Luigi Nono, Prometeo
Tragedia dell’ascolto
Ensemble Prometo
Filarmonica Arturo Toscanini
Coro del Teatro Regio di Parma
Marco Angius, direttore
stradivarius STR 37096
2 cd
Luigi
Nono si dedicò alla composizione del Prometeo dal 1981 al 1984,
quando il 25 settembre l’opera debuttò a Venezia nella chiesa di
San Lorenzo, diretta da Claudio Abbado, dentro una sorta di nave, o
meglio una specie di arca lignea mitica, progettata da Renzo Piano,
in cui i suoni erano emessi, accolti e diffusi dentro uno spazio
quasi perfettamente sferico. La partitura fu ripresa e rimaneggiata
poi per l’esecuzione milanese nello stabilimento dell’Ansaldo
l’anno seguente. In qualche teatro tedesco fa ormai parte del
repertorio. E in altri teatri d’Europa e del mondo è conosciuto ed
eseguito: a Francoforte
e Parigi nel 1987,
a
Berlino nel1988,
ad
Amsterdam nel1992,
a Salisburgo
nel 1993),
a Lisbona
nel 1995,
a
Bruxelles nel 1997,
ad Akiyoshidai
in Giappone
nel
1998. Io, dopo la prima
veneziana, lo riascoltai, profondamente commosso, a Salisburgo, nel
1993, diretto da Ingo Metzmacher, nella bellissima Collegienkirche,
la chiesa dell’Università, costruita da
Johann
Bernhard Fischer von
Erlach,
il
grande architetto
austriaco che ha progettato, tra l’altro, la chiesa di San Carlo a
Vienna e il castello di Schönbrunn.
C’era gente fuori della chiesa che chiedeva un biglietto, perché
si registrava il tutto esaurito. E Salisburgo non è un festival di
scalmanati modernisti. In Italia fu ripreso nel 1991, alle Orestiadi
di Gibellina. E di nuovo a Milano nel 2.000. Ora il Teatro Regio di
Parma, nello straordinario spazio del Teatro Farnese, l’ha
riproposto nel 2017 diretto da Marco Angius. Questa incisione
stradivarius è la registrazione di quell’esecuzione effettuata nei
giorni 26 e 28 maggio.
Le
illustrazioni si riferisco alla copertina del cd, alla copertina del
volume pubblicato dal Festival di Salisburgo per la settimana
dedicata a Luigi Nono nell’ambito della rassegna Zeitluss (flusso
del tempo), l’estate del 1993, Brennpunkt significa punto di accensione, di fuoco, e la copertina del volume dedicato a
Nono dal Festival d’automne di Parigi nel 1987.
Il
sottotitolo recita del Prometeo: Tragedia dell’ascolto. I testi,
raccolti da Massimo Cacciari, sono tratti da Eschilo
(Prometeo legato), Sofocle (Le Trachinie, Edipo a Colono), Euripide
(Alcesti), Pindaro (Odi Pitiche),
Esiodo
(Teogonia),
Goethe
(Prometheus),
Hölderlin
(Hyperion),
Nietzsche,
Rilke
e
Benjamin.
All’esecuzione partecipano i soprani Livia Rado e Alda Caiello, i
contralti Katarzyna Otczyk, il tenore Marco Rencinai, gli attori
Sergio
Basile e Manuela Mandracchia, l’Ensemble Prometeo, la Filarmonica
Arturo Toscanini, il Coro del Teatro Regio di Parma, Maurizio
Faggiani il suo direttore, Caterina Centofante direttore assistente
dell’immenso complesso, al live electronics presiedono Alvise
Vidolin e Nicola Bernardini.
