lunedì 18 febbraio 2019

Due nuove incisioni di musica del Novecento: una riflessione su un secolo di musica




Ventanas
A Glimpse of Another Spain
Works by Antonio Ruiz-Pipó, Federico Mompou and Manuel De Falla
Ali Hirèche, Piano

GENUIN classics GEN 18606
1 cd

MICHELE MARELLI
CLARINET RELOADED
San Diego New Music EnsembleSimone Mancuso, conductor (van der Aa)
Orchestra Sinfonica del Maggio Musicale Fiorentino, Brad Lubman, conductor (Lachenmann)
(Musiche di Ivan Fedele, Giacinto Scelsi, Karlheinz Stockhausen, Michel van der Aa, Helmut Lachenmann)

Decca 481 7271
1 cd

Due cd assai indicativi in maniera diversa ci offrono lo spunto per una riflessione sulla musica cosiddetta contemporanea – in realtà, per esempio, Scelsi e Stockhausen appartengono a una fase musicale che si avvia a farsi memoria di un secolo trascorso e compiuto: sarebbe, infatti, come se un Mozart, un Beethoven continuassero a chiamare contemporanea la musica di Johann Sebastian Bach (che poi Bach li stimolasse, che sentissero la sua musica come attualissima, è un altro discorso).

Il primo è Ventanas, interpretato dal pianista Ali Hirèche, ed è dedicato a musiche pianistiche spagnole del Novecemto. Le note del libretto allegato al cd hanno per titolo: “The Other Spain. In Memory of Antonio Ruiz-Pipó”. Le ha scritte Tilmann Böttcher. Il titolo suona meglio nella traduzione spagnola: “La otra España. En memoria de Antonio Ruiz-Pipó”. L’altra Spagna. In memoria di Antonio Ruiz-Pipó. L’ “altro” al che si fa menzione è una Spagna per lo più ignota a chi, anche per la musica, si accontenta delle cartoline turistiche. Ma soprattutto è l’altro dal folklore, anzi dal “popolare”, checché s’intenda con questo attributo.

Nel 1979 Armando Gentilucci, un compositore di cui non si piangerà mai abbastanza la prematura scomparsa, a soli cinquant’anni, nel 1989, pubblicò un denso saggio sulla musica contemporanea dal titolo assai appropriato di “Oltre l’avanguardia. Un invito al molteplice” (Fiesole, discanto). Era una presa di posizione necessaria, allora, e forse oggi ancora di più, in un paese come l’Italia, perennemente malato di ideologie e di dogmatismi, contro le opposte chiusure all’ “altro” sia delle avanguardie, o meglio postavanguardie, sia di coloro che se ne dichiaravano, e ancora se ne dichiarano, con un sospiro di sollievo, liberati, ma invece di affrontare pertanto una prospettiva di assoluta libertà di ricerca, proponevano e anzi imponevano, e impongono ancora, una concezione ristretta del comporre, ossessionati come sono dall’inseguimento di un consenso dell’ascolto, a loro avviso ottenibile solo dalla riconoscibilità dell’oggetto musicale. Come se il valore di una musica sia proporzionale al suo gradimento. Parole buttate al vento, quelle assai sagge di Gentilucci. In Italia sembra perpetuamente vano l’appello alla molteplicità rispetto alla rigidezza e, diciamolo pure, all’ottusità, di opposti schieramenti di opinione, quando non addirittura semplicemente di contrastanti barriere ideologiche. Ma non è musica, si grida da una parte. Assurdo continuare a scrivere così, non si fa più, si sbraita dall’altra. Le cose, al solito, non stanno affatto disposte in maniera così semplice, la musica, anzi, e non solo la musica, resiste a qualunque inquadramento che nasca da un’impostazione semplificata d’ogni visione della realtà. Ma è proprio questa riduzione al semplice, da entrambe le parti, che finisce per disconoscere poi la realtà di un mondo musicale oggi assai vario, complesso, articolato, e interattivo assai più di quanto si crede. Aveva ragione e ragione da vendere, già quarant’anni fa, Gentilucci. E se si va ancora più indietro, tutto ciò era stato intuito con chiarezza da Alban Berg, quando adotta un sistema di composizione complesso al punto da potere includere vari sistemi, senza limitarsi pertanto all’osservanza di uno solo. Il che gli fu rimproverato all’inizio come cedimento (anche e soprattutto da Boulez, negli anni ‘40, ma si ricredette subito) e che invece indicava la via d’uscita da qualunque fossilizzazione dell’avanguardia: lo sperimentalismo cessa infatti di essere tale quando smette di sperimentare campi nuovi d’indagine. Così come la ripetizione di sistemi consolidati dalla tradizione non conduce a nessuno sbocco se non si ripensa e si reinventa da capo il sistema: Bartók, Britten, Šostakovič, Poulenc potrebbero, o dovrebbero, insegnarci al riguardo qualcosa.

