dopo precipitare come un
sasso
nel mare.
E ho paura di morire.
Come anche questa notte sono
morto,
ma nessuno ha giocato con il
mio
corpo, sono io, anzi, che ho
giocato -
ma dieci giorni fa, mi sembra
un tempo
infinito, lontano quasi come
il tempo della mia infanzia –
sono
io che ho giocato, papà, con
il tuo.
E come avrei potuto, dunque,
allora
insultarti, se la parola
giusta
sarebbe un’altra, che non
oso dirti?
Dimentica. Dimenticami,
magari.
Che vuoi da me? Che posso
darti? Peggio:
che puoi tu darmi? Sì,
bravo, l’hai detto.
Una cosa che non avevo mai
provato. Sì, la prima volta.
Come,
però, non fosse, no, la
prima volta,
come fosse successo sempre,
fosse
qualcosa che sapevo, che
volevo.
Anche tu? Ma davvero? L’hai
sentito,
anche tu, come me, ch’era
da sempre?
Anche per te la prima volta?
Pensi
anche tu – dio, perché non
mi riesce
di chiamarti con questo nome,
il nome
con cui appena adesso mi hai
chiamato? -
anche tu – padre che non
sei più padre
ma qualcos’altro di più
forte, il senso
di una vita, può darsi, ma
distorto,
sbagliato, di una vita che si
torce
su sé stessa, ritorna sui
suoi passi,
e là dove dovrebbe
cominciare,
fermare l’intrusione,
s’introduce,
si lascia anzi introdurre, e
cambia, inverte
la nostra storia, è questo
che facciamo?
Sei tu che devi dirmi basta,
smetti.
Io non so farlo. Sono
incatenato
a ciò che abbiamo fatto
quella notte,
sono passati dieci giorni e
sembra
solo successo ieri. Un tempo
immenso,
sterminato, come la propria
infanzia,
eppure nel ricordo, oppure,
credo,
nel desiderio, il tempo di un
istante.
Dobbiamo pareggiare la
partita.
Dobbiamo completare.
Ricomporre
il troppo tempo sperperato,
perso,
che nessuno di noi sapeva
l’altro.
No, che dici? Ma dimmi, oh
dimmi, invece,
che non dobbiamo. Muoio dalla
voglia
di rivederti. E so che non ti
devo
rivedere. Dimentico me
stesso,
se ti vedo. Dimentico chi
sei.
Ah no, ti prego. Fatti forza.
Quello
che mi chiedi non è
nient’altro, sai,
che ciò che voglio anche io.
Ma noi dobbiamo
dominare gli impulsi.
Ricusarci
di fondere lo sperma con lo
sperma.
Io lo trasudo solo se ricordo
l’odore incancellabile del
tuo
che m’inonda la faccia.
Smetti, smetti.
Non verrò. Che mi chiedi?
Ciò che vuoi
lo voglio anche io. Ma non
dobbiamo. Come
sarebbe che nessuno lo
proibisce?
Me lo proibisco io. Che? La
natura?
Ah, la natura! I cani, i
gatti, gli orsi,
i serpenti, lo sanno, forse,
dimmi,
che cosa è, non è natura?
Sbagli
se credi che sia questo a
spaventarmi.
Il desiderio, ogni mio
desiderio è natura.
Ma nessuno è natura, e
basta. Siamo
anche qualcosa d’altro.
Abbiamo tutti
una storia. Che vuoi, che
voglio, padre,
se cedo, se cediamo a questo
amore?
Buio.
X
La stessa scena. La stanza
è vuota. Entra SALVATORE e si butta, sfinito, sul letto.
SALVATORE Un letto, un letto,
nient’altro che un letto,
il tuo, il nostro, dove noi
ci unimmo,
e dormirci lassù tutta la
vita,
tutta la vita, padre, essere
tuo,
tutta la vita, padre,
possederti.
Sembrerebbe una libertà.
Saltare
un traguardo, il confine del
dovuto,
per addentrarsi dove non si
sa,
oltre la specie, lontani dal
tempo,
abolire la morte, fosse pure
per un istante, il tuo, il
mio, il nostro:
e aboliremo con un atto il
tempo.
Salvo invece a ricredersi
tornando
nel tempo. E allora
quell’indiamento,
l’oltrepassare i limiti del
ruolo,
l’inebriarsi dell’assoluto,
quando
dell’assoluto non si vede
l’ombra,
e non sono aboliti affatto i
ruoli,
e quel che resta è l’attimo
di un grumo
di sperma, come chiameremo
allora
questa furia d’amore:
desiderio,
lussuria, smania, bramosia di
un letto?