La
gigantesca macchina architettonica
e musicale può
far pensare al progetto solo apparentemente analogo del Licht di
Karlheinz Stockhausen. Ma il compositore tedesco resta ancora
vincolato all’idea di una rappresentazione visiva di ciò che
accade nella musica. E in ciò sembra riproporre,
anche se attualizzata,
l’idea wagneriana di un teatro totale. Nono, invece,
esclude drasticamente qualsiasi riferimento a una rappresentazione,
anzi addirittura a qualsiasi effetto visivo, per concentrarsi su una
percezione integralmente limitata al puro ascolto. Non
c’è nemmeno una storia, una narrazione che tenga insieme il
procedere dell’azione sonora. Lo stesso testo è frammentato
all’emissione
di sillabe, vocali, separate le une dalle altre. Intende
in questo modo suggerire una complessità di percezione e
d’intelligenza della percezione che l’idea comune di ascolto non
prevede. Negli ultimi anni il compositore veneziano era andato,
infatti,
via via prosciugando la propria scrittura musicale – ma sempre di
scrittura comunque si tratta, non si esce
mai, anzi, dall’idea del comporre, etimologicamente mettere
insieme, di modo che anche l’improvvisazione, il casuale, finiscono
per farne parte. A molti
potrà infastidire o destare comunque perplessità, ascoltando,
l’incomprensione del testo, la
sua apparente non decifrabilità,
ridotto come appare
spesso a puro fenomeno
acustico – una vocale, una consonante, una sillaba. Ed emesso il
suono della parola non solo dal canto, ma anche dalla voce che parla,
o sussurra. Che senso ha tutto questo? si chiederà qualcuno,
abituato alle parallela percezione di un testo e di una melodia. Qui
si aprirebbe un lungo discorso che bisogna solo accennare. Il
discorso non riguarda solo la musica, ma anche, e soprattutto, la
poesia, e in genere tutte le arti. Un aereo libricino
del latinista Gian Biagio Conte, Memoria dei poeti e sistema
letterario. Catullo Virgilio Ovidio Lucano, Torino, Einaudi, 1974, lo
spiega benissimo. L’esergo, da Seneca, è illuminante: “Ecco come
deve operare il nostro spirito: tener nascosti tutti gli elementi di
cui si è giovato, mostrare solo quel che ne ha fatto”. Non si
potrebbe definire meglio l’essenza dell’arte. Si pensi che
l’attacco di un sonetto famoso, e bellissimo, di Foscolo, “Un dì,
s’io non andrò sempre fuggendo / di gente in gente”, è il calco
quasi perfetto dell’attacco di un carme di Catullo, “Multas
per gentes et
multa
per aequora vectus” (carme
101), e lo stesso Catullo traduce Saffo
quasi alla lettera in
“Ille mi par esse deo videtur” (carme 51). Il lettore antico
provava un’emozione più
alta proprio nel riconoscere la fonte del testo che leggeva, la
citazione erudita, l’allusione cifrata.
E di citazioni e autocitazioni è piena la storia della poesia, come
del resto
anche quella della musica. Famosa l’autocitazione dell’aria “Non
più andrai farfallone amoroso” dalle Nozze di Figaro nel Finale
del Don Giovanni di Mozart. Che tra l’altro ha anche un significato
drammaturgico, inserisce
una sciabolata d’ironia
tragica: Don Giovanni sarà trascinato all’inferno dal Commendatore
e non potrà più dunque farfalleggiare in cerca di donne. Cacciari e
Nono vanno, però,
più in là. Non è vero che la sillaba isolata
escluda ogni riferimento a un testo. Il solo sapere che quella
sillaba fa parte di un testo la connota di significato aggiunto. Se
io affido a un attore la dizione della sillaba “nel” e altri
attori o cantanti vi sovrappongono altre sillabe, o altre parole,
mezzo, vita, cammin, la mia memoria associa subito tutte quelle
sillabe al primo verso della Commedia. Ed ecco che acquistano subito
un significato denso di attese, penso a un viaggio, a un viaggio tra
i morti, alla selva in cui mi sono smarrito, al fallimento fin a quel
punto della mia vita e alla volontà di uscirne, e così via. L’arte,
e dunque anche la poesia, anche la musica, non si racchiude mai nel
singolo fenomeno
percepito, ma rinvia sempre a un complesso insieme,
per rubare il termine
alla matematica - Nono e
Cacciari direbbero arcipelago - di significati. In
questo caso al mondo si può dire infinito e sempre nuovo del poema
di Dante. Ma non è diverso con la figura, con
il mito di Prometeo, il πυροφόρος
, in
latino lucifer, portatore di fuoco, di luce. E c’è Eschilo,
Prometeo legato, c’è Goethe, Esiodo, Hölderlin.
