VENEZIA. TEATRO LA FENICE.
AQUAGRANDA di Filippo Perocco. Libretto di Luigi Cerantola su un soggetto di
Roberto Bianchin. Inaugurazione della stagione d’opera e balletto 2016-2017.
Fortunato Andrea
Mastroni
Ernesto Mirko
Guadagnini
Lilli Giulia
Bolcato
Leda Silvia
Regazzo
Nane Vincenzo
Nizzardo
Luciano William
Corrò
Cester,
maresciallo Marcello
Nardis
Direttore Marco
Angius
Regia Damiano
Michieletto
Scene Paolo
Fantin
Costumi Carla
Teti
Regia del
suono Davide
Tiso
Video Carmen
Zimmermann
Roland
Horvath
Coreografie Chiara
Vecchi
Orchestra e
Coro del Teatro La Fenice
Maestro del
Coro Claudio
Marino Moretti
Prima
rappresentazione: 4 novembre 2016
Repliche: 5,
6, 8, 9, 10, 11, 12, 13 novembre 2016
Opera
inaugurale della stagione 2016-2017
Lo spazio che la stampa
periodica - quotidiana, settimanale o mensile che sia - dedica oggi in Italia alla
cultura, e in particolare al teatro, e più specificatamente al teatro musicale
contemporaneo, chiamarlo esiguo è un eufemismo. Perciò cerco da parte mia di
rivalermi, e di ricuperare quello spazio negato, in queste pagine digitali di
un blog, che non so se poi tocchi qualcuno più dei venticinque lettori
manzoniani. Ma l’occasione è ghiotta. Sono passati 10 giorni dall’ultima
recita, e dunque queste righe, più che una recensione, vogliono essere una
riflessione sul posto e sulla funzione della musica nel teatro di oggi.
50 anni fa Firenze e Venezia
furono aggredite da un’ondata eccezionale di maltempo, ma più eccezionale
ancora fu l’evidenza con cui la tradizionale disattenzione italiana alla cura
del territorio provocasse catastrofi che, se forse non potevano essere evitate,
potevano certo essere previste, controllate e se ne poteva pertanto ridurre il
danno. L’esondazione dei fiumi non è fenomeno innaturale. L’antico Egitto ne
traeva, anzi, la propria prosperità. Innaturale è, invece, la cementificazione
incontrollata del territorio, soprattutto del territorio attorno ai fiumi, che
toglie sfogo al deflusso delle acque. Se poi, come accadde a Firenze, ci si
aggiunge l’insipienza e la scellerata irresponsabilità delle amministrazioni
nazionali e locali ecco il disastro. Non si avvertì la popolazione fiorentina
dell’arrivo della piena dell’Arno; per non provocare panico, si disse:
giustificazione più imbecille dell’imprevidenza. Era meno grave, per costoro, provocare
un’alluvione inaspettata. Santa Croce e la Biblioteca Nazionale subirono danni
irreversibili, e tutte le botteghe sui Lungarni furono devastate dalla furia
del fiume. Una di queste, con antico, amaro umorismo tipicamente fiorentino,
appiccicò sulla porta della bottega il cartello con su scritto: “Chiuso per
umido”. A Venezia non fu peggio, ma fu ugualmente e colpevolmente distruttivo.