Ma che cosa sfugge all’uno come all’altro schieramento? Evidente: che il complesso non può essere scavalcato, ridotto al semplice, va affrontato così com’è, complesso, e dunque con un’impostazione di pensiero complessa. Ogni semplificazione che sembri una scorciatoia è fuorviante, conduce fuori strada, non affronta il problema, perché ne elude appunto la complessità. La ragione, questa sì, è semplice: l’atto della scrittura, e dunque anche l’atto del comporre, non importa se attraverso la scrittura o con l’improvvisazione, non è mai la riproduzione fedele, esatta, di ciò che vuole proporre, ma sempre, all’atto di porsi, offre un altro livello, attua una mediazione. Anche la pura e semplice trascrizione di un canto popolare non è mai il canto popolare stesso. Trascritto con quale criterio, realizzato con quali mezzi? Si pensi solo all’intonazione “imprecisa” di alcune tradizioni popolari. Come la trascrivo? Come la suono o come la canto? La musica di tradizione orale questo aspetto dell’interpretazione lo conosce benissimo. Sa che ogni esecuzione è una reinvenzione della musica, una nuova, unica, irripetibile proposta. Gli etnomusicologi sanno che è impossibile datare un canto popolare, che la sua datazione è quella della sua registrazione. Il compositore “colto” sa a sua volta che la riscrittura di una melodia popolare, anzi di qualunque melodia, non è mai la melodia stessa, ma sempre una sua reinvenzione, una sua rielaborazione. Bartók i temi popolari in genere li inventa, ma anche quando li assume tra quelli raccolti dalla sua ricerca, li sottopone poi a un’elaborazione non diversa da quella alla quale Beethoven (il suo compositore di riferimento) sottopone i propri temi.

Perché questo forse troppo lungo excursus? Per chiarire che ogni musica della tradizione che chiamiamo “colta” è sempre anche una riflessione sulla musica, una riconsiderazione di che cosa sia comporre una musica. In realtà ogni opera d’arte è questo. Ogni attività artistica è, nell’atto di realizzare un’opera, una riflessione anche su come un’opera si realizza. Il canone di Policleto esplicita questa condizione ch’è intrinseca di ogni fare artistico. Dante nel “De vulgari eloquentia” fa un’osservazione sconcertante per quanto ci risulta oggi preveggente, moderna. Dice che una lingua letteraria – lui la chiama “illustre” - non è mai la lingua parlata, nemmeno quando riproduce vocaboli ed espressioni della lingua parlata. E’ una lingua artificiale, costruita, inventata, che non corrisponde a nessuna lingua di quelle che si parlano. La Commedia, ma ancora prima le Rime, la Vita Nuova, sono realizzazioni diverse di questa lingua artificiale. L’estrema, e più radicale, realizzazione di questa lingua è il Finnegans Wake di Joyce, opera assai meno lontana dalla concezione della Commedia dantesca di quanto si potrebbe immaginare. Del resto non è strano, per uno scrittore che tra i suoi modelli collocava proprio Omero e Dante. E già che si è citato Omero, questo aspetto dell’elaborazione letteraria, del fatto che l’elaborazione letteraria non è la vita, era chiarissimo ai poeti e scrittori greci, tant’è vero che ogni genere aveva la sua lingua. Perfino all’interno di una stessa opera. Nella tragedia i personaggi parlano in attico, il coro in dorico, perché l’attico è la lingua della poesia didascalica, e dunque di conversazione, il dorico la lingua della poesia lirica corale (quella monodica aveva usato l’eolico, sia pure per un periodo limitato). Oggi sembra che noi “post-moderni” abbiamo perduto la visione di una simile articolata complessità, che, come si vede, non appartiene solo ai moderni, ma già ai classici: per restringerci alla nostra letteratura, avete mai riflettuto a quante lingue diverse usano i tre sommi del Trecento, Dante, Petrarca e Boccaccio?

