mercoledì 1 agosto 2018

Angela Di Maso, Teatro



Angela Di Maso, Teatro, prefazione di Pupi Avati, introduzione di Enzo Moscato, Napoli, Guida editori, 2017, pagg.244, € 18,00

La riflessione sul teatro è vissuta a lungo in Italia sull’equivoco di considerare teatro soprattutto la sua elaborazione letteraria. Goldoni, Alfieri, lo stesso Pirandello sono studiati sul testo. Raramente si tiene presente, invece, la loro novità ed efficacia drammaturgica. Anche la gloriosa Storia del Teatro Drammatico di Silvio d’Amico (Milano, Garzanti, 1970, ma la prima edizione è del 1939) è una storia dei testi. Suppliscono, ma solo in parte, l’Enciclopedia dello Spettacolo, curata sempre da Silvio D’Amico, dal 1954 al 1957i, e l’ottima collana della Laterza, Storia del Teatro e dello Spettacolo, affidata a vari autori. Ma il teatro non è pienamente realizzato dal testo così come la musica non lo è dalla partitura. Il teatro vive nella rappresentazione, la musica nell’esecuzione, fossero pure rappresentazioni ed esecuzioni mentali di chi legge. Ciò non significa sottovalutare il valore letterario dei testi di un Sofocle, di uno Shakespeare, di un Racine o Lope de Vega. Significa, più realisticamente, che quel valore letterario è al servizio di una rappresentazione, di un’esecuzione. La bellezza, anche poetica, sovrana, del famosissimo monologo di Amleto, non si comprende appieno, non se ne coglie appieno proprio la poesia, se lo s’immagina fuori dal contesto, isolato dalla vicenda drammatica, e senza il corpo della voce di un attore. Ma accade lo stesso anche per il teatro iperletterario di Alfieri, che però resta innanzi tutto teatro, e le volte che lo si mette in scena dimostra una sapienza drammaturgica scaltrita. Non a caso nei “pareri” che pubblica in calce alle proprie tragedie, Alfieri si sofferma soprattutto sulla costruzione drammaturgica dell’azione e quasi mai sull’eloquio poetico dei personaggi, salvo quando vuole mettere in rilievo che l’asprezza del linguaggio corrisponde all’asprezza del dramma rappresentato. Su questo equivoco letterario cascano anche coloro che pensano che il dramma wagneriano sia il libretto e la musica la realizzazione di quel dramma. Niente di più sbagliato: il dramma, per Wagner, è la rappresentazione, e testo, musica, scene, coreografie (recitazione) vi contribuiscono in pari modo. Solo negli ultimi anni comincia a pensare che la musica abbia una prevalenza sul resto, ma sempre in previsione della rappresentazione. Allora, però, stava già lavorando al Parsifal, e il suo teatro, da rappresentazione del “puro umano” tende a diventare liturgia dell’esistere, sacra rappresentazione del male che affligge il mondo e del modo con cui esserne redenti.

Questa lunga premessa per chiarire l’ambiguità in cui si trova chi debba giudicare il teatro di un drammaturgo dalla sola lettura dei suoi testi. Com’è il caso di questo Teatro di Angela Di Maso, pubblicato da Guida. Sono dieci pezzi. Cinque atti unici, due monologhi e tre corti.
A una prima lettura, ciò che immediatamente colpisce è l’uso scenico del linguaggio . Sono mimate anche locuzioni correnti, è registrato l’abuso di stereotipi concettuali e linguistici (per esempio “problematiche” al posto di “problemi”), ci si scontra talora con frasi solo in apparenza inutilmente contorte o prolisse, ma che bene definiscono lo spessore del personaggio. Bisognerà controllarne l’efficacia sulla scena. Il fastidio che se ne possa sentire leggendo nasce da un’idea letteraria del testo teatrale, come s’è detto sopra. Da quest’idea sono state mosse le critiche alla lingua, per esempio, di Pirandello. E prima ancora, di Goldoni. Ma sia Goldoni, sia Pirandello, portano sulla scena la lingua che realmente parlavano gli italiani colti del momento, non una lingua letteraria centellinata dagli accademici della Crusca. E lo stesso fa Angela D Maso. Anzi, raramente i suoi personaggi appartengono alla classe colta. Sono piccoli borghesi e spesso anzi proletari o sottoproletari quasi analfabeti. In un corto, L’alluce, è usata la parlata napoletana. Straordinaria! Ci troviamo tra costruttori di bare. Di Maso dovrebbe confrontarsi più spesso con questa lingua, e scrivo lingua e non dialetto, perché il napoletano, come il veneziano o il milanese, è una lingua che ha alle spalle secoli di tradizione letteraria.