Ecco dove finisce tutta
questa
vantata libertà: noi la
crediamo
senza limiti, senza
costrizioni,
ed essa, invece, è già una
costrizione,
un cappio che ci stringe.
Quanto sembra
possibile toccarla,
impossessarsi
d’ogni spazio d’azione,
ecco che invece
ci accorgiamo che la
limitazione
è già l’immaginarla,
figurarsi
se poi si vuole realizzarla.
Un sogno.
Un sogno, forse. Bello,
eccezionale,
il più bello che io abbia
sognato
nella mia vita. È solo il
mio ricordo
che sì, ho sentito vivere la
vita
dentro di me, quando eri tu
che dentro
di me me la versavi, quella
vita
che appena nato tu mi avevi
tolto,
negandomi il tuo nome. Ma in
quel punto,
quando mi hai preso, quando
io ho sentito
che mi prendevi, padre, io in
quel punto,
sentendoti gridare mio mio
mio,
io in quel punto, padre, io
ho sentito
che la mia vita, tutta la mia
vita,
tu in quel punto me la
restituivi,
nel tuo venirmi dentro
assaporavo
un flusso che m’inseminava
il seme
di
tutto l’universo. Ero un
ragazzo.
Tu
mi facevi dio. E sono pronto,
io sono adesso finalmente
pronto
per la mia morte. Non si
spezza invano
la traiettoria della
procreazione,
né si delude senza scotto,
senza
pagare un prezzo, l’ordine
del tempo.
Un tempo, ormai, che io
arresto. Colgo
l’attimo irripetibile,
perfetto,
in cui questa mia vita ha
conosciuto
la tua pienezza. Inopportuno,
vano,
sperare di ripeterlo. Potessi
anzi con me travolgerti,
l’amore
conoscerebbe
una
sua perfezione.
L’amore
ci rivelerebbe l’uno
all’altro e scopriremmo ciò
che siamo:
due particelle di un
universale
orgasmo. Tutto il resto è
un’illusione.
Ti
amo, padre. E sono tuo per
sempre.
Ecco,
l’ho detto, il nome che atterrisce,
il cieco sagittario della
sorte.
Addio, papà. Morire è
quanto posso
restituirti ancora di me
stesso.
Oh padre, padre, padre!
Questo nome
mi è conficcato nella carne,
morde,
scrutatore implacabile, ogni
fibra
del mio corpo. S’infiltra
nelle vene,
e circola nel sangue come
nuovo
globulo della mia sostanza.
Sono
figlio come nessuno fu mai
figlio,
nessuno almeno con la
decisione
con cui mi assumo nascita e
natura,
trasformando la conseguenza
nota
di un atto in una
deliberazione
soltanto mia, di essere tuo
come
nessun altro lo fu nella tua
vita
né potrà dopo questa che ti
dono
esserlo mai. Se nacqui e mi
credetti
nato da un uomo, ora so che
invece
sono nato da un dio, e fu
divina
l’esecuzione con cui demmo
forma
al nostro amore. Umano il mio
destino,
ma non è umano questo
desiderio
di te che mi smantella e che
mi annienta.
Buio.
XI
Nessuna scena. Uno schermo
cinematografico. Vi è proiettato un video. È filmata la corsa
impazzita di un’automobile sportiva che si schianta contro un muro.
XII
Lo stesso schermo. Compare
la figura, solo il volto, di un UOMO sui quaranta, o anche
quarantacinque anni. Il PADRE di SALVATORE. A ricoprire la parte è
sempre lo stesso attore che ha recitato la parte del figlio. Piano
piano, mentre l’uomo parla, si configura la stanza di SALVATORE che
gli spettatori già conoscono. Lo schermo arretra sul fondo. Finché
la figura del PADRE sfuma e scompare. Resta la sua voce, ma anche
quella alla fine tace.
IL PADRE Sì, volle essere
posseduto. Disse
che doveva, voleva pareggiare
il conto. Ma non c’era tra
noi conto
da saldare. Se mai, può
darsi, c’era
una frattura, la
compromissione
di un contatto che andava
preservato,
che doveva restare
irripetuto,
e, forse, addirittura non
toccato.
Venti anni, figlio, senza la
tua faccia.