L’acqua alta non è un fenomeno nuovo. Nel passato ci si difendeva vietando le
attività commerciali ai piani bassi delle case. Ma anche regolando il deflusso
dei fiumi, scavando e pulendo regolarmente i canali e i rii, insomma con un’opera
periodica di manutenzione. Quello che le attuali amministrazioni regionali,
provinciali e comunali non fanno. Per non parlare di quelle nazionali. La
bonifica del delta del Po e la costruzione del Porto e del Centro Industriale
di Marghera sono altre concause dell’aggravarsi del fenomeno dell’acqua alta. L’ultima volta, comunque, che furono sistematicamente
dragati rii e canali avvenne che Venezia era ancora austriaca. Dal 1866, cioè
da quando divenne italiana, più niente. Ricordo che quando negli anni 90 si
decise di dragare il rio sotto la mia casa di allora, affiorarono bidet,
frigoriferi, tazze di gabinetto: i veneziani, insomma, avevano usato il rio
come una comoda discarica. Senza pensare che ciò potesse alzare il livello
dell’acqua. Anzi, sul Canal Grande ci fu una protesta dei gondolieri che si
vedevano impedito l’accesso ai percorsi turistici, perché i canali venivano
finalmente dragati. All’insipienza della amministrazioni si unisce, quasi
sempre, il miope interesse di singole categorie. L’incendio della Fenice fu
provocato dagli elettricisti che volevano provocare un piccolo incidente per
non pagare la multa del ritardo con cui consegnavano i lavori. L’incidente uscì
loro di mano e ci fu l’incendio del teatro. Ma questa è l’Italia. A Roma,
finché fu captale dello Stato della Chiesa, ogni 25 anni, si ripulivano e
restauravano le facciate di case e palazzi, sostituendo le pietre rose
dall’umido e dal tempo. Dal 1870, cioè da quando la città divenne capitale
d’Italia, più niente. Nemmeno strappare le sassifraghe dai cornicioni delle
chiese. Poi si parla del degrado di Roma.
Perché
questo lungo preambolo? Perché la ricorrenza di quella disastrosa acqua alta
del 1966, che fu chiamata, proprio per le sue proporzioni, “aqua granda”, acqua
grande, ha spinto la direzione del Teatro La Fenice, e cioè il sovrintendente
Cristiano Chiarot e il direttore artistico Fortunato Ortombina, a
commissionare un’opera che dopo 50 anni rievocasse quegli avvenimenti.
Meritoria iniziativa, che restaura una pratica fino agli inizi del secolo
scorso abituale: inaugurare la stagione di un teatro con un’opera nuova. A dire
il vero, durante tutto il secolo precedente, e cioè durante il secolo XIX, la
pratica si estendeva all’intera stagione.
Alla Fenice furono messe in scena per la prima volta, tra tante altre
opere, il Tancredi e la Semiramide di Rossini (L’Italiana in Algeri e la serie
della “farse”, negli altri teatri veneziani di S. Beneto e S. Moisé), Rigoletto,
Traviata, Simon Boccanegra di Verdi. Il soggetto della nuova opera è stato
tratto da un libro di Roberto Bianchin, Aquagranda, romanzo di un’alluvione. Bianchin
stende anche l’abbozzo della sceneggiatura e il libretto viene scritto in versi
da Luigi Cerantola. L’alluvione è vista dalla periferia della laguna,
dall’isola che ne subì per prima, e in maniera più disastrosa, l’impatto:
Pellestrina. E’ raccontata dalle paure e dalle angosce di una famigliola di
bottegai. Poi c’è il coro, che rappresenta la voce di tutta la popolazione, e
anche, un po’, la voce della Natura, dello Spettatore degli eventi naturali,
assumendo dunque sia le funzioni del coro della tragedia antica che quelle
dell’oratorio barocco. Diciamolo subito: è un libretto mediocre, la
versificazione è banale, non ha vero ritmo musicale, e l’azione manca, non c’è
una vera vicenda; i sentimenti dei personaggi rispecchiano un mondo chiuso,
abbastanza gretto, locale, anzi quasi localistico, della piccola borghesia di
paese. Niente di male, se assumesse il ruolo di spettatrice di una vicenda
collettiva. Venezia è un borgo. Da grande città di mercanti è diventata città
di bottegai e di pochi, pochissimi residenti, non più di 50.000, oggi, da circa
300.000 o più che erano nel suo splendore. Un circo turistico, una Disneyland.
Già negli anni ’60. E gli interessi turistici già allora erano prevalenti sugli
interessi della città. Non a caso, ormai, le istituzioni cittadine più
importanti, quelle che funzionano, Biennale, Palazzo Grassi, Fondazione Cini, Guggenheim,
non sono o non sono più veneziane. Proprio per questo si apprezza l’iniziativa
del Teatro La Fenice, che va in controtendenza, e restituisce a Venezia il suo
ruolo storico di capitale culturale, anzi di promotrice di una cultura nuova
nel mondo, ruolo che non avrebbe dovuto mai perdere, nemmeno davanti al
successo certo esponenziale, ma effimero, di qualche maschera e di troppe
botteghe di cianfrusaglie e vetri di Murano fabbricati in Cina.
