Ventanas
A
Glimpse of Another Spain
Works
by Antonio Ruiz-Pipó,
Federico Mompou and Manuel De Falla
Ali
Hirèche, Piano
GENUIN
classics GEN 18606
1
cd
MICHELE
MARELLI
CLARINET
RELOADED
San
Diego New Music EnsembleSimone Mancuso, conductor (van der Aa)
Orchestra
Sinfonica del Maggio Musicale Fiorentino, Brad Lubman, conductor
(Lachenmann)
(Musiche
di Ivan Fedele, Giacinto Scelsi, Karlheinz Stockhausen, Michel van
der Aa, Helmut Lachenmann)
Decca
481 7271
1
cd
Due
cd assai indicativi
in maniera diversa ci
offrono lo spunto per una
riflessione sulla musica cosiddetta contemporanea – in realtà, per
esempio, Scelsi e Stockhausen appartengono a una fase musicale che si
avvia a farsi memoria di un secolo trascorso e compiuto: sarebbe,
infatti, come se un Mozart, un Beethoven continuassero a chiamare
contemporanea la musica di Johann Sebastian Bach (che poi Bach li
stimolasse, che sentissero la sua musica come attualissima, è un
altro discorso).
Il
primo è Ventanas, interpretato dal pianista Ali Hirèche, ed è
dedicato a musiche pianistiche spagnole del Novecemto. Le
note del libretto allegato al cd hanno per titolo: “The Other
Spain. In Memory of Antonio Ruiz-Pipó”.
Le ha scritte Tilmann Böttcher.
Il titolo suona meglio nella traduzione spagnola: “La otra España.
En memoria de Antonio Ruiz-Pipó”. L’altra
Spagna. In memoria di Antonio Ruiz-Pipó.
L’
“altro” al che si fa menzione è una
Spagna per lo più ignota a chi, anche
per la musica,
si accontenta delle cartoline turistiche. Ma
soprattutto è l’altro dal folklore, anzi dal “popolare”,
checché s’intenda con questo attributo.
Nel
1979 Armando Gentilucci, un compositore di cui non si piangerà mai
abbastanza la prematura scomparsa, a
soli
cinquant’anni, nel 1989,
pubblicò
un denso saggio sulla musica contemporanea dal titolo assai
appropriato di “Oltre l’avanguardia. Un invito al molteplice”
(Fiesole, discanto). Era una presa di posizione necessaria, allora,
e forse oggi ancora di più, in
un paese come l’Italia, perennemente malato di ideologie e di
dogmatismi, contro le opposte chiusure all’ “altro” sia delle
avanguardie, o meglio postavanguardie, sia di coloro che se ne
dichiaravano, e
ancora se ne dichiarano, con
un sospiro di sollievo, liberati, ma invece di affrontare pertanto
una prospettiva di assoluta libertà di ricerca, proponevano e anzi
imponevano, e impongono ancora, una concezione ristretta del
comporre, ossessionati come
sono dall’inseguimento
di un
consenso dell’ascolto, a
loro avviso ottenibile solo
dalla riconoscibilità dell’oggetto musicale. Come
se il valore di una musica sia proporzionale al suo gradimento.
Parole
buttate al vento, quelle
assai sagge di Gentilucci.
In Italia sembra perpetuamente vano l’appello alla molteplicità
rispetto alla rigidezza e, diciamolo pure, all’ottusità,
di opposti schieramenti di opinione, quando non addirittura
semplicemente di
contrastanti barriere
ideologiche.
Ma non è musica, si grida da una parte. Assurdo continuare
a scrivere così, non
si fa più, si
sbraita dall’altra. Le
cose, al solito, non stanno affatto disposte in maniera così
semplice, la
musica, anzi,
e
non solo la musica, resiste a qualunque inquadramento
che
nasca da un’impostazione semplificata
d’ogni
visione della realtà.