Non l’ho vista, sdentata,
la tua bocca
azzannare i capezzoli di tua
madre, non era che una
quindicenne.
Fu come una ladruncola
spedita
sui colli di Ginevra, il lago
a specchio
della sua colpa. Una ragazza
madre
tra gli svizzeri non fa
storia – come
credevano i lombardi, suoi
parenti,
che la Svizzera sanno per i
soldi
che nascondono e per la
cioccolata.
Non ti ho visto bambino,
adolescente,
quando avresti potuto già
turbarmi.
Mi sei venuto, faccia sulla
faccia,
che avevi già venti anni.
Seducente
come lo sono tutti, come lo
ero
anch’io, quando si è
giovani ventenni.
Ma tu eri speciale.
Un’esperienza,
vederti, quando al Macro di
Testaccio
m’apparisti, imbronciato, a
me davanti
come apparve in Teorema
Terence Stamp
agli occhi sbalorditi di
Girotti.
Eri un angelo, lo
Sterminatore,
può darsi; non sapevo,
tuttavia,
a sterminare chi, se il padre
fatuo
che ti aspettava, sulla
piazza buia,
o se te stesso. Smisi, anzi,
in quel punto,
di essere fatuo, e di essere
me stesso,
di essere un padre, di essere
anzi il padre
dell’angelo che mi guardava
torvo.
Fu solo un punto, un attimo,
lo sguardo
cupo si sciolse, e dalle
labbra sparve
la smorfia di disgusto, si
distese
la bocca in un sorriso. Ci
stringemmo
la mano, ci fissammo,
imbarazzati
dapprima, ma poi subito
invasati,
e posseduti, intensamente, a
lungo,
Uscì, fievole, un “ciao”,
ci guardavamo.
Dieci giorni non sono un
lungo tempo.
Ma in dieci giorni
conoscemmo, l’uno
dell’altro, ciò che in una
vita, spesso,
nessun uomo conosce
dell’altr’uomo:
ci ricongiungevamo al nostro
inizio,
e l’inizio era forma della
fine.
Noi ci sentimmo, come in
nessun tempo
mai, prima, ci eravamo
percepiti,
l’uno e l’altro completi,
completati,
quasi la stessa cosa. Era la
prima
volta, ma ci sembrava che la
cosa
era da sempre. No, mi
sbaglio. Cosa
non era, ciò che sentivamo.
Cosa
è l’aria, il mare, la
montagna, il fiume.
Noi eravamo invece corpi,
corpi
vivi, pulsanti, vita che
respira.
Corpi, non cose, corpi che
toccati
per un prodigio si erano d’un
tratto
riconosciuti ormai
complementari.
L’ordine primigenio dei
viventi
nel mondo. L’individuo che
subentra
all’individuo, che
oltrepassa il velo
della specie, il confine
delle cose,
non è un incidente,
un’escrescenza
marginale che sorga da
materia
malata, un eccezione del
processo,
una lacuna dell’evoluzione,
ma l’essere che per la
prima volta
documenta in sé stesso
quell’unione
o, a meglio dire, quella
universale
unità della vita sul
pianeta.
Mi chiese, come garanzia di
figlio,
pertinenza di padre –
avrebbe forse
dovuto dirmi su quel letto
dove
tutti e due ci eravamo
rivelati,
pertinenza d’amante – non
l’avevo
mai visto più esitante, più
sfuggente;
mi chiese, infine, dopo
lunghi giri
di parole, ma fattosi più
secco,
più deciso, da me quasi
esigendo
all’improvviso ciò che
fino allora
era parso implorarmi, e sì,
mi chiese,
come un atto di
riconoscimento,
la regalia dovuta, se
potessi,
io padre, al figlio, come
nuova prova
che gli ero padre, che lui
m’era figlio,
se potessi concedergli una
corsa
sul recente prototipo che
avevo
progettato per Vallelunga.