Filippo
Perocco, il compositore della nuova opera, non aveva dunque un compito facile.
Ma sceglie e prende la via migliore: quella di usare come filo conduttore
dell’opera proprio la presenza di un coro, di una voce collettiva, che
s’immedesima con il flusso e deflusso delle acque e delle vicende.
Straordinaria la pagina in cui il coro presente, e poi vede, l’arrivo
dell’acqua. Conosco la vocalità di Perocco. Da anni persegue un’espressione, o
meglio una rappresentazione subliminale dei fatti, dei sentimenti. Discreta, sottilissima, ai limiti del
percepibile. Certo, come ha osservato qualcuno, ci si può sentire il modello di
Sciarrino. Ma perché no? Quando si accusa un compositore di avere qualche
modello, si parla di imitazione, di epigonismo. Ma ne siamo sicuri? Discorso
simile si fa, spesso, e sconsideratamente, sul primo Beethoven: imita Haydn. E
se invece Haydn fosse per Beethoven proprio il modello di un nuovo modo di
comporre? E dove trovava Beethoven modelli nuovi, tra i suoi contemporanei, se
non nel sempre rinnovantesi Haydn? Sarebbe come dire che un giovane compositore
degli anni ’50 e ’60 del Novecento imita Stockhausen o Boulez. E chi dovrebbe
prendere ad esempio se non i compositori
più nuovi del momento? Beethoven, poi, era talmente hadniano che attacca la sua
prima sinfonia con un accordo di settima, dunque un accordo dissonante, che
dovrebbe trovare una risoluzione, e la trova, ma non sulla tonica, come ci si
aspetterebbe, bensì sulla dominante, e così l’impianto tonale fondamentale è di
nuovo rinviato. Sembra che Haydn, alla prima esecuzione, si sia alzato
borbottando che non si comincia così una sinfonia. Se l’episodio è inventato,
com’è probabile, è tuttavia indicativo del fatto che già allora si sentisse
chiaro il distacco tra i due compositori.
Haydn muore nel 1809, non lo si dimentichi. E Beethoven ha dunque il
tempo di comporre l’Eroica, la Quinta, il primo Fidelio. Qualche eco beethoveniana
c’è anche nella partitura di Perocco, lo squillo esultante delle trombe alla
fine sembrano alludere, o citare, l’esultanza del finale della Quinta o della
Nona Sinfonia beethoveniana. Ma Sciarrino è solo un fantasma lontano. Forse più
vicino potrebbe sentirsi il materismo sonoro di uno Scelsi. O l’evanescenza
lagunare dell’ultimo Nono. Quello del Prometeo o dell’ultimo quartetto. Ma
perché cercare fonti o modelli? Ogni compositore rielabora la musica che chi
viene prima di lui gli lascia. Il punto non sta nell’indovinare che cosa un
compositore prenda e da chi, ma nel riconoscere che cosa ci sia di nuovo nella
sua scrittura. E’ probabile che l’esigenza di rendere comprensibile a un
pubblico, come quello italiano, poco avvezzo a digerire le arditezze della
fantasia sonora contemporanea, stato chiesto dalla direzione del teatro a
Perocco sia di ammorbidire le asprezze, sia di attenuare le dissonanze, sia,
infine, d’irrobustire le evanescenze. Ecco allora che Perocco, libero di
insinuare solo sussurri e quasi
impercettibili melismi nella tessitura corale, sia stato invece costretto a una
vocalità più esplicitamente e tradizionalmente melodrammatica per i personaggi.