Ogni sillaba, ogni suono della loro poesia riverbera significati,
emozioni molteplici, di cui la semplice dizione, anzi la pura
fonazione, si fa supporto, strumento, figuriamoci poi l’espansione
della musica, del canto, soprattutto se intrecciata ad altre dizioni,
ad altre fonazioni,
in una costruzione che può ricordare la polifonia fiamminga.
Ma
c'è, in tutto questo, un punto fondamentale che sfugge a molti: che
la
scrittura, sia
verbale sia musicale,
fa compiere un salto qualitativo a tutto ciò di cui è scrittura,
che diventa perciò
altro. Ciò accade anche ai livelli più bassi della
comunicazione umana.
Quando Grillo inventa il Vaffaday (lo odierò in eterno solo per
questo!) lo spontaneo improperio diventa in quel momento un'altra
cosa, perché non è più spontaneo insulto, ma si carica di
molteplici significati, in questo caso soprattutto politici. Ora, se
questo accade con un tale esempio di volgare e ruffiana astuzia
politica, che cosa accade quando invece è la scrittura stessa del
poeta, dello scrittore ad assumere nella scrittura l'immediatezza del
parlato? Che a quel punto non è più parlato, non è più
immediatezza, ma irrompe un'assunzione
dell'immediatezza, la sua finzione, la sua imitazione. E in questo
scarto sta la differenza - abissale! - tra scrittura e realtà. Per
esempio quando Giuseppe Gioacchino Belli attacca un suo sonetto con
un urto
semantico e stilistico estremo: “Tu m’adimanni a me si fu puttana
/ a li su tempi la casta Susanna … “ L’urto sta tra quel
puttana iniziale, in fine di verso e la rievocazione della “casta
Susanna” nel verso seguente. La lingua plebea è lasciata alle
spalle. C’è il poeta colto che gioca con la plebe e il suo
linguaggio, e che si diverte a scombinare le idee della borghesia e
dell’aristocrazia colte di cui fa parte. Ma nel Prometeo
di Nono la prospettiva è un’altra. Siamo agli ultimi, a
una sorta di apocalisse della musica.
Sì, quasi al tono di una profezia, sicuramente all’accento
di
un mistico. Non che si prefiguri un’esistenza trascendente, ma sì
un tempo illimitato, senza conclusione. Il suono, nel momento in cui
si emette, rompe il silenzio, e la parola, anche la nuda sillaba,
colpendo
impetuosa o flebile la
mente la
proietta
verso paesaggi indeterminati di significati molteplici, e più
significati a seconda della cultura di chi percepisce, di chi
ascolta. Ecco il senso del sottotitolo: tragedia dell’ascolto. Il
puro ascolto, l’immedesimazione della mente, e dunque del corpo,
con il suono che si percepisce, fa compiere alla coscienza un salto
mortale, un urto con il niente del silenzio, dentro cui a un tratto
irrompe il tutto della parola, il tutto della musica, e vi si
ammucchiano, accumulando
i significati, infiniti, con
i quali la parola, e la musica, si fanno un
tutto. La
morte? La vita? Il migliore commento, allora, forse, è rileggersi
con calma, e
assaporando
le parole – e il loro eco nella musica di Nono – del Prometeo di
Goethe. Soprattutto i versi finali, quelli che il titano rivolge a
Zeus:
Qui
me ne sto, plasmo uomini
a
mia immagine,
una
stirpe che mi somigli
nel
soffrire,
nel piangere,
che
goda e si rallegri
e
non si curi di te,
come
me!
