domenica 27 gennaio 2019

Un'incisione del Prometeo di Luigi Nono







Luigi Nono, Prometeo
Tragedia dell’ascolto
Ensemble Prometo
Filarmonica Arturo Toscanini
Coro del Teatro Regio di Parma
Marco Angius, direttore

stradivarius STR 37096
2 cd


Luigi Nono si dedicò alla composizione del Prometeo dal 1981 al 1984, quando il 25 settembre l’opera debuttò a Venezia nella chiesa di San Lorenzo, diretta da Claudio Abbado, dentro una sorta di nave, o meglio una specie di arca lignea mitica, progettata da Renzo Piano, in cui i suoni erano emessi, accolti e diffusi dentro uno spazio quasi perfettamente sferico. La partitura fu ripresa e rimaneggiata poi per l’esecuzione milanese nello stabilimento dell’Ansaldo l’anno seguente. In qualche teatro tedesco fa ormai parte del repertorio. E in altri teatri d’Europa e del mondo è conosciuto ed eseguito: a Francoforte e Parigi nel 1987, a Berlino nel1988, ad Amsterdam nel1992, a Salisburgo nel 1993), a Lisbona nel 1995, a Bruxelles nel 1997, ad Akiyoshidai in Giappone nel 1998. Io, dopo la prima veneziana, lo riascoltai, profondamente commosso, a Salisburgo, nel 1993, diretto da Ingo Metzmacher, nella bellissima Collegienkirche, la chiesa dell’Università, costruita da Johann Bernhard Fischer von Erlach, il grande architetto austriaco che ha progettato, tra l’altro, la chiesa di San Carlo a Vienna e il castello di Schönbrunn. C’era gente fuori della chiesa che chiedeva un biglietto, perché si registrava il tutto esaurito. E Salisburgo non è un festival di scalmanati modernisti. In Italia fu ripreso nel 1991, alle Orestiadi di Gibellina. E di nuovo a Milano nel 2.000. Ora il Teatro Regio di Parma, nello straordinario spazio del Teatro Farnese, l’ha riproposto nel 2017 diretto da Marco Angius. Questa incisione stradivarius è la registrazione di quell’esecuzione effettuata nei giorni 26 e 28 maggio.

Le illustrazioni si riferisco alla copertina del cd, alla copertina del volume pubblicato dal Festival di Salisburgo per la settimana dedicata a Luigi Nono nell’ambito della rassegna Zeitluss (flusso del tempo), l’estate del 1993, Brennpunkt significa punto di accensione, di fuoco, e la copertina del volume dedicato a Nono dal Festival d’automne di Parigi nel 1987.



Il sottotitolo recita del Prometeo: Tragedia dell’ascolto. I testi, raccolti da Massimo Cacciari, sono tratti da Eschilo (Prometeo legato), Sofocle (Le Trachinie, Edipo a Colono), Euripide (Alcesti), Pindaro (Odi Pitiche), Esiodo (Teogonia), Goethe (Prometheus), Hölderlin (Hyperion), Nietzsche, Rilke e Benjamin. All’esecuzione partecipano i soprani Livia Rado e Alda Caiello, i contralti Katarzyna Otczyk, il tenore Marco Rencinai, gli attori Sergio Basile e Manuela Mandracchia, l’Ensemble Prometeo, la Filarmonica Arturo Toscanini, il Coro del Teatro Regio di Parma, Maurizio Faggiani il suo direttore, Caterina Centofante direttore assistente dell’immenso complesso, al live electronics presiedono Alvise Vidolin e Nicola Bernardini.