Il contrasto si avverte, ma se sul piano musicale potrebbe sembrare incoerente,
funziona invece, e splendidamente, sul piano drammaturgico: e qui sta l’abilità
drammaturgica di Perocco, nel trasformare in una componente drammaturgica ciò
che avrebbe potuto incrinare l’unità della concezione musicale. Del resto,
sembra che proprio la drammaturgia offra oggi al musicista di superare le
contraddizioni, l’empasse insieme ideologico e di scrittura musicale, che la
musica “pura”, magari solo strumentale,
oppone al compositore. Insomma, sempre alla ricerca di un effetto
drammaturgico della pura struttura musicale, senza ricorrere perciò a effetti
extramusicali, Perocco vuole affidare proprio al contrasto tra la vocalità del
coro e quella dei personaggi lo stesso decorso, anzi la tensione dell’azione
teatrale. Ma ciò detto, chi sa se, invece, una più sfumata vocalità anche dei
personaggi, al limite del percettibile, che rispecchi l’onda lieve del coro, un
suono catturato quasi sul punto di essere emesso, anzi addirittura un attimo
primo ch’esso venga percepito, non avrebbe reso più intensa, e meno
“melodrammatica”, appunto, la drammaturgia che Perocco insegue. Quasi un’immersione
alle origini del suono, prima ancora che esso si manifesti. Naturalmente, solo
come tensione verso un’irraggiungibile utopia: l’inattingibilità dell’intento
rende proprio per questo più vera, se così si può dire, l’imperfezione della
scrittura, o piuttosto, il non espresso più violenta l’irruzione
dell’esprimibile. Il teatro di oggi non ama il realismo esplicito, anzi non ama
proprio nessuna esplicitazione. Preferisce alludere, sottintendere, ammiccare, lasciare
indovinare, affinare la percezione dell’udibile e del visibile ai limiti del
senso, al punto di abolirlo, quasi: ma senza eliminarlo, e proprio perciò nella
tensione tra il possibile e il reale costruire l’utopia di un mondo altro, che
più che specchio di questo, ne sia il modello irraggiungibile. Quasi un
Iperuranio delle Idee. Ma senza sogni metafisici. Perfettamente, e
profondamente immersi nel visibile e nell’udibili, anzi dall’udibile e dal
visibile sopraffatti, immedesimati o, per usare un neologismo di stampo
dantesco, inudibiliati e invisibiliati, resi cioè puro visibile e puro udibile.
A questo sistema di allusioni, quasi un codice interno della scrittura, un
cifrario strappato ai senhal della poesia provenzale, concorrono anche certi
madrigalismi, vale a dire il disegno simbolico degli intervalli o l’uso
esplicativo delle armonie: per esempio in un madrigale cinquecentesco su una
bellissima ottava dell’Ariosto, “Chi salirà per me, Madonna, in cielo”, il
musicista compone una melodia ascendente, o Bach, nel Magnificat, scrive una
linea ascendente alle parole “exaltavit humiles” e discendente a “debellavit
superbos”. Il dialogo iniziale dell’opera vede due personaggi che guardano
l’acqua: uno dice “la cresse” (sale), l’altro “la cala” (cala). Sarebbe stato
prevedibile un intervallo ascendente per “la cresse” e invece Perocco ne usa uno discendente, si sarebbe così aspettato un intervallo discendente per “la
cala” e invece si ode un intervallo ascendente, come se la musica contraddicesse le affermazioni dei personaggi. Ma poi Perocco, nel corso dell'azione, fa intonare a entrambi i personaggi un intervallo
discendente. La musica smentisce le osservazioni del personaggio, come se la realtà non fosse quella che il personaggio vede e descrive. Ma
tutta la partitura è piena di simili finezze “oratorie”. Non si dimentichi che
proprio l’arte oratoria ha spinto i musicisti a inventare forme musicali
equivalenti, figure musicali, cioè, che corrispondessero alle figure dell’arte
retorica, metafora, sineddoche, metonimia. Anzi proprio da queste analogie si
formò l’idea di una rappresentazione musicale degli affetti, cioè dei
sentimenti, che i romantici, non percependo più la convenzionalità del codice
retorico, scambiarono per espressione diretta del sentimento. Perocco sembra
riallacciarsi invece proprio a questa tradizione rinascimentale e barocca di
una musica rappresentativa di situazioni e sentimenti in virtù delle sue
capacità allusive attraverso l’uso variegato, si direbbe trasversale, allusivo,
incidentale, non diretto, dei suoni, timbri, volumi, ampiezze. E la felice idea
di costruire non una vera e propria azione teatrale, ma una sorta di oratorio
moderno, un poema sinfonico, in cui la distinzione tra natura e strumento
musicale, tra natura e voce umana venga abolita. Qualcosa d’analogo alle piaghe
d’Egitto descritte da Handel nel suo straordinario oratorio Israele in Egitto. E
su questo piano, allora, benvenuta la fantasia onirica di Damiano Michieletto,
il quale, della scrittura di Perocco ha colto il lato costruttivo fondamentale:
l’intreccio contrappuntistico, da una parte, e la delicatezza allusiva
dall’altra. E se in musica domina il contrappunto, che domini anche sulla
scena. Una enorme scatola trasparente piena d’acqua sta sospesa sulla scena,
dentro vi appaiono affondati uomini e donne che s’immergono e ne saltano fuori.
