Angela
Di Maso, Teatro, prefazione di Pupi Avati, introduzione di Enzo
Moscato, Napoli, Guida editori, 2017, pagg.244, € 18,00
La
riflessione sul teatro è vissuta a lungo in Italia sull’equivoco
di considerare teatro soprattutto la sua elaborazione letteraria.
Goldoni, Alfieri, lo stesso Pirandello sono studiati sul testo.
Raramente si tiene presente, invece, la loro novità ed efficacia
drammaturgica. Anche la gloriosa Storia del Teatro
Drammatico di Silvio d’Amico (Milano, Garzanti, 1970, ma
la prima edizione è del 1939) è una storia dei testi. Suppliscono,
ma solo in parte, l’Enciclopedia dello Spettacolo, curata
sempre da Silvio D’Amico, dal 1954 al 1957i, e l’ottima collana
della Laterza, Storia del Teatro e dello Spettacolo, affidata
a vari autori. Ma il teatro non è pienamente realizzato dal testo
così come la musica non lo è dalla partitura. Il teatro vive nella
rappresentazione, la musica nell’esecuzione, fossero pure
rappresentazioni ed esecuzioni mentali di chi legge. Ciò non
significa sottovalutare il valore letterario dei testi di un Sofocle,
di uno Shakespeare, di un Racine o Lope de Vega. Significa, più
realisticamente, che quel valore letterario è al servizio di una
rappresentazione, di un’esecuzione. La bellezza, anche poetica,
sovrana, del famosissimo monologo di Amleto, non si comprende
appieno, non se ne coglie appieno proprio la poesia, se lo
s’immagina fuori dal contesto, isolato dalla vicenda drammatica, e
senza il corpo della voce di un attore. Ma accade lo stesso anche per
il teatro iperletterario di Alfieri, che però resta innanzi tutto
teatro, e le volte che lo si mette in scena dimostra una sapienza
drammaturgica scaltrita. Non a caso nei “pareri” che pubblica in
calce alle proprie tragedie, Alfieri si sofferma soprattutto sulla
costruzione drammaturgica dell’azione e quasi mai sull’eloquio
poetico dei personaggi, salvo quando vuole mettere in rilievo che
l’asprezza del linguaggio corrisponde all’asprezza del dramma
rappresentato. Su questo equivoco letterario cascano anche coloro che
pensano che il dramma wagneriano sia il libretto e la musica la
realizzazione di quel dramma. Niente di più sbagliato: il dramma,
per Wagner, è la rappresentazione, e testo, musica, scene,
coreografie (recitazione) vi contribuiscono in pari modo. Solo negli
ultimi anni comincia a pensare che la musica abbia una prevalenza sul
resto, ma sempre in previsione della rappresentazione. Allora, però,
stava già lavorando al Parsifal, e il suo teatro, da
rappresentazione del “puro umano” tende a diventare liturgia
dell’esistere, sacra rappresentazione del male che affligge il
mondo e del modo con cui esserne redenti.
Questa
lunga premessa per chiarire l’ambiguità in cui si trova chi debba
giudicare il teatro di un drammaturgo dalla sola lettura dei suoi
testi. Com’è il caso di questo Teatro di Angela Di Maso,
pubblicato da Guida. Sono dieci pezzi. Cinque atti unici, due
monologhi e tre corti.
A
una prima lettura, ciò che immediatamente colpisce è l’uso
scenico del linguaggio . Sono mimate anche locuzioni correnti, è
registrato l’abuso di stereotipi concettuali e linguistici (per
esempio “problematiche” al posto di “problemi”), ci si
scontra talora con frasi solo in apparenza inutilmente contorte o
prolisse, ma che bene definiscono lo spessore del personaggio.
Bisognerà controllarne l’efficacia sulla scena. Il fastidio che se
ne possa sentire leggendo nasce da un’idea letteraria del testo
teatrale, come s’è detto sopra. Da quest’idea sono state mosse
le critiche alla lingua, per esempio, di Pirandello. E prima ancora,
di Goldoni. Ma sia Goldoni, sia Pirandello, portano sulla scena la
lingua che realmente parlavano gli italiani colti del momento, non
una lingua letteraria centellinata dagli accademici della Crusca. E
lo stesso fa Angela D Maso. Anzi, raramente i suoi personaggi
appartengono alla classe colta. Sono piccoli borghesi e spesso anzi
proletari o sottoproletari quasi analfabeti. In un corto, L’alluce,
è usata la parlata napoletana. Straordinaria! Ci troviamo tra
costruttori di bare. Di Maso dovrebbe confrontarsi più spesso con
questa lingua, e scrivo lingua e non dialetto, perché il napoletano,
come il veneziano o il milanese, è una lingua che ha alle spalle
secoli di tradizione letteraria.