La digressione torna utile, adesso, per individuare due punti, riguardo ai due cd dai quali si è partiti. Il primo riguarda la consapevolezza dei compositori di scrivere qualcosa di “nuovo”. Il secondo sta nell’individuare in che cosa poi consista questo “nuovo”. Ebbene, nessun dubbio che la consapevolezza di scrivere qualcosa di nuovo esista in tutti i compositori le cui musiche sono interpretate nei due cd, uno dedicato alla musica spagnola, l’altro alle avanguardie del Novecento. Anzi, di talmente nuovo, che se non fosse tale, non meriterebbe di essere scritto. E questo nuovo è il modo di trattare il suono. Questo distingue i compositori dell’ultimo secolo dai compositori dei secoli che li hanno preceduti. E cominciamo dalla Spagna. Manuel de Falla scrive la Fantasia Baetica nel 1919. C’è già l’impostazione che lo distingue dai compositori che usano il folklore spagnolo come colore caratteristico. L’assunzione delle melodie popolari assomiglia di più all’elaborazione bartokiana del folklore, che all’uso più personale di altri compositori, anche spagnoli. Falla non ha dunque niente in comune con le cosiddette scuole nazionali, ma accoglie la melodia popolare, e soprattutto i suoi ritmi, come materiale da studiare in un laboratorio, quasi un esempio didascalico, un microbo in provetta, il tema popolare non costituisce mai un pretesto per arricchire la propria tavolozza timbrica o l’invenzione melodica o la scansione ritmica della propria musica. L’effetto è dirompente. E’ come se Falla esponesse non una propria invenzione, ma solo reperti archeologici. L’emozione soggettiva del compositore sembra non farvi parte. In realtà è intensissima: proprio perché vuole, o s’illude, di affondare nelle matrici della musica della sua gente. Albéniz, Granados possono risultare più accattivanti, più raffinati, più seducenti. Falla non pulisce la rozzezza delle fonti, non attutisce la violenza, quasi selvaggia, del grido, dell’ossessione ritmica. Nemmeno nella più impressionistica delle sue partiture, Noches en los jardines de España. Ali Hirèche pone dunque giustamente in apertura del suo viaggio spagnolo proprio la Fantasia baetica, è questa l’ “altra” Spagna. Quella che non si maschera di parigina, di europea, di aggiornata. Quella che denuda le proprie radici, la loro nodosa ruvidezza. Il che non significa rifiuto della dolcezza, della tenerezza. Anzi: proprio in contrasto con questa ruvidezza la tenerezza si fa più struggente, più scoperta. Sconvolgente come il catalano Federico Mompou poi disegni i propri schizzi con uguale essenzialità, con la stessa nuda e aforistica semplicità. Antonio Ruiz-Pipó, che di Hirèche è stato il maestro, continua a procedere sulla stessa via. Una reinvenzione personale della materia sonora del proprio paese. Niente folklore, nessuna cartolina: ma quasi uno scendere alle madri, come Faust, all’inconscio collettivo da cui nasce l’individualità che lo evoca.