La gigantesca macchina architettonica e musicale può far pensare al progetto solo apparentemente analogo del Licht di Karlheinz Stockhausen. Ma il compositore tedesco resta ancora vincolato all’idea di una rappresentazione visiva di ciò che accade nella musica. E in ciò sembra riproporre, anche se attualizzata, l’idea wagneriana di un teatro totale. Nono, invece, esclude drasticamente qualsiasi riferimento a una rappresentazione, anzi addirittura a qualsiasi effetto visivo, per concentrarsi su una percezione integralmente limitata al puro ascolto. Non c’è nemmeno una storia, una narrazione che tenga insieme il procedere dell’azione sonora. Lo stesso testo è frammentato all’emissione di sillabe, vocali, separate le une dalle altre. Intende in questo modo suggerire una complessità di percezione e d’intelligenza della percezione che l’idea comune di ascolto non prevede. Negli ultimi anni il compositore veneziano era andato, infatti, via via prosciugando la propria scrittura musicale – ma sempre di scrittura comunque si tratta, non si esce mai, anzi, dall’idea del comporre, etimologicamente mettere insieme, di modo che anche l’improvvisazione, il casuale, finiscono per farne parte. A molti potrà infastidire o destare comunque perplessità, ascoltando, l’incomprensione del testo, la sua apparente non decifrabilità, ridotto come appare spesso a puro fenomeno acustico – una vocale, una consonante, una sillaba. Ed emesso il suono della parola non solo dal canto, ma anche dalla voce che parla, o sussurra. Che senso ha tutto questo? si chiederà qualcuno, abituato alle parallela percezione di un testo e di una melodia. Qui si aprirebbe un lungo discorso che bisogna solo accennare. Il discorso non riguarda solo la musica, ma anche, e soprattutto, la poesia, e in genere tutte le arti. Un aereo libricino del latinista Gian Biagio Conte, Memoria dei poeti e sistema letterario. Catullo Virgilio Ovidio Lucano, Torino, Einaudi, 1974, lo spiega benissimo. L’esergo, da Seneca, è illuminante: “Ecco come deve operare il nostro spirito: tener nascosti tutti gli elementi di cui si è giovato, mostrare solo quel che ne ha fatto”. Non si potrebbe definire meglio l’essenza dell’arte. Si pensi che l’attacco di un sonetto famoso, e bellissimo, di Foscolo, “Un dì, s’io non andrò sempre fuggendo / di gente in gente”, è il calco quasi perfetto dell’attacco di un carme di Catullo, “Multas per gentes et multa per aequora vectus” (carme 101), e lo stesso Catullo traduce Saffo quasi alla lettera in “Ille mi par esse deo videtur” (carme 51). Il lettore antico provava un’emozione più alta proprio nel riconoscere la fonte del testo che leggeva, la citazione erudita, l’allusione cifrata. E di citazioni e autocitazioni è piena la storia della poesia, come del resto anche quella della musica. Famosa l’autocitazione dell’aria “Non più andrai farfallone amoroso” dalle Nozze di Figaro nel Finale del Don Giovanni di Mozart. Che tra l’altro ha anche un significato drammaturgico, inserisce una sciabolata d’ironia tragica: Don Giovanni sarà trascinato all’inferno dal Commendatore e non potrà più dunque farfalleggiare in cerca di donne. Cacciari e Nono vanno, però, più in là. Non è vero che la sillaba isolata escluda ogni riferimento a un testo. Il solo sapere che quella sillaba fa parte di un testo la connota di significato aggiunto. Se io affido a un attore la dizione della sillaba “nel” e altri attori o cantanti vi sovrappongono altre sillabe, o altre parole, mezzo, vita, cammin, la mia memoria associa subito tutte quelle sillabe al primo verso della Commedia. Ed ecco che acquistano subito un significato denso di attese, penso a un viaggio, a un viaggio tra i morti, alla selva in cui mi sono smarrito, al fallimento fin a quel punto della mia vita e alla volontà di uscirne, e così via. L’arte, e dunque anche la poesia, anche la musica, non si racchiude mai nel singolo fenomeno percepito, ma rinvia sempre a un complesso insieme, per rubare il termine alla matematica - Nono e Cacciari direbbero arcipelago - di significati. In questo caso al mondo si può dire infinito e sempre nuovo del poema di Dante. Ma non è diverso con la figura, con il mito di Prometeo, il πυροφόρος , in latino lucifer, portatore di fuoco, di luce. E c’è Eschilo, Prometeo legato, c’è Goethe, Esiodo, Hölderlin. Ogni sillaba, ogni suono della loro poesia riverbera significati, emozioni molteplici, di cui la semplice dizione, anzi la pura fonazione, si fa supporto, strumento, figuriamoci poi l’espansione della musica, del canto, soprattutto se intrecciata ad altre dizioni, ad altre fonazioni, in una costruzione che può ricordare la polifonia fiamminga.