L’altro
aspetto che colpisce, di questo teatro, è non solo la sua violenza
verbale, ma la violenza reale dei fatti o rappresentati o narrati dai
personaggi, l’ossessione del sesso, la frequenza degli abusi,
dell’incesto, non come atti che destino orrore, bensì come
quotidiana realtà della vita. Immagino che molti si opporranno a
questa rappresentazione così esasperata della violenza sessuale
nelle famiglie, nei conventi, nei luoghi di lavoro. L’obiezione
sarà: Ma via! Non è così diffusa come sembra, è un’idea malata
dell’autrice, la società italiana è migliore di queste
spaventevoli rappresentazioni di stupri, omicidi e incesti. Omnia
muda mundis, direbbe Fra’ Cristoforo. Uno dei peggiori difetti
della società italiana è proprio il suo rifiuto di guardarsi,
analizzarsi, rappresentarsi. E’ un difetto antico. L’italiano non
ama confrontarsi con l’orrore. Ama la misura, l’armonia, la
concordia. Nei momenti più alti l’arte italiana ha regalato
capolavori inimitabili di questo bisogno di armonia, di bellezza.
Sono pochi gli artisti che guardano il male, il brutto, l’orrore,
come fanno l’arte tedesca, fiamminga, spagnola (Saturno che divora
i suoi figli, di Goya, è un dipinto che un pittore italiano non
riuscirebbe mai a immaginare). Naturalmente esistono le eccezioni:
Michelangelo, Caravaggio, l’ultimo Tiziano (lo scuoiamento di
Marsia!). Ma appunto, sono eccezioni, La regola è Raffaello. Anche
nell’immaginario mondiale l’arte italiana è Raffaello
(ultimamente c’è in atto una rivisitazione di Caravaggio, e ho
paura che finiranno per distruggere la sua carica dirompente, per
inquadralo, anche lui, nella regola della “bellezza”). Ecco,
Angela di Maso ha scelto, invece, di guardarlo in faccia l’orrore
della odierna società italiana e di portarlo sulla scena. Non è
compiacimento, ma volontà di superarlo, di uscirne. Con una profonda
pietà per questi stupratori, assassini, padri incestuosi e madri che
assistono senza ribellarsi al crimine perpetrato sui figli figli da
mariti padroni e violenti. Il crimine nasce da una sofferenza che non
ha altro sbocco, appunto, che il crimine. E non ci s’immagini che
ciò accada solo nelle fasce disagiate della popolazione. L’incesto,
nelle famiglie italiane, è più diffuso di quanto si creda. Anche
nella borghesia. Anche, e forse soprattutto, nell’alta borghesia.
Mia madre era assistente sociale e aveva dovuto affrontare più di un
caso. E diceva che dei poveri, degli emarginati si sa, viene alla
luce, perché non hanno né denaro né potere per metterlo a tacere.
Uno dei film meno riusciti di Visconti toccava proprio questo tema,
Vaghe stelle dell’Orsa. Probabilmente il film non è pienamente
centrato proprio perché il regista se ne sentì eccessivamente
coinvolto. Non per qualcosa di simile che avesse compiuto, ma per il
tema stesso, che ancora oggi, solo a nominarlo, fa paura.
I
dieci pezzi teatrali si leggono d’un fiato e viene voglia di
vederli rappresentati. Un solo rilievo – che oggi, vista la sua
diffusione anche nelle pubblicazioni di Case Editrici più rinomate,
non desta troppo stupore – ed è questo: la stampa soffre di
moltissimi, veramente troppi, più del sopportabile, refusi.
Inoltre, qualche volta, i segni d’interpunzione sembrano casuali, e
non credo che se debba incolpare l’autrice.
Infine,
non si capisce perché i titoli dei brani musicali siano in genere
scritti in inglese, anche Vivaldi, anche Bach. Sembrano i track di un
cd.
Due
importanti figure dello spettacolo rendono omaggio alla pubblicazione
di questi pezzi teatrali, Pupi Avati con una prefazione, e Enzo
Moscato con una introduzione. Da condividere tutto ciò che scrivono.
Soprattutto la bellissima citazione da Alberto Savinio: “Il teatro
deve ridarci in parole e gesti la spaventosa ricostruzione di noi
stessi. Esso deve rappresentare la nostra coscienza parlante.
Difficilissima da sopportare”. La catarsi di cui parla Aristotele è
proprio questa: riconoscere nella rappresentazione il male di cui noi
stessi siamo responsabili.
Non
ultimo vanto di questi testi è che già la sola lettura fa
immaginare la rappresentazione. Che ci si augura diffusa e frequente.
Ad
Angela Di Maso verrà conferito, il prossimo 30 agosto, a Sirolo,
nelle Marche, il Premio Nazionale Franco Enriquez 2018.
Fiano
Romano, 1 agosto 2018
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