L’altro aspetto che colpisce, di questo teatro, è non solo la sua violenza verbale, ma la violenza reale dei fatti o rappresentati o narrati dai personaggi, l’ossessione del sesso, la frequenza degli abusi, dell’incesto, non come atti che destino orrore, bensì come quotidiana realtà della vita. Immagino che molti si opporranno a questa rappresentazione così esasperata della violenza sessuale nelle famiglie, nei conventi, nei luoghi di lavoro. L’obiezione sarà: Ma via! Non è così diffusa come sembra, è un’idea malata dell’autrice, la società italiana è migliore di queste spaventevoli rappresentazioni di stupri, omicidi e incesti. Omnia muda mundis, direbbe Fra’ Cristoforo. Uno dei peggiori difetti della società italiana è proprio il suo rifiuto di guardarsi, analizzarsi, rappresentarsi. E’ un difetto antico. L’italiano non ama confrontarsi con l’orrore. Ama la misura, l’armonia, la concordia. Nei momenti più alti l’arte italiana ha regalato capolavori inimitabili di questo bisogno di armonia, di bellezza. Sono pochi gli artisti che guardano il male, il brutto, l’orrore, come fanno l’arte tedesca, fiamminga, spagnola (Saturno che divora i suoi figli, di Goya, è un dipinto che un pittore italiano non riuscirebbe mai a immaginare). Naturalmente esistono le eccezioni: Michelangelo, Caravaggio, l’ultimo Tiziano (lo scuoiamento di Marsia!). Ma appunto, sono eccezioni, La regola è Raffaello. Anche nell’immaginario mondiale l’arte italiana è Raffaello (ultimamente c’è in atto una rivisitazione di Caravaggio, e ho paura che finiranno per distruggere la sua carica dirompente, per inquadralo, anche lui, nella regola della “bellezza”). Ecco, Angela di Maso ha scelto, invece, di guardarlo in faccia l’orrore della odierna società italiana e di portarlo sulla scena. Non è compiacimento, ma volontà di superarlo, di uscirne. Con una profonda pietà per questi stupratori, assassini, padri incestuosi e madri che assistono senza ribellarsi al crimine perpetrato sui figli figli da mariti padroni e violenti. Il crimine nasce da una sofferenza che non ha altro sbocco, appunto, che il crimine. E non ci s’immagini che ciò accada solo nelle fasce disagiate della popolazione. L’incesto, nelle famiglie italiane, è più diffuso di quanto si creda. Anche nella borghesia. Anche, e forse soprattutto, nell’alta borghesia. Mia madre era assistente sociale e aveva dovuto affrontare più di un caso. E diceva che dei poveri, degli emarginati si sa, viene alla luce, perché non hanno né denaro né potere per metterlo a tacere. Uno dei film meno riusciti di Visconti toccava proprio questo tema, Vaghe stelle dell’Orsa. Probabilmente il film non è pienamente centrato proprio perché il regista se ne sentì eccessivamente coinvolto. Non per qualcosa di simile che avesse compiuto, ma per il tema stesso, che ancora oggi, solo a nominarlo, fa paura.

I dieci pezzi teatrali si leggono d’un fiato e viene voglia di vederli rappresentati. Un solo rilievo – che oggi, vista la sua diffusione anche nelle pubblicazioni di Case Editrici più rinomate, non desta troppo stupore – ed è questo: la stampa soffre di moltissimi, veramente troppi, più del sopportabile, refusi. Inoltre, qualche volta, i segni d’interpunzione sembrano casuali, e non credo che se debba incolpare l’autrice.
Infine, non si capisce perché i titoli dei brani musicali siano in genere scritti in inglese, anche Vivaldi, anche Bach. Sembrano i track di un cd.

Due importanti figure dello spettacolo rendono omaggio alla pubblicazione di questi pezzi teatrali, Pupi Avati con una prefazione, e Enzo Moscato con una introduzione. Da condividere tutto ciò che scrivono. Soprattutto la bellissima citazione da Alberto Savinio: “Il teatro deve ridarci in parole e gesti la spaventosa ricostruzione di noi stessi. Esso deve rappresentare la nostra coscienza parlante. Difficilissima da sopportare”. La catarsi di cui parla Aristotele è proprio questa: riconoscere nella rappresentazione il male di cui noi stessi siamo responsabili.

Non ultimo vanto di questi testi è che già la sola lettura fa immaginare la rappresentazione. Che ci si augura diffusa e frequente.

Ad Angela Di Maso verrà conferito, il prossimo 30 agosto, a Sirolo, nelle Marche, il Premio Nazionale Franco Enriquez 2018.

Fiano Romano, 1 agosto 2018

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