Il disco registrato da Michele Marelli sembrerebbe condurci in tutt’altro mondo. Anche perché passiamo nel dominio delle avanguardie del secondo Novecento. E’ una panoramica affascinante della musica che si suole attribuire a queste avanguardie. Ma se si supera la distanza, in fondo illusoria, che passa tra l’armonia che appare ancora tradizionalmente tonale nei compositori spagnoli suonati da Hirèche, e lo scardinamento che invece di tale organizzazione armonica attuano i compositori interpretati da Marelli (nell’ordine del cd: Ivan Fedele, Giacinto Scelsi, Karlheinz Stockhausen, Michel van de Aa, Helmut Lachenmann), si riconoscerà per tutti, spagnoli e avanguardisti, nell’analisi del suono, nella sperimentazione della materialità stessa del suono, il legame che fa di queste musiche, di tutte queste musiche, musiche tipiche del Novecento. Certo, in più, soprattutto nelle avanguardie, c’è l’evidenza dell’atto intellettuale, del pensiero che dà una forma inconfondibile alla materia sonora. Ma, se ci si riflette più profondamente, riscontriamo che lo stesso accade anche in un’installazione d’arte visiva se confrontata a un quadro o a una scultura. Ciò che distingue l’arte del Novecento e, ancora oggi, quella dei primi due decenni del Duemila, è infatti il prevalere del pensiero sulla sua realizzazione o meglio, anzi, è il pensiero stesso che già si presenta come realizzazione. Ma solo perché in taluni artisti, quelli appunto connotati come artisti d’avanguardia, tale prevalenza si fa più manifesta. L’apparente facilità, l’immediata e gradita comprensibilità, di un Philip Glass o di un Arvo Pärt, non è invece meno intellettualistica, meno pensata, calcolata, di quella che innerva un Klavierstück di Stockhausen. La novità del moderno, di ciò che si suole chiamare moderno, sta tutta qui: che alla sua comprensione, e dunque al poterne godere, non basta più la sola percezione, l’immediata – e apparente – comprensione di ciò che si ascolta. L’ascoltatore deve compiere uno sforzo in più: entrare nel pensiero che ha prodotto l’opera, cogliere l’intuizione che l’ha generata, seguire passo passo il procedimento intellettuale che le dà corpo. E perché allora, obietterà qualcuno, questo non accade, invece, con la musica di Mozart? O di Chopin? Rispondo: ma ne siamo sicuri? Perché a questo punto è un’altra la domanda che sorge spontanea: siamo sicuri, infatti, che con l’arte del passato non abbiamo bisogno di riflettere sul pensiero che l’ha generata? Siamo convinti che l’opera ci parli da sé stessa, senza bisogno di mediazioni intellettuali? Che l’arte, e soprattutto la musica, del passato, cioè, ci appaia immediatamente comprensibile e quella dell’ultimo secolo, no, ci respinga, ci appaia del tutto incomprensibile, ci si configuri anzi come la negazione di ciò che intendiamo per arte?

Ma non sarà che proprio su questo dobbiamo invece interrogarci, e cioè su che cosa sia per noi arte? Siamo sicuri che il puro e ingenuo ascolto di un quartetto di Beethoven ce ne faccia cogliere l’intenzione profonda? Che mi basta seguire le parole di un madrigale monteverdiano per penetrare nel mondo musicale – complessissimo, intellettualissimo! – di Monteverdi? O che sia sufficiente abbandonarmi alla seduzione di una melodia per catturare il segreto di un notturno di Chopin? Non sarà che il possesso, o l’illusione del possesso, dei meccanismi musicali che hanno dato vita a quelle musiche – in altri termini il fatto che il loro linguaggio mi sia noto e familiare o, più verosimilmente, ch’io pensi di poterlo ritenere noto e familiare - m’illuda poi di riuscire a conoscerle, perché ne riconosco, o credo di riconoscere, il procedimento che le costruisce? Non dimentichiamo che il pubblico che applaudiva, entusiasta, la Nona di Beethoven, o quello che a Parigi andava in estasi per le rare esibizioni pubbliche di Chopin, era un pubblico aristocratico e altoborghese, che chi ascoltava conosceva assai bene la ”tecnica” con cui Beethoven e Chopin avevano composta quella musica sublime, e quasi tutti sapevano anche suonare uno strumento, qualcuno sapeva addirittura comporre. Già un po’ meno all’epoca di Chopin, è vero, ma sempre comunque tutti erano eruditi su ciò che ascoltavano. Il pubblico di oggi, non più. Raro che chi vada oggi ad ascoltare il direttore di fama, il pianista di grido, conosca come si compone una sinfonia, come si scrive una sonata. Ma proprio per questo, invece d’inalberarsi e di rifiutare ciò che non capisce, dovrebbe fare lo sforzo di conoscere ciò che gli viene proposto. E solo dopo quest’atto di umiltà, prima ancora che di conoscenza, a costui gli si potrà riconoscere il diritto di rifiutare ciò che non gli garba. Perché allora egli non rifiuterà qualcosa, di cui non conosce nemmeno com’è fatta, ma con consapevolezza rifiuterà qualcosa che ha conosciuto, e quello che ha conosciuto non è stato di suo gradimento. Si ascolti con attenzione quanto accade nei sei brani di Stockhausen per clarinetto basso e feedback elettronico, “Solo” Version V. Nelle note allegate al cd Sandro Cappelletto lo spiega bene che cosa si ascolta. “L’opera è composta da sei pannelli, chiamati cicli, ognuno indicato da una lettera: A, B, C, D, E, F. L’interprete ha davanti a sé sei pagine che rappresentano il “contenuto” dell’opera, sceglie l’ordine di organizzazione del materiale annotato e lo suona dentro una coppia di microfoni, gli assistenti, in tempo reale, selezionano e fanno ‘risuonare’ uno o ambedue i canali dove il suono appena emesso è stato registrato, scelgono il tempo di ritardo della risposta (feedback) e il livello dell’emissione del suono dagli altoparlanti. Ogni esecuzione, pur rispettando tali parametri, sarà diversa ...” Appunto: non si può realizzare più precisamente l’individualità d’ogni esecuzione. Ciò che in realtà avviene per ogni interpretazione ed esecuzione di qualsiasi musica. Una sonata di Beethoven non è mai la stessa se suonata da pianisti diversi, anzi nemmeno se suonata dallo stesso pianista in momenti diversi. Solo l’incisione discografica ha la caratteristica di fissare un’unica esecuzione, sempre la stessa per ogni ripetizione d’ascolto. Stockhausen mette in risalto proprio questo aspetto dell’esecuzione musicale: che ciascuna esecuzione è un fatto unico, irripetibile. La tecnologia però permette di registrare quell’unicità e di ripeterla. Quasi un ossimoro dell’interpretazione, che cessa di essere tale nel momento che può essere ripetuta all’infinito come è stata eseguita la prima volta. In questo modo Stockhausen mette in risalto il conflitto tra libertà dell’interprete e meccanicità della riproduzione tecnologica. E più profondamente quanto vi sia di costrittivo, di casuale, di determinato nell’atto che consideriamo libero. Al solito, s’innesta nell’atto musicale una lunga riflessione filosofica su libertà e costrizione. Dietro il pensiero musicale di Stockhausen, perché di pensiero si tratta, possiamo leggere le riflessioni di Nietzsche sulla morale, e perfino la concezione buddistica della realtà come proiezione mentale e apparenza. Ugualmente significativa appare la musica di Lachenmann, Accanto. Accanto a chi, a che cosa? Al Concerto per clarinetto di Mozart. Un abisso sembra separare i due musicisti. Ma ne siamo sicuri? Il solo accostamento, accanto, appunto, ci suggerisce che la distanza, la differenza, è solo un’illusione. Del resto, già Scelsi, con Ixor, non ci aveva fatto dubitare che addirittura la melodia si confonda con il respiro umano, o più in là con l’abolizione del tempo, proprio perché l’abolizione del tempo abolirebbe anche la melodia, e con la melodia anche il respiro? Consiglio perciò vivamente a tutti, prima di un sì o di un no, di ascoltarsi con attenzione a queste registrazioni di musica del Novecento. Se non altro, per rendere omaggio alla bravura e all’intelligenza degli interpreti. Ma soprattutto, alla loro ostinazione e alla loro onestà intellettuale. Sensibilità, sentimento, emozione nasceranno di conseguenza.

Fiano Romano, 18 febbraio 2018

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