Ma è proprio questa riduzione al semplice, da entrambe le parti, che
finisce per disconoscere poi
la realtà di un mondo musicale oggi assai vario, complesso,
articolato, e interattivo assai più di quanto si crede. Aveva
ragione e
ragione da vendere, già quarant’anni fa,
Gentilucci. E se si va ancora più indietro, tutto
ciò era stato intuito
con chiarezza da
Alban
Berg, quando
adotta
un sistema di
composizione
complesso al
punto da potere
includere
vari sistemi, senza
limitarsi pertanto all’osservanza di uno solo. Il che
gli fu rimproverato all’inizio come cedimento (anche e soprattutto
da Boulez, negli
anni ‘40, ma
si ricredette subito) e che invece indicava la via d’uscita da
qualunque fossilizzazione dell’avanguardia: lo sperimentalismo
cessa infatti di essere tale quando smette di sperimentare campi
nuovi d’indagine. Così come la ripetizione di sistemi consolidati
dalla
tradizione
non conduce a nessuno sbocco se non si
ripensa
e si
reinventa da capo il sistema: Bartók, Britten, Šostakovič,
Poulenc
potrebbero, o dovrebbero, insegnarci al
riguardo qualcosa.
Ma
che cosa sfugge all’uno come all’altro schieramento? Evidente:
che il complesso non può essere scavalcato, ridotto
al semplice, va
affrontato così
com’è, complesso,
e dunque
con un’impostazione di pensiero complessa. Ogni semplificazione che
sembri una scorciatoia è fuorviante, conduce fuori strada, non
affronta il problema, perché
ne elude
appunto
la complessità. La ragione, questa sì, è semplice: l’atto della
scrittura, e dunque anche l’atto
del
comporre, non importa se attraverso la scrittura o con
l’improvvisazione, non è mai la riproduzione fedele, esatta, di
ciò che vuole proporre, ma sempre, all’atto di porsi, offre
un
altro livello,
attua
una mediazione. Anche la pura e semplice trascrizione di un canto
popolare non è mai il canto popolare stesso. Trascritto con quale
criterio, realizzato con quali mezzi? Si pensi solo all’intonazione
“imprecisa” di alcune tradizioni popolari.
Come la trascrivo? Come la suono o come
la
canto? La musica di tradizione orale questo aspetto
dell’interpretazione lo conosce benissimo. Sa che ogni esecuzione è
una reinvenzione della musica, una nuova, unica, irripetibile
proposta. Gli etnomusicologi sanno che è impossibile datare un canto
popolare, che la sua datazione è quella della sua registrazione. Il
compositore “colto” sa a
sua volta che
la riscrittura di una melodia popolare, anzi di qualunque melodia,
non è mai la melodia stessa, ma sempre una sua reinvenzione, una sua
rielaborazione. Bartók
i
temi popolari in genere
li inventa, ma
anche quando li assume tra quelli raccolti dalla sua ricerca, li
sottopone poi a un’elaborazione non diversa da quella alla quale
Beethoven (il suo compositore di riferimento) sottopone i propri
temi.
Perché
questo forse troppo lungo excursus? Per chiarire che ogni musica
della tradizione che chiamiamo “colta” è sempre anche una
riflessione sulla musica, una riconsiderazione di che cosa sia
comporre una musica. In realtà ogni opera d’arte è questo. Ogni
attività artistica è, nell’atto di realizzare un’opera, una
riflessione anche su come un’opera si realizza. Il canone di
Policleto esplicita questa condizione ch’è intrinseca di ogni fare
artistico. Dante nel “De vulgari eloquentia” fa un’osservazione
sconcertante per quanto ci risulta oggi preveggente, moderna. Dice
che una lingua letteraria – lui la chiama “illustre” - non è
mai
la lingua parlata, nemmeno quando riproduce vocaboli ed espressioni
della lingua parlata. E’ una lingua artificiale, costruita,
inventata, che non corrisponde a nessuna lingua di quelle che si
parlano. La
Commedia, ma ancora prima le Rime, la Vita Nuova, sono realizzazioni
diverse di questa lingua artificiale. L’estrema, e più radicale,
realizzazione di questa lingua è il Finnegans Wake di Joyce, opera
assai meno lontana dalla concezione della Commedia dantesca di quanto
si potrebbe immaginare. Del resto non è strano, per uno scrittore
che tra i suoi modelli collocava proprio Omero e Dante. E già che si
è citato Omero, questo aspetto dell’elaborazione letteraria, del
fatto che l’elaborazione letteraria non è la vita,
era chiarissimo ai poeti e scrittori greci, tant’è vero che ogni
genere aveva
la sua lingua. Perfino all’interno di una stessa opera. Nella
tragedia i personaggi parlano in attico, il coro in dorico, perché
l’attico è la lingua della poesia didascalica, e dunque di
conversazione, il dorico la lingua della poesia lirica corale (quella
monodica aveva
usato l’eolico, sia pure per un periodo limitato). Oggi sembra che
noi “post-moderni” abbiamo perduto la visione di una simile
articolata complessità, che, come si vede, non appartiene solo ai
moderni, ma già ai classici: per restringerci
alla nostra letteratura, avete mai riflettuto
a quante lingue diverse usano i tre sommi del Trecento, Dante,
Petrarca e Boccaccio?
La
digressione torna utile, adesso, per individuare due punti, riguardo
ai due cd dai quali si è partiti. Il primo riguarda la
consapevolezza dei compositori di scrivere qualcosa di “nuovo”.
Il secondo sta nell’individuare in che cosa poi consista questo
“nuovo”. Ebbene, nessun dubbio che la consapevolezza di scrivere
qualcosa di nuovo esista in tutti i compositori le cui musiche sono
interpretate nei due cd, uno
dedicato alla musica spagnola, l’altro alle avanguardie del
Novecento.
Anzi, di talmente nuovo, che se non fosse tale, non meriterebbe di
essere scritto. E questo nuovo è il modo di trattare il suono.
Questo distingue i compositori dell’ultimo secolo dai compositori
dei secoli che li hanno preceduti. E
cominciamo dalla Spagna. Manuel de Falla scrive la Fantasia Baetica
nel
1919. C’è già l’impostazione che lo distingue dai compositori
che usano il folklore spagnolo come colore caratteristico.
L’assunzione delle melodie popolari assomiglia di più
all’elaborazione bartokiana del folklore, che all’uso più
personale di altri compositori, anche spagnoli. Falla
non ha dunque niente in comune con le cosiddette scuole nazionali, ma
accoglie la melodia popolare, e soprattutto i suoi ritmi, come
materiale
da studiare in
un laboratorio, quasi un
esempio didascalico, un
microbo in provetta, il tema popolare non
costituisce
mai un
pretesto per arricchire la propria tavolozza timbrica o l’invenzione
melodica
o la
scansione
ritmica della
propria musica.
L’effetto è dirompente. E’ come se Falla esponesse non
una propria invenzione, ma
solo
reperti archeologici. L’emozione soggettiva del compositore sembra
non
farvi
parte. In realtà è intensissima: proprio perché vuole, o s’illude,
di affondare nelle matrici della musica della sua gente. Albéniz,
Granados possono risultare più accattivanti, più raffinati, più
seducenti. Falla non pulisce la rozzezza delle fonti, non attutisce
la violenza, quasi selvaggia, del grido, dell’ossessione ritmica.
Nemmeno
nella più impressionistica delle sue partiture, Noches en los
jardines de España.
Ali
Hirèche pone dunque
giustamente in apertura del suo viaggio spagnolo proprio la Fantasia
baetica, è questa l’ “altra” Spagna. Quella che non si
maschera di parigina, di europea, di aggiornata. Quella che denuda le
proprie radici, la loro nodosa ruvidezza. Il che non significa
rifiuto della dolcezza, della tenerezza. Anzi: proprio in contrasto
con questa ruvidezza la tenerezza si fa più struggente, più
scoperta. Sconvolgente come il catalano Federico Mompou poi disegni i
propri schizzi con uguale essenzialità, con la stessa nuda e
aforistica semplicità. Antonio Ruiz-Pipó,
che di Hirèche
è
stato
il maestro, continua
a
procedere
sulla
stessa via. Una reinvenzione personale della materia sonora del
proprio paese. Niente folklore, nessuna cartolina: ma quasi uno
scendere alle madri, come Faust, all’inconscio collettivo da cui
nasce l’individualità che lo evoca.
Il
disco registrato da Michele Marelli sembrerebbe condurci in
tutt’altro mondo. Anche
perché passiamo nel dominio delle avanguardie del secondo Novecento.
E’
una panoramica affascinante della musica che si suole attribuire a
queste
avanguardie. Ma se si supera la distanza, in fondo illusoria, che
passa tra l’armonia
che
appare
ancora tradizionalmente tonale nei
compositori spagnoli suonati da Hirèche, e lo scardinamento che
invece
di tale organizzazione armonica attuano
i compositori interpretati da Marelli (nell’ordine del cd: Ivan
Fedele, Giacinto Scelsi, Karlheinz Stockhausen, Michel van de Aa,
Helmut Lachenmann), si
riconoscerà per
tutti, spagnoli e avanguardisti,
nell’analisi del suono, nella sperimentazione della materialità
stessa del suono, il legame che fa di queste musiche, di tutte queste
musiche, musiche tipiche
del
Novecento. Certo, in più, soprattutto
nelle avanguardie,
c’è l’evidenza dell’atto intellettuale, del pensiero che dà
una forma inconfondibile
alla materia sonora. Ma, se
ci si riflette più profondamente, riscontriamo che lo
stesso accade anche
in un’installazione d’arte
visiva se
confrontata a un quadro o
a una scultura. Ciò che distingue l’arte del Novecento e, ancora
oggi, quella dei primi due decenni del Duemila, è infatti
il prevalere del pensiero sulla sua
realizzazione o
meglio,
anzi,
è il pensiero stesso che già si presenta come realizzazione. Ma
solo perché in taluni artisti, quelli
appunto connotati come artisti d’avanguardia,
tale prevalenza si fa più manifesta. L’apparente facilità,
l’immediata
e gradita comprensibilità,
di un Philip Glass o di un Arvo Pärt,
non
è invece
meno intellettualistica, meno
pensata,
calcolata, di quella
che innerva
un Klavierstück
di
Stockhausen. La novità del moderno, di ciò che si suole chiamare
moderno, sta tutta qui: che alla sua comprensione, e dunque al
poterne godere, non basta più la sola percezione, l’immediata –
e apparente – comprensione di ciò che si ascolta. L’ascoltatore
deve compiere uno sforzo in più: entrare nel pensiero che ha
prodotto l’opera, cogliere l’intuizione che l’ha generata,
seguire passo passo il procedimento intellettuale che le dà corpo.
E
perché allora, obietterà qualcuno, questo non accade, invece,
con la musica di Mozart? O di Chopin? Rispondo: ma ne siamo sicuri?
Perché
a questo punto è
un’altra la domanda
che
sorge
spontanea: siamo sicuri, infatti,
che
con l’arte del passato non abbiamo
bisogno di riflettere sul pensiero che l’ha generata? Siamo
convinti che l’opera ci parli da sé stessa, senza bisogno di
mediazioni intellettuali? Che l’arte, e soprattutto la musica, del
passato, cioè, ci appaia immediatamente comprensibile e quella
dell’ultimo secolo, no, ci respinga, ci appaia del tutto
incomprensibile, ci si configuri anzi come la negazione di ciò che
intendiamo per arte?
Ma
non sarà che proprio su questo dobbiamo invece interrogarci, e
cioè su
che cosa sia per noi arte?
Siamo sicuri che il puro e ingenuo ascolto di un quartetto di
Beethoven ce
ne
faccia cogliere
l’intenzione profonda? Che mi basta seguire le parole di un
madrigale monteverdiano
per penetrare nel mondo musicale – complessissimo,
intellettualissimo!
– di Monteverdi? O che
sia sufficiente
abbandonarmi alla seduzione di una melodia per catturare il segreto
di un notturno di Chopin? Non sarà che il possesso, o l’illusione
del possesso, dei meccanismi musicali che hanno dato vita a quelle
musiche – in altri termini
il fatto che il loro linguaggio mi sia noto e familiare o, più
verosimilmente, ch’io pensi di poterlo ritenere noto e familiare -
m’illuda poi di riuscire a conoscerle, perché
ne riconosco, o credo di riconoscere, il procedimento che le
costruisce?
Non dimentichiamo che il pubblico che applaudiva, entusiasta, la Nona
di Beethoven, o
quello che a Parigi andava in estasi per le rare esibizioni pubbliche
di Chopin, era
un pubblico aristocratico e altoborghese, che
chi ascoltava
conosceva assai bene la ”tecnica” con cui Beethoven e
Chopin
avevano
composta quella
musica sublime,
e quasi tutti sapevano anche
suonare
uno strumento, qualcuno sapeva addirittura comporre. Già
un po’ meno all’epoca di Chopin, è
vero, ma
sempre comunque tutti
erano eruditi
su ciò che ascoltavano.