Ma c'è, in tutto questo, un punto fondamentale che sfugge a molti: che la scrittura, sia verbale sia musicale, fa compiere un salto qualitativo a tutto ciò di cui è scrittura, che diventa perciò altro. Ciò accade anche ai livelli più bassi della comunicazione umana. Quando Grillo inventa il Vaffaday (lo odierò in eterno solo per questo!) lo spontaneo improperio diventa in quel momento un'altra cosa, perché non è più spontaneo insulto, ma si carica di molteplici significati, in questo caso soprattutto politici. Ora, se questo accade con un tale esempio di volgare e ruffiana astuzia politica, che cosa accade quando invece è la scrittura stessa del poeta, dello scrittore ad assumere nella scrittura l'immediatezza del parlato? Che a quel punto non è più parlato, non è più immediatezza, ma irrompe un'assunzione dell'immediatezza, la sua finzione, la sua imitazione. E in questo scarto sta la differenza - abissale! - tra scrittura e realtà. Per esempio quando Giuseppe Gioacchino Belli attacca un suo sonetto con un urto semantico e stilistico estremo: “Tu m’adimanni a me si fu puttana / a li su tempi la casta Susanna … “ L’urto sta tra quel puttana iniziale, in fine di verso e la rievocazione della “casta Susanna” nel verso seguente. La lingua plebea è lasciata alle spalle. C’è il poeta colto che gioca con la plebe e il suo linguaggio, e che si diverte a scombinare le idee della borghesia e dell’aristocrazia colte di cui fa parte. Ma nel Prometeo di Nono la prospettiva è un’altra. Siamo agli ultimi, a una sorta di apocalisse della musica. Sì, quasi al tono di una profezia, sicuramente all’accento di un mistico. Non che si prefiguri un’esistenza trascendente, ma sì un tempo illimitato, senza conclusione. Il suono, nel momento in cui si emette, rompe il silenzio, e la parola, anche la nuda sillaba, colpendo impetuosa o flebile la mente la proietta verso paesaggi indeterminati di significati molteplici, e più significati a seconda della cultura di chi percepisce, di chi ascolta. Ecco il senso del sottotitolo: tragedia dell’ascolto. Il puro ascolto, l’immedesimazione della mente, e dunque del corpo, con il suono che si percepisce, fa compiere alla coscienza un salto mortale, un urto con il niente del silenzio, dentro cui a un tratto irrompe il tutto della parola, il tutto della musica, e vi si ammucchiano, accumulando i significati, infiniti, con i quali la parola, e la musica, si fanno un tutto. La morte? La vita? Il migliore commento, allora, forse, è rileggersi con calma, e assaporando le parole – e il loro eco nella musica di Nono – del Prometeo di Goethe. Soprattutto i versi finali, quelli che il titano rivolge a Zeus:

Qui me ne sto, plasmo uomini
a mia immagine,
una stirpe che mi somigli
nel soffrire, nel piangere,
che goda e si rallegri
e non si curi di te,
come me!
(traduzione di Mario Specchio, Goethe, Tutte le Poesie, I, Milano, Mondadori, “I Meridiani”, 1989)

L’incisione è, come si è detto, la registrazione dell’esecuzione avvenuta nel Teatro Farnese di Parma, diretta da Marco Angius. Va goduta attimo per attimo. Ogni attimo farà nascere dentro l’ascoltatore una miriadi di emozioni, di pensieri, di riflessioni, come se assistesse a una tragedi di Eschilo o di Shakespeare. L’azione, che apparentemente manca, sta tutta in quell’ascolto. Il dramma che accade, e questo vuol dire in greco la parola δρᾶμα, accade nella nostra mente, è il nostro ascolto. Cominciamo?

Sorgono molte riflessioni durante l’ascolto. La prima è proprio quanto coinvolgente sia questa musica. Angius è bravissimo a dosare volumi, piani, intersezioni, come farebbe un artista figurativo con i diversi livelli di un’installazione. Curioso che per entrambi i fenomeni artistici, quello figurativo e quello musicale, molti manifestino segni d’insofferenza, quando non addirittura di aperta intolleranza: ma questa non è musica, questa non è arte! Ciò che colpisce è la sicurezza, anzi direi la sicumera, con cui costoro sanciscono che cosa sia e che cosa non sia arte. Un campo in cui da Aristotele a San Tommaso (scrive cose modernissime sull’estetica, Umberto Eco gli dedicò la propria tesi di laurea, poi pubblicata), al nostro Tasso, a Vico, a Kant, a Hegel, