lunedì 22 maggio 2017

Roma, Teatro dei Conciatori, I due fratelli, di Alberto Bassetti

Alberto Bassetti, I Due Fratelli.

Roma,Teatro dei Conciatori
Contemporary Urban Theatre
Dal 16 al 21 maggio 2017

Narco, Marco Quaglia
Andrea, Antonio Tintis
Regia di Antonio Serrano

Due fratelli, Marco, il più giovane, e Andrea, si rincontrano dopo un anno. Il padre sta morendo nella stanza accanto. I due si scambiano le battute di rito. Si scontrano, rivivono, scherzando, ma anche con rabbia, la propria infanzia. Che non fu felice, ma conflittuale, anche se i due fratelli restano legati da un’intensa e quasi morbosa tenerezza. E’ il più grande che, naturalmente, anche se non sembra, ama di più l’altro, vorrebbe anzi, in certi momenti, tenerselo sulle ginocchia, cullarlo, come se fosse ancora bambino. E, in qualche modo, è rimasto bambino. Epilettico, la mente disinteressata per la complessità reale del mondo, e soprattutto degli affetti familiari, persa in un suo altro mondo ingenuo, spirituale, forse un po’ new age, incoraggiato in questo da uno strano prete, padre Mathias, che gli instilla una sorta di ecumenismo religioso. Visnu, Allah, Gesù quasi un unico dio. Ogni ricordo, tra i due, è come una ferita sulla quale parlarne sparge sale. Ma riannoda, anche, gli affetti. Fino all’inaspettata conclusione del dialogo, che qui non rivelo per non rovinare la sorpresa del lettore o dello spettatore. La bontà di Marco è una bontà “facile”, ingenua, ai problemi pratici ci pensano gli altri, ci pensa il fratello, anche a pagargli i viaggi in India. Ma il fratello duro, quello che guarda a terra, che governa un’impresa, deve badare a moglie e figli, al padre ridotto a vegetale dall’Alzheimer, pagare il costo della famiglia, la badante, i dipendenti dell’industria, non può permettersi di sognare, di viaggiare, di abbandonarsi al misticismo vedico. Ma siamo sicuri che lo vorrebbe? Non lo sappiamo. Come non sappiamo se le invenzioni, le menzogne del fratello ingenuo, una sorta di Prinsipe Mishkyn, in formato famiglia italiana, senza la pazzia del russo, senza le sua visionarie introspezioni dell’io (il dialogo con Rogozin ai piedi del cadavere di Nastasia Filippovna, è tra le pagine più alte della letteratura di tutti i tempi, ha lo spessore tragico del dialogo tra Achille e Priamo alla fine dell’Iliade, anche lì un cadavere conteso), non sappiamo se anche queste menzogne sono inconsapevoli, ingenue, o artefatte, astute. Bassetti intesse dialoghi più quotidiani di quanto faccia Dostoevskij (il che non significa né meno intensi né meno disponibili ad aprire gli abissi dell’io), ma tra le maglie traspare un mondo di sentimenti sospesi sul vuoto, i due fratelli brancolano entrambi nel buio, non colgono e non possono cogliere la realtà. Per entrami il destino è il fallimento di tutta una vita. La felicità di Visnu è irraggiungibile, quanto la ricomposizione del disastro finanziario, se per metterci una toppa si deve, senza tanti complimenti, sopprimere una vita. E ricorrere al sotterfugio di non apparire responsabili dell’omicidio. Si resta comunque responsabili del proprio fallimento, del deserto sentimentale che nessun amore, nemmeno quello tenerissimo di due fratelli adulti che ricordano l’amore dei fratelli bambini, è riuscito a popolare. Il buio che cala, alla fine, è non solo il buio teatrale, ma il buio che cala sul senso della vita. “Fratello, oh, fratello, ma di che ti preoccupi? Perché piangi così, e soffri, e ti tormenti? Sai forse dov’è il giusto, la verità, la vita? Davvero tu lo sai cos’è la vita? E la morte?” Noi, che assistiamo allo spettacolo, lo sappiamo? Marco Quaglia, il fratello mistico, e Antonio Tintis, il fratello adulto, con i piedi sulla terra, danno voce e corpo al dialogo. Soprattutto corpo. Bello quando il fratello più giovane tasta con le mani la pancia del fratello più maturo. Il tempo che passa, l’avvicinarsi della morte. Eppure la morte è già là, nella stanza accanto. I due fratelli non strillano quasi mai. Sussurrano, sorridono, anche nel dire le cose più terribili. Questo teatro non è fatto delle cose dette, delle parole che si ascoltano, ma delle parole che non vengono dette, di un sottotesto che i due fratelli indovinano l’uno nella coscienza dell’altro, e che gli spettatori interrogano dentro sé stessi, e si fanno domande alle quali non ci sono risposte, tanto meno possono darle, quelle risposte, due fratelli che sembrano essere vissuti dalla vita, piuttosto che viverla. Il fallimento non arriva alla fine. E’ già predisposto – dalla natura, dal caso, da un dio, per chi ci crede – quando i due fratelli nascono così come sono nati. Si sono spesi fiumi d’inchiostro a cercare di capire che cosa fosse il Destino per i Greci. Eccolo. Chi decide quando, dove, e come nascere? E chi in una famiglia ricca invece che povera, di dominanti, invece che di schiavi? Alla fine dell’Edipo a Colono di Sofocle, Edipo, parlando con Teseo dice: Lo so che sono innocente delle colpe di cui mi si accusa, non sapevo che l’uomo che ammazzavo era mio padre, non sapevo che mi sarei congiunto con mia madre. Di tutto questo, lo so, sono innocente. Ma chiedo: perché io? Sta tutto lì il senso del destino. Amleto che vede il marcio della Danimarca, ma lui che può farci? è “malato”, malato “about my heart”, nella zona del cuore. Siamo tutti malati, direbbe Svevo, perché a essere una malattia è la stessa vita. Ciò che però più fa male, ricordando i dialoghi dei due fratelli, è che di fatto nessuno dei due conosce veramente l’altro, tutti e due sono rinchiusi nella prigione invalicabile della propria solitudine. Se talora sembrano capire che cosa passa nel cervello dell’altro è perché lo sentono passare nel proprio. E allora? Il più felice, forse, è proprio chi non c’è più, il vegetale umano che ha smesso di vegetare. Antonio Serra, che ha curato la regia, affida l’azione alla scena nuda, al gioco delle luci, alle voci e ai corpi dei due fratelli. Sembra quasi di toccarli, vedendoli, e che la loro voce sia la nostra. Quante domande senza risposta! Ma questo è, da sempre, il vero teatro: interrogare, chiedere, domandarsi, e non conoscere nessuna risposta.

Fiano Romano, 22 maggio 2017

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