Il pubblico di oggi, non più. Raro
che chi vada oggi ad ascoltare il direttore di fama, il pianista di
grido, conosca come si compone una sinfonia, come si scrive una
sonata. Ma
proprio per questo, invece d’inalberarsi e di
rifiutare
ciò che non capisce, dovrebbe fare lo sforzo di conoscere ciò che
gli viene proposto. E solo dopo quest’atto di
umiltà, prima ancora che
di conoscenza, a
costui
gli si potrà riconoscere il diritto di rifiutare ciò che non gli
garba. Perché allora
egli non
rifiuterà qualcosa, di cui non conosce nemmeno com’è fatta, ma
con consapevolezza rifiuterà qualcosa che ha conosciuto, e quello
che ha conosciuto non è stato di suo gradimento. Si
ascolti con attenzione quanto accade nei sei brani di Stockhausen per
clarinetto basso e feedback elettronico, “Solo” Version V. Nelle
note allegate al cd Sandro Cappelletto lo spiega bene che cosa si
ascolta. “L’opera è composta da sei pannelli, chiamati cicli,
ognuno indicato da una lettera: A, B, C, D, E, F. L’interprete ha
davanti a sé sei pagine che rappresentano il “contenuto”
dell’opera, sceglie l’ordine di organizzazione del materiale
annotato e lo suona dentro una coppia di microfoni, gli assistenti,
in tempo reale, selezionano e fanno ‘risuonare’ uno o ambedue i
canali dove il suono appena emesso è stato registrato, scelgono il
tempo di ritardo della risposta (feedback) e il livello
dell’emissione del suono dagli altoparlanti. Ogni esecuzione, pur
rispettando tali parametri, sarà diversa ...” Appunto: non si può
realizzare più precisamente l’individualità d’ogni esecuzione.
Ciò che in realtà avviene per ogni interpretazione ed esecuzione di
qualsiasi musica. Una sonata di Beethoven non è mai la stessa se
suonata da pianisti diversi, anzi nemmeno se suonata dallo stesso
pianista in momenti diversi. Solo l’incisione discografica ha la
caratteristica di fissare un’unica esecuzione, sempre la stessa per
ogni ripetizione d’ascolto. Stockhausen mette in risalto proprio
questo aspetto dell’esecuzione musicale: che ciascuna esecuzione è
un fatto unico, irripetibile. La tecnologia però permette di
registrare quell’unicità e di ripeterla. Quasi
un ossimoro dell’interpretazione, che cessa di essere tale nel
momento che può essere ripetuta all’infinito come è stata
eseguita la prima volta. In questo modo Stockhausen mette in risalto
il conflitto tra libertà dell’interprete e meccanicità della
riproduzione tecnologica. E più profondamente quanto vi sia di
costrittivo, di casuale, di determinato nell’atto che consideriamo
libero. Al solito, s’innesta nell’atto musicale una lunga
riflessione filosofica su libertà e costrizione. Dietro il pensiero
musicale di Stockhausen, perché di pensiero si tratta, possiamo
leggere le riflessioni di Nietzsche sulla morale, e perfino la
concezione buddistica della realtà come proiezione mentale e
apparenza. Ugualmente significativa appare la musica di Lachenmann,
Accanto. Accanto a chi, a che cosa? Al Concerto per clarinetto di
Mozart. Un abisso sembra separare i due musicisti. Ma ne siamo
sicuri? Il solo accostamento, accanto, appunto, ci suggerisce che la
distanza, la differenza, è solo un’illusione. Del resto, già
Scelsi, con Ixor, non ci aveva fatto dubitare che addirittura la
melodia si confonda con il respiro umano, o più in là con
l’abolizione del tempo, proprio perché l’abolizione del tempo
abolirebbe anche la melodia, e con la melodia anche il respiro?
Consiglio
perciò
vivamente
a tutti, prima di un sì o di un no, di ascoltarsi con attenzione a
queste
registrazioni di
musica del Novecento.
Se
non altro, per rendere
omaggio alla bravura e all’intelligenza
degli interpreti. Ma
soprattutto, alla loro ostinazione e alla loro onestà intellettuale.
Sensibilità, sentimento, emozione nasceranno di conseguenza.
Fiano
Romano, 18 febbraio 2018
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