Come
potevo sospettare la
richiesta
di approvare un suicidio? -
Vedo il Sole
che ancora sorge tutte le
mattine
su montagne, gli oceani, le
valli,
le pianure, i deserti, e
laghi e fiumi
del mondo, ma una singola
scintilla
del suo fuoco non dà più
luce agli occhi
di Salvatore – posso adesso
dirne
senza tremare il nome, perché
nome
di un assente, vederli questi
suoi
occhi allora zittivano la
lingua -
se spenti, ciechi, sono ormai
quegli occhi
insospettato fiume,
inaccostato
sedimento di lacrime, la
notte
di una felicità perduta e
spenta,
in questi miei si è invece
inaridito,
si è prosciugato, si è
esaurito il fiume
delle lacrime. Se mai
punizione
questa fosse di un padre
innamorato
di suo figlio, natura mi
sospenda
il suo giudizio, se giudizio
ha voce
di perdono per l’alito che
trema
al solo soffio che avvicina
un labbro
all’altro labbro. Tenerezza
sempre
invoca tenerezza. La
condanni,
se può, solo chi in vita
conosciuto
non ha mai la carezza di una
mano,
o le cui vene non abbiano
tremato
nel percepire il tremito di
vene
anch’esse sospiranti quel
contatto;
la condannino gli occhi senza
luce
che non hanno mai visto
l’appannarsi
della luce nell’occhio che
ti cerca,
e beve la sua luce dal tuo
occhio. -
Perché sia stata questa la
sua scelta,
troncare ciò che s’era
appena allora
cominciato, non lo saprò
più, mai.
La mia felicità perduta è
schianto
che anche nella dolcezza del
ricordo
non s'acquieta, perché non
mi ripete
la dolcezza che piango: il
mio dolore
è dolore che di un
incorrisposto
desiderio lamenta la ferita:
il solo che potrebbe
riappagarlo
non può più corrispondermi.
Ma questa
interruzione di
corrispondenza
è male che per un eccesso
estremo
di dolcezza mi toglie la
dolcezza
di appagarmi, perché nel mio
ricordo
bramo ciò che non posso più
bramare.
Il desiderio non ha colpe,
l’atto,
può darsi. Ma contro chi
l’azione
che in un istante ci assolve
o ci danna? -
Ho venduto la fabbrica. Mia
moglie
non deve preoccuparsi per la
sua
vecchiaia. Non ha figli. E
dunque il tempo
potrà placarle, forse, la
scomposta
solitudine, che l’avrebbe
certo
in ogni caso accompagnata
quando
i figli, adulti, avrebbero
lasciato
la casa. Quanto a me,
scomposta, come
per tutti, mi terrò la
desolata
solitudine in cui mi affonda
il sogno
di un’avventura che credevo
attinta
finalmente per sempre, ma che
invece
ho sentito strappata da una
rabbia
che non comprendo, ma che
avrei dovuto
prevedere. Mi sono ritirato
in un’isola dove unica
presenza
di vita sono, a farmi
compagnia,
gli uccelli su nell’aria e
gli animali
nei boschi sulla terra. E la
risacca
del mare sulla spiaggia, e
sugli scogli
il fragore che fanno,
tumultuose,
le onde, il ripetuto,
inarrestato,
e quanto somigliante ai miei
pensieri,
infrangersi dell’acqua e
della schiuma
sulla pietra che, immota, le
respinge.
Ma immoto, in me, è solo il
desiderio
inattuato, la speranza ottusa
del ricordo, per questi
giorni, e queste
notti, che mi trascorrono
ingombrati
da chi non c’è, deserto la
distesa
del mare, e più deserto
ancora il vasto
spazio dei boschi, dove il
cinguettio
costante degli uccelli mi
risuona
come un impenetrabile
silenzio.
La sola folla che ogni giorno
assedia
questa mia solitudine, è il
perenne,
perturbante vocio delle
domande,
l’ostinato, angoscioso,
interrogare
un destino, e può darsi un
dio, quale
abbia senso la vita, e se
davvero
un senso c’è tra le
fratture opache
delle cose, o se siamo noi a
dare
senso alle cose che non hanno
senso.
Io sento la sua voce. Ma la
voce
che sento, dove si nasconda,
dove
esista, in quale spazio della
mente,
o quale vita della terra,
questo,
non lo so. Ma la sento. Ed è
perpetuo
strazio sentirla, e non
sapere dove,
se c’è, si annidi una sua
consistenza.
A chi gli sopravvive, quasi
fosse
una colpa restare, ogni
scomparso
rimprovera la propria
assenza. E resto,
amato figlio, abbandonato
amante
a scontare il silenzio che
m’imponi:
sì, questo tuo silenzio così
pieno
della tua voce. Resto, e sono
solo.
Scenda la notte. Il cielo
senza sole
si rabbuia, e dal tenebroso
amplesso
confortata la terra nel suo
grembo
accoglie e custodisce gli
scomparsi.
Buio.
FINE
Fiano Romano, 4 – 14 giugno
2022