MENDELSSOHN
COMPLETE PIANO WORKS
ROBERTO PROSSEDA
(per le pagine a 4
mani e due pianoforti, anche Alessandra Ammara)
DECCA 481 5297
10 CD
Und wenn der Mensch in seiner Qual verstummt.
Gab mir ein Gott zu sagen was ich leide
Goethe, Elegie1
Roberto Prosseda ha
concluso il suo lungo e meraviglioso viaggio attraverso l’opera
pianistica di Felix Mendelssohn-Bartholdy. Per le pagine a 4 mani e
per i brani per due pianoforte gli si unisce Alessandra Ammara. Di
Mendelssohn il grande pubblico conosce poche opere, le Sinfonie terza
e quarta (le cosiddette Scozzese e Italiana), le musiche di scena per
il Sogno di una notte di mezza estate (soprattutto l’Ouverture) e
qualche altra Ouverture, soprattutto La grotta di Fingal. I due
bellissimi oratori sono da noi pressoché sconosciuti, eseguiti
rarissimamente. Si crede di conoscere meglio la sua musica
pianistica, in genere, però, limitata ai Lieder ohne Worte (canzoni
senza parole, malamente tradotti Romanze senza parole). Per chi
studia pianoforte quasi un tormento. Per chi studia composizione un
ostacolo da togliersi subito dalla via. Molti ignorano che esistono
anche due bellissimi Concerti per pianoforte e orchestra, due
straordinari Trii. E altro, anche tra le composizioni giovanili.
Famosissimo tra i suoi contemporanei, Mendelssohn ha sofferto in
seguito proprio di questa fama, che parve usurpata. Eppure tutto il
romanticismo risulterebbe incomprensibile senza di lui. L’orchestra
romantica si può dire inventata da lui, e da una pagina scritta a 17
anni: l’Ouverture per il Sogno di una notte di mezza estate. Le
musiche di scena furono composte molto dopo. Così come si devono a
lui i modelli di concerto romantico per pianoforte e per violino.
Liszt lo capì meglio di altri. E il modello di quartetto romantico.
Incredibilmente e saldamente ancorato agli ultimi quartetti di
Beethoven, quando questi apparivano ancora ostici perfino a un
Brahms. Mendelssohn ne coglie tutta la novità, e bisognerà
aspettare Schoenberg e Bartók per
una lettura ugualmente acuta non già dello stile, bensì della
costruzione musicale. Ma torniamo alle pagine pianistiche. Consiglio
l’ascoltatore di cominciare dalle pagine giovanili (cd 7m 8 e 9).
Alcune sono scritte da un bambino di 11 anni. Ma che già coglie i
suoi modelli, Bach, Haydn e, solo in parte, Mozart. Ma soprattutto
quali siano i
suoi contemporanei. Uno, in particolare: Beethoven. Scusate s’è
poco. E’ come se nel 1960 un bambino di dieci anni scegliesse a
modello la musica di un Boulez o di uno
Stockhausen. Già sublime il primo tempo della Sonata in mi minore
(1820! Mendelssohn nasce nel 1809). E già colta una caratteristica
della propria scrittura: la leggerezza sognante. Ma guai a scambiare
questa leggerezza per superficialità, è invece l’increspatura di
un’irrequietezza profonda, si direbbe quasi psicotica. C’è già
il bisogno di controllo formale, certo, come una richiesta d’aiuto
alle forze della Ragione,
di mettere ordine nel caos della fantasia. Paradossalmente, proprio
questa limpidezza strutturale esalta l’inquietudine alla quale
vorebbe mettere
il bavaglio. Il soccorso viene dal
contrappunto e dalla distribuzione dei rapporti tematici. Musica
sapientissima, già questa del bambino. E non ha nulla d’infantile.
