ROMA. TEATRO DELL’OPERA. LULU di Alban Berg, dallo Spirito
della Terra (Erdgeist) e dal Vaso di Pandora (Die
Büchste der
Pandora) di Frank Wedekind.
Lulu Agneta Eicheholz
Contessa Geschwitz Jennifer Larmore
Guardarobiera del teatro / Studente / Un Groom
Tamara Cura
Banchiere / Direttore del Teatro Peter Savidge
Pittore / Un Negro Brenden Gunnell
Dottor Schön / Jack
lo Squartatore Martin Gantner
Alwa Charles Walkman, canto; Luc De Wit,
recitazione (Thomas Piffka, indisposto)
Schigolch Willard White
Un Domatore / Atleta Zachary Altman
Principe / Domestico / Marchese Christofer
Lemmings
Una quindicenne Eleonora de la Peña
Sua Madre Sara Rocchi
Arredatrice Reut Ventorero
Giornalista Francesco Salvadori
Cameriere David Ravignani
Primario / Professore / Commissario di Polizia
Andrey Maslenkin
Attrice Joanna Dudley
Attore Andrea Fabi
Direttore Alejo Pérez
Regia William Kentridge
Co-regia Luc De Witt
Video Vatherine Meyburgh
Scene Sabine Theunissen
Costumi Greta Goiris
Luci Urs Schönebaum
Supervisione dei video Kim Gunning
Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma
Nuovo allestimento in coproduzione con
Metropolitan Opera di New York, English National Opera e De Nationale
Opera di Amsterdam.
Lulu è l’ultima definizione di una nuova
rappresentazione del personaggio femminile nel melodramma. Da oggetto
della scelta dei maschi, diventa soggetto che sceglie. e decreta il
proprio e loro destino. Il cammino comincia con la Violetta della
Traviata,
prosegue con Dalila (Saêns Sens), Carmen,
Kundry, Manon (più Massenet che Puccini), Salome, e infine, appunto,
con Lulu, nell’opera di Berg. Le è contemporanea la Lady Macbeth
di Šostakovič, dall’Uragano
di Ostrovskij. Anche
lei “un angelo” in un mondo di diavoli (i maschi), così la
definisce il compositore. Che il problema
sia sociale, e non morale, è già chiaro
subito a Verdi:
Così alla misera - ch'è un dì caduta,
Di più risorgere – speranza è muta!
Se pur benefico – le indulga Iddio,
L'uomo implacabile – per lei sarà.
Sono parole che Violetta dice a sé stessa, nel
colloquio con Germont. L'invocazione alla "religione", nel
terzo atto, acquista così il senso di un "risarcimento",
per dirla con la Cecilia di Goethe, in Stella.
Ma lì Goethe parla della Natura, non di Dio. Probabile che i
sentimenti di Verdi fossero affini. E Dio, per Violetta, significhi
solo un conforto che non trova sulla terra. Ancora più netta la
professione di Carmen:
Jamais Carmen ne cédera,
libre elle st née et libre elle mourra.
Don José l'ammazza. Come farà Jack lo
Squartatore, con Lulu. Non importa la diversità del rapporto,
amoroso tra Carmen e Don José, mercificato tra Lulu e Jack -
ma nel momento che l'uomo vuole disporre
della donna come un oggetto di sua proprietà, non l'ha già
mercificata? Baudelaire è esplicito:
“L’amour peut naître d’un
sentiment noble, le goût de la
prostitution:
mais il est bientôt corrompu par le goût de la proprieté”.
Rilegersi Marx, ma anche Kirkegaard –
sinistra e destra dell'hegelismo – forse
farà capire meglio la natura del rapporto. La
contrapposizione non è sessuale, ma di dominio. E la morale non
c’entra. Ma sì, l’assoggettamento. Come per gli schiavi, per i
popoli dominati da una potenza politica e militare. Tucidide lo
chiarisce una volta per sempre. Agli abitanti di Melo che
protestavano per le minacce di aggressione, gli ateniesi esplicitano
chiaramente i termini del conflitto: voi avete ragione, ma noi siamo
i più forti. La lotta dei generi è come la lotta di classe. Büchner
lo intuisce subito, giä prima di Marx, e Berg, nel Wozzeck, ne
prende atto: "Wozzeck,
Er ist ein guter Mensch, aber … Er hat keine Moral!“ (Wozzeck,
lei è un brav’uomo, ma ... non ha morale) dice
il Capitano. Wozzeck risponde che i poveri
non hanno il denaro per permettersi il lusso di una morale. In
questo, nel portare sulla scena le cause sociali dei problemi morali,
il teatro musicale addirittura anticipa e radicalizza lo Ibsen di
Casa di bambola
e della Donna del mare,
di cui Wedeking, l’autore dei drammi da cui Berg trae il libretto,
è un appassionato e geniale prosecutore. E’ una tematica alla
quale non resterà indifferente nemmeno Pirandello. Berg, a questo
nuovo personaggio femminile, innalza un monumento musicale
formidabile e le pone accanto, simbolo sublime di amore che dà senza
chiedere, la lesbica Contessa Geschwitz. Due donne diversissime, ma
ciascuna, a suo modo, molto al di sopra del torvo, contorto e
prevaricante mondo maschile. Del quale, però, finiscono vittime,
proprio perché donne. Sembra una storia di oggi, e Jack lo
Squartatore, che alla fine uccide Lulu, si fa simbolo di tutti i
maschi femminicidi. Opera immensa, che ha pochi confronti nel teatro
musicale, per l’ardita commistione di razionalistica organizzazione
costruttiva e spericolata, si direbbe irrefrenata espressione di una
furia primordiale. Berg, con Lulu,
tenta la riscrittura del dramma musicale wagneriano, così come con
Wozzeck
aveva sperimentato la proposta beethoveniana di un teatro musicale
costruito con le forme strumentali. William Kentridge, lo
straordinario artista sudafricano che ha reinventato gli spalti del
Lungotevere romano, ne trae uno spettacolo memorabile, una sorta di
graphic
novel in
cui gli schizzi d’inchiostro sono schizzi di sangue, le smorfie
espressionistiche delle figure l’urlo di un dolore immedicabile.
Merito anche delle bellissime scene di Sabine Theunissen e dei
variopinti costumi di Greta Goiris. Perfette le luci di Urs
Schönebaum. Sulla
scena un cast di prim’ordine. E come sempre, ciò che per un
mediocre artista sarebbe stato un ostacolo insormontabile, e cioè il
venir meno di uno degli attori, per Kentridge diventa lo stimolo a
improvvisare una nuova invenzione teatrale. Il tenore Thomas Piffka,
che avrebbe dovuto interpretare la parte di Alwa, si ammala, e non
trovando chi potesse sostituirlo, il ruolo vocale è affidato a
Charles Walkman, che lo canta sulla destra del proscenio, sotto la
pianista che mima una sorta di doppio inquietante di Lulu, attua
istericamente, com movimenti contorsionistici, la marionetta alla
quale gli uomini vorrebbero ridurre tutte le donne. In alto, sulla
scena, il co-regista Luc De Witt, mima la parte: il canto sotto la
pianista, il personaggio sulla scena. L’effetto di discrasia sembra
voluto. Un atto di violenta estraniazione, quasi alla Brecht. Lulu è
Agneta Heichenholz, una spiritata macchina sessuale, ma sembra non
partecipare emotivamente alle azioni che le si chiede di compiere,
“senza cuore e senz’anima”, come dirà, morendo, la Geschwitz,
impersonata con dolorosa estraneità da Jennifer Larmore, “io devo
lasciare questa gente”. E’ un’aliena in un mondo di automi. Una
che sente, che ama, in un mondo senza sentimenti. Che poi il Dottor
Schön e Jack lo
Squartatore siano interpretati dallo stesso attore è già previsto
da Berg, e prima ancora da Wedekind, quasi a rappresentare l’unico
ruolo che i maschi sanno recitare nei confronti della donna. Martin
Gantner è perfetto, in tutti e due i ruoli: il perbenismo e il
formalismo borghesi del Dottore, i suoi scrupoli di coscienza, la sua
vergogna di farsi marito di una puttana, sono l’altra faccia del