Sulla scena due personaggi osservano lontano, verso il pubblico, il flusso e
deflusso della laguna. Ecco già aprirsi un altro spazio davanti al
palcoscenico, quello del pubblico, della cavea del teatro. Come nel quadro Las
Meninas di Velázquez, lo spazio si apre, nella tela, qui sulla scena, verso il
fondo, e davanti alla tela, qui, davanti al palcoscenico, verso il punto
dell’osservatore. Ma dietro la scatola,
o vasca trasparente, si apre un interno di famiglia, in cui i personaggi
parlano e agiscono, ma intravisti dietro il filtro dell’acqua. E ci sono tante
sedie. Riempiono tutta una parte della
scena. Gli attori , figuranti e danzatori, anzi, le spostano e le ammucchiano
tutte da una parte, a destra. Ci si chiede che senso abbia questo spostamento.
Ma la vasca si apre e lascia cadere l’acqua, che invade la scena. Gli attori si precipitano a raggiungere le
sedie, vi montano sopra. Ecco spiegata, teatralmente, la funzione delle sedie.
Sono il supporto per difendersi dall’alzarsi dell’acqua. Le stesse su cui prima
si stava seduti. Hitchcock diceva che se a un certo punto del film compare una
pistola in un altro punto deve sparare. E questo fa Michieletto: usa le sedie
non come elemento scenico, come decorazione di un interno, ma come elemento
della narrazione, come strumento drammaturgico. Tutto è teatro, anche la scena,
anche il soprammobile, la decorazione. E, naturalmente, anche le voci. Anche il
coro, disposto ai fianchi della scena, fino a invadere la platea. L’azione dell’oratorio,
si fa azione mimica sulla scena, composizione astratta degli oggetti scenici,
il cui movimento concorre a disegnare l’azione, parallelamente al canto, al
suono degli strumenti. L’unità dello spettacolo, della sua concezione, è
mirabile. Vi contribuiscono, splendidamente, le scene disegnate da Paolo
Fantin, i costumi – quasi sciatti, dimessi, bellissimi – di Carla Teti, e le luci,
perfette, di Alessandro Carletti. Sobri, efficacissimi, i movimenti
coreografici di Chiara Vecchi, indispensabili i video di Carmen Zimmermann e
Roland Horvath, imprescindibile la regia del suono e del live electronics di
Davide Tiso. Bravissimi tutti gli interpreti vocali, citati sopra nella
locandina: Fortunato, Andrea Mastroni; Ernesto, Mirko Guadagnini; Lilli, Giulia
Bolcato; Leda, Silvia Regazzo; Nane,
Vincenzo Nizzardo: Luciano, William Corrò; Cester, maresciallo, Marcello
Nardis. Come sempre lucidissima, penetrante la lettura musicale e la
concertazione di Marco Angius, uno degli interpreti più attenti e accattivanti
della musica di oggi, e non solo (provate ad ascoltare il suo Beethoven), ottima
la prestazione dell’Orchestra e del Coro del Teatro La Fenice, preparato da
Claudio Marino Moretti. E infine.
sorpresa! il pubblico capisce, applaude, decreta un trionfo. Doppia vittoria
per il teatro: inaugurare con un’opera nuova e ottenere un successo, ma additare
anche agli altri teatri la via da percorrere. Perché tutta questa paura
dell’oggi? Basta fare le cose come si deve, e vedete, il pubblico non diserta
la platea, ma anzi accorre e decreta un successo.
Fiano
Romano, 21 novembre 2016
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