Proprio questo fa paura e apre un abisso: quello in cui Mendelssohn
guarda dentro già dagli anni dell’infanzia. Rubando l’espressione
a un famoso, e grande, scrittore ceco, la si direbbe “insostenibile
leggerezza dell’essere”. L’orecchio di Mendelssohn percepisce
le increspature dell’esistenza, vi s’infila dentro e le racconta,
come se fossero la cosa più naturale del mondo: sono invece
l’inferno della fugacità, della morte, del nulla, ma
scaramanticamente raccontate come gioco, inganno, fuga. Il rapporto
quasi incestuoso con la sorella Fanny (come quello di Goethe con la
sorella Cornelia) ci dice, sul piano psicologico, quanto intensa, e
quanto dolorosa, fosse la percezione dei legami
umani. In musica questa percezione si traduce nel gioco aereo di
intelaiature musicali sospese sul vuoto, si direbbe sull’abisso
della vita. Ma si ascoltino, o si
riascoltino, i Lieder ohne Worte. Già nel titolo sono un manifesto
romantico: viene proclamata l’identità di musica e poesia, non nel
senso di un significato esterno alla musica, ma in quello che già la
musica è significato,
ed è significato
poetico. Indipendentemente dal fatto che se ne condivida o no la
poetica, la forza espressiva di questa musica è straordinaria. Come
straordinario è l’istinto infallibile di sintesi, di
concentrazione, di rigore deduttivo nell’elaborazione
tematica. Ma ogni pagina, anche le minori, quelle di occasione, è un
miracolo di eleganza. Che non ha, però, niente di decorativo. E’
come dire con parole leggere il terribile. C’è qualcosa della
conversazione dei salotti francesi, modello dei salotti berlinesi, e
il salotto Mendelssohn era tra i più raffinati. Il nonno Moses, un
filosofo tra i fondatori della moderna filosofia della religione:
Lessig lo prese a modello per disegnare la
figura dell’ebreo Nathan nel suo dramma
Nathan il saggio, che è anche
un rtratto terribile dell’antisemitismo cristiano, e tedesco. Il
padre di Felix, Abraham Mendelssohn, conoscendo
l’amicizia che aveva legato Goethe al padre Moses,
andò un giorno a Weimar, da Goethe, per
presentargli il figlio Felix. Goethe allora, per
evitare gli importuni, poneva molti filtri
alle visite. Il maggiordomo gli consegnò il biglietto da visita di
Abraham. Goethe corse fuori dello studio, incontro all’ospite, lo
abbracciò e chiese: “Mendelssohn,.figlio di Moses?” Abraham
rispose: “Lei è il primo tedesco che mi chiede se sono figlio di
Moses Mendelssohn e non figlio dell’ebreo Moses Mendelssohn”.
L’episodio è raccontato da Eckermann.
Felix, da parte sua, appena sedicenne, per
il compleanno di Goethe, gli regalò l’Andria di Terenzio tradotta
da lui stesso in tedesco. Il salotto
berlinese, e la frequentazione della casa di Goethe sono l’ambiente
in cui si formò il giovane Felix Mendelssohn. I Mendelssohn
abitavano nella zona “bene” di Berlino. Achim von Arnim, lo
scrittore, che raccolse in un volume i canti popolari del Wundernhorn
(Corno magico), alcuni poi messi in musica da Mahler, vide una volta
passargli accanto Felix bambino, lo fissò stizzito ed esclamò: “E
tu, brutto bambino ebreo, che ci fai qui tra la gente perbene?” In
una lettera tarda Mendelssohn confessa che il ricordo di
quell’episodio gli bruciava ancora. Erano questi, forse, una parte
degli abissi che il musicista guardava e allontanava da sé con
agoscia, ma anche con leggerezza. Non
sono mai assenti dalla sua musica. Sta proprio qui la difficoltà
dell’interpretazione mendelssohniana. Serbare l’equilibrio e
l’eleganza della scrittura, ma far sentire l’irrequietezza che
circola sotto. Farne sentire
il brivido, anzi,
e talora l’orrore. Si pensa all’attacco del Concerto per violino.
Roberto Prosseda legge tutto ciò con sovrana intelligenza, con acuta
sensibilità. Il tocco passa da un’aerea leggerezza a una selvaggia
irruenza, soprattutto nelle pagine giovanili. Ma a sostenere la
tenuta della pagina c’è poi la penetrazione profonda
dell’intreccio contrappuntistico (Mendelssohn ha scritto un diluvio
di fughe, anche quando non le chiama fughe). C’è l’abbandono a
una cantabilità aristocratica, mai esibita, tutta interiore. Anche
quando in un bellissimo valzer giovanile è imitata la danza
popolare. C’è la mutevolezza illimitata del fraseggiare,
l’accarezzamento dolcissimo della melodia. Insomma, se
quest’interpretazione dell’opera pianistica di Mendelssohn è un
vero e proprio viaggio, un’avventura dalla quale forse lo stesso
pianista esce arricchito, consapevole di cose che forse prima
ignorava, anche per l’ascoltatore il viaggio è pieno di sorprese,
l’avventura una scoperta di sé stessi, del lato oscuro di sé
stessi, che qui Mendelssohn gli squaderna davanti con prodigiosa arte
d’incantatore, quasi un moderno Orfeo che fa cantare alberi e
pietre, o un Hermes che disvela i misteri nascosti delle cose.
Fiano
Romano, 9 maggio 2017
1E
se l‘uomo nel suo strazio ammutolisce, / mi
diede un dio di dire ciò che io soffro. Goethe. Elegia (di
Marienbad). I versi posti come epigrafe all’elegia sono tratti dal
Torquato Tasso. Goethe ha solo personalizzato un “ihr” a lui, in
“mir” a me.
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