Moralizzatore Jack, che forse ne è la vera maschera. Interessante,
che alla prima del proprio dramma, Wedekind si riservasse il ruolo di
Jack lo Squartatore, quasi a mettere a nudo la natura profonda
dell’aggressività maschile, come una seconda anima dello stesso
drammaturgo, e di qualunque scrittore. Ma tutto il cast è degno di
lode. Il Banchiere e Direttore di Teatro di Peter Savidge; il
Domatore e l’Atleta di Zachary Altman, entrambi loschi, sfuggenti,
viscidissimi; il monumentale, terribile, e nello stesso tempo
ripugnante, meschino Schigolch di Willard White, e Christopher
Lemmings, Eleonora de la Peña,
Sara Rocchi Raul Ventorero (questi ultimi due dal progetto
“Fabbrica”, Young Artist Program del Teatro dell’Opera),
Francesco Salvadori, David Ravignani. Andrey Maslenkin, Joanna
Dudley, e Andrea Fabi. Le scene si disegnano sotto gli occhi degli
spettatori. Il teatro si fa mentre l’azione procede, mentre la
musica agisce e via via prende forma. Impressionanti gli schizzi
d’inchiostro, spennellati, o, si direbbe, quasi eiaculati da un
invisibile Burattinaio, sperma e sangue sono la stessa cosa nella
fantasia popolare, e gli schizzi d’inchiostro, le spennellate,
appaiono, sono espulsioni di sangue, squarci sul corpo di vittime
umane, invece che disegni su pupazzi che declinano le smorfie di
marionette espressionistiche, si pensa a Schlemmer. Il pubblico segue
con il fiato sospeso. E alla fine decreta a tutti quanti un caloroso,
trionfale applauso. Che il pubblico del Teatro dell’Opera si stia
abituando finalmente al teatro moderno? Qualcuno nell’intervallo ha
detto:”troppo intellettuale per i miei gusti”, e qualcun altro:
“bellissime le scene, ma questa musica!” E’ la musica di ormai
quasi un secolo fa e per qualcuno appare ancora indigeribile. Quanto
all’intellettualità dell’opera, oltre che della messa in scena,
chi se ne senta disturbato, non venga al Teatro dell’Opera, vada a
godersi un film di cassetta. Ma erano voci isolate. Al pubblico è
invece piaciuto lo spettacolo. E questo conta. Ho lasciato di
proposito alla fine il cenno sulla concertazione dell’opera. Alejo
Pérez legge la partitura di Berg con grande intelligenza e con
sottile penetrazione delle sue intricatissime, e spesse, fitte
tessiture contrappuntistiche. Ma manca il rovello, la furia,
l’intensità esplosiva del gesto musicale. La difficoltà sta tutta
qui: nella scrittura di una musica che calcola il minimo dettaglio,
in cui anche la pausa di biscroma ha un senso strutturale, ma che
deve aggredire l’ascoltatore come un fiume in piena, un torrente di
furore, tenerezza, lancinante dolcezza, irruente rabbia,
maltrattenuto rancore, gelido cinismo, e ogni altra sfumatura della
passione umana. L’orchestra si gonfia e si assottiglia, i timbri si
fanno grevi e si ammorbidiscono in un canto struggente, evocativo,
disperato. Meraviglia, ogni volta, la sintesi che questa musica
realizza, da Beethoven e Schumann a Mahler. Quanto può sembrare
struggimento pucciniano,, è in realtà esasperazione liederistica,
c’è anche nella Genoveva
di Schumann, e la morbidezza timbrica che sembra soffocare il
respiro, non attinge a Puccini, ma alla comune fonte musicale, la
musica francese che va da Gounod, anzi già da Berlioz (Nuits
d’été), Saint- Saêns,
a Bizet (il preludio al terzo atto di
Carmen), a
Massenet, e, soprattutto, a Debussy. Ecco:
questa complessità c’era nello spettacolo di Kentridge, ma non
nell’interpretazione musicale di Pérez. Ripeto: puntigliosa,
precisa, intelligente. Ma per Berg l’intelligenza, indispensabile,
da sé non basta. Ci vuole altro. La violenza che scardina il mondo,
come nell’ultimo accordo di tutti e dodici i suoni della scala
cromatica, nel momento in cui Jack squarcia il ventre di Lulu, e la
dolcezza sfinita, arresa, disperata con cui la Contessa Geschwitz
canta il suo addio alla vita. Che poi è la
stessa del Concerto
per violino, composto per la “morte di un angelo”, la figlia di
Alma Schindler, vedova Mahler, moglie di Gropius. Il contatto è
inquietante: l’angelo, in Berg, non solo è quasi sempre la donna,
ma anche, come in Wozzeck
e Lulu,
l’angelo della morte. Di nuovo Eros e Thanatos, sesso e morte.
Wagner non aveva scritto vanamente un Tristano!
Fiano Romano, 22 maggio 2017