Alberto Bassetti,
I Due Fratelli.
Roma,Teatro dei
Conciatori
Contemporary Urban
Theatre
Dal 16 al 21 maggio
2017
Narco, Marco Quaglia
Andrea, Antonio
Tintis
Regia di Antonio
Serrano
Due fratelli, Marco,
il più giovane, e Andrea, si rincontrano dopo un anno. Il padre sta
morendo nella stanza accanto. I due si scambiano le battute di rito.
Si scontrano, rivivono, scherzando, ma anche con rabbia, la propria
infanzia. Che non fu felice, ma conflittuale, anche se i due fratelli
restano legati da un’intensa e quasi morbosa tenerezza. E’ il più
grande che, naturalmente, anche se non sembra, ama di più l’altro,
vorrebbe anzi, in certi momenti, tenerselo sulle ginocchia, cullarlo,
come se fosse ancora bambino. E, in qualche modo, è rimasto bambino.
Epilettico, la mente disinteressata per la complessità reale del
mondo, e soprattutto degli affetti familiari, persa in un suo altro
mondo ingenuo, spirituale, forse un po’ new age, incoraggiato in
questo da uno strano prete, padre Mathias, che gli instilla una
sorta di ecumenismo religioso. Visnu, Allah, Gesù quasi un unico
dio. Ogni ricordo, tra i due, è come una ferita sulla quale parlarne
sparge sale. Ma riannoda, anche, gli affetti. Fino all’inaspettata
conclusione del dialogo, che qui non rivelo per non rovinare la
sorpresa del lettore o dello spettatore. La bontà di Marco è una
bontà “facile”, ingenua, ai problemi pratici ci pensano gli
altri, ci pensa il fratello, anche a pagargli i viaggi in India. Ma
il fratello duro, quello che guarda a terra, che governa un’impresa,
deve badare a moglie e figli, al padre ridotto a vegetale
dall’Alzheimer, pagare il costo della famiglia, la badante, i
dipendenti dell’industria, non può permettersi di sognare, di
viaggiare, di abbandonarsi al misticismo vedico. Ma siamo sicuri che
lo vorrebbe? Non lo sappiamo. Come non sappiamo se le invenzioni, le
menzogne del fratello ingenuo, una sorta di Prinsipe Mishkyn, in
formato famiglia italiana, senza la pazzia del russo, senza le sua
visionarie introspezioni dell’io (il dialogo con Rogozin ai piedi
del cadavere di Nastasia Filippovna, è tra le pagine più alte della
letteratura di tutti i tempi, ha lo spessore tragico del dialogo tra
Achille e Priamo alla fine dell’Iliade, anche lì un cadavere
conteso), non sappiamo se anche queste menzogne sono inconsapevoli,
ingenue, o artefatte, astute. Bassetti intesse dialoghi più
quotidiani di quanto faccia Dostoevskij (il che non significa né
meno intensi né meno disponibili ad aprire gli abissi dell’io), ma
tra le maglie traspare un mondo di sentimenti sospesi sul vuoto, i
due fratelli brancolano entrambi nel buio, non colgono e non possono
cogliere la realtà. Per entrami il destino è il fallimento di tutta
una vita. La felicità di Visnu è irraggiungibile, quanto la
ricomposizione del disastro finanziario, se per metterci una toppa si
deve, senza tanti complimenti, sopprimere una vita. E ricorrere al
sotterfugio di non apparire responsabili dell’omicidio. Si resta
comunque responsabili del proprio fallimento, del deserto
sentimentale che nessun amore, nemmeno quello tenerissimo di due
fratelli adulti che ricordano l’amore dei fratelli bambini, è
riuscito a popolare. Il buio che cala, alla fine, è non solo il buio
teatrale, ma il buio che cala sul senso della vita. “Fratello, oh,
fratello, ma di che ti preoccupi? Perché piangi così, e soffri, e
ti tormenti? Sai forse dov’è il giusto, la verità, la vita?
Davvero tu lo sai cos’è la vita? E la morte?” Noi, che
assistiamo allo spettacolo, lo sappiamo? Marco Quaglia, il fratello
mistico, e Antonio Tintis, il fratello adulto, con i piedi sulla
terra, danno voce e corpo al dialogo. Soprattutto corpo. Bello quando
il fratello più giovane tasta con le mani la pancia del fratello più
maturo. Il tempo che passa, l’avvicinarsi della morte. Eppure la
morte è già là, nella stanza accanto. I due fratelli non strillano
quasi mai. Sussurrano, sorridono, anche nel dire le cose più
terribili. Questo teatro non è fatto delle cose dette, delle parole
che si ascoltano, ma delle parole che non vengono dette, di un
sottotesto che i due fratelli indovinano l’uno nella coscienza
dell’altro, e che gli spettatori interrogano dentro sé stessi, e
si fanno domande alle quali non ci sono risposte, tanto meno possono
darle, quelle risposte, due fratelli che sembrano essere vissuti
dalla vita, piuttosto che viverla. Il fallimento non arriva alla
fine. E’ già predisposto – dalla natura, dal caso, da un dio,
per chi ci crede – quando i due fratelli nascono così come sono
nati. Si sono spesi fiumi d’inchiostro a cercare di capire che cosa
fosse il Destino per i Greci. Eccolo. Chi decide quando, dove, e come
nascere? E chi in una famiglia ricca invece che povera, di dominanti,
invece che di schiavi? Alla fine dell’Edipo a Colono di Sofocle,
Edipo, parlando con Teseo dice: Lo so che sono innocente delle colpe
di cui mi si accusa, non sapevo che l’uomo che ammazzavo era mio
padre, non sapevo che mi sarei congiunto con mia madre. Di tutto
questo, lo so, sono innocente. Ma chiedo: perché io? Sta tutto lì
il senso del destino. Amleto che vede il marcio della Danimarca, ma
lui che può farci? è “malato”, malato “about my heart”,
nella zona del cuore. Siamo tutti malati, direbbe Svevo, perché a
essere una malattia è la stessa vita. Ciò che però più fa male,
ricordando i dialoghi dei due fratelli, è che di fatto nessuno dei
due conosce veramente l’altro, tutti e due sono rinchiusi nella
prigione invalicabile della propria solitudine. Se talora sembrano
capire che cosa passa nel cervello dell’altro è perché lo sentono
passare nel proprio. E allora? Il più felice, forse, è proprio chi
non c’è più, il vegetale umano che ha smesso di vegetare. Antonio
Serra, che ha curato la regia, affida l’azione alla scena nuda, al
gioco delle luci, alle voci e ai corpi dei due fratelli. Sembra quasi
di toccarli, vedendoli, e che la loro voce sia la nostra. Quante
domande senza risposta! Ma questo è, da sempre, il vero teatro:
interrogare, chiedere, domandarsi, e non conoscere nessuna risposta.
Fiano Romano, 22
maggio 2017
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