(traduzione
di Mario Specchio, Goethe, Tutte le Poesie, I, Milano, Mondadori, “I
Meridiani”,
1989)
L’incisione
è, come si è detto, la registrazione dell’esecuzione avvenuta nel
Teatro Farnese di Parma, diretta da Marco Angius. Va goduta attimo
per attimo. Ogni attimo farà nascere dentro l’ascoltatore una
miriadi di emozioni, di pensieri, di riflessioni, come se assistesse
a una tragedi di Eschilo o di Shakespeare. L’azione, che
apparentemente manca, sta tutta in quell’ascolto. Il dramma che
accade, e questo vuol dire in greco la parola δρᾶμα,
accade nella nostra mente, è il nostro ascolto. Cominciamo?
Sorgono
molte riflessioni durante l’ascolto. La prima è proprio quanto
coinvolgente sia questa musica. Angius è bravissimo a dosare volumi,
piani, intersezioni, come farebbe un artista figurativo con i diversi
livelli di un’installazione. Curioso che per entrambi i fenomeni
artistici, quello figurativo e quello musicale, molti manifestino
segni d’insofferenza, quando non addirittura di aperta
intolleranza: ma questa non è musica, questa non è arte! Ciò che
colpisce è la sicurezza, anzi direi la sicumera, con cui costoro
sanciscono che cosa sia e che cosa non sia arte. Un campo in cui da
Aristotele a San Tommaso (scrive cose modernissime sull’estetica,
Umberto Eco gli dedicò la propria tesi di laurea, poi pubblicata),
al nostro Tasso, a Vico, a Kant, a Hegel, a Benjamin, a Bense e a chi
più ne ha ne metta, la discussione resta aperta alle più diverse e
molteplici idee, e sempre allargandolo il campo, via via sempre più
inclusivo di fenomeni nuovi, e soprattutto più interrogante, più
irrequieto e inquietante, problematico, mai consolatorio, mentre i
negazionisti vorrebbero restringerlo a un orticello grazioso e
confortevole. Orchestra, coro e solisti, attori collaborano con
penetrante forza espressiva, declinando tutte le possibili emissioni
del suono, perché meglio il suo messaggio interiore possa essere
assimilato dal cervello di chi ascolta. Ma basta con le parole.
Almeno con le parole che cercano di spiegare che cosa significhi il
suono che le supporta, e diamo spazio, invece, alla lettera, aprire
lo spazio del nostro ascolto, proprio a questo suono. Lasciatevene
avvolgere, lasciatevene penetrare.
Precise,
esaurienti, oltre che necessarie, preziose, le note nel booklet di
Giuseppe Martini. Decisive, per capire il senso dell’opera, le
righe che vi dedica lo stesso direttore, Marco Angius, dal titolo
illuminante di La partitura non è l’opera. Sembrerebbe un’ovvietà.
Invece va spiegato, ogni volta. La partitura è solo la scrittura di
che cosa si deve fare perché l’opera prenda vita. In musica, come
anche nel teatro. Il testo di un dramma non è il dramma, ma il
copione per la sua messa in scena. E il suo valore letterario?
domanderà qualcuno. Resta intatto. Perché, un poema tramandato
oralmente, non ha valore letterario? Una musica affidata
all’improvvisazione non ha valore musicale? La scrittura permette
un’elaborazione più capillare dell’opera. Ma l’opera è la sua
realizzazione, non la sua scrittura. Ciò sembrerebbe contraddire
quanto s’è scritto sopra, ma non è così. Perché scrittura non
è solo l’atto materiale di segnare qualche segno su un foglio, ma
anche, anzi soprattutto, la progettazione dell’opera, la sua
invenzione, la sua costruzione, la sua scrittura, appunto. Quella
segnata sulla carta è un appunto per la memoria. Perché
l’invenzione di un’opera è diventata così complessa,
articolata, che sarebbe ormai impossibile affidarla esclusivamente
alla trasmissione mnemonica, alla tradizione orale, che non a caso
si serve anche di formule, sigle che aiutano la memorizzazione. Con
l’atto di segnare le linee della costruzione sulla carta non ho più
bisogno di questi aiuti mnemonici e posso lanciarmi nelle più
spericolate e imprevedibili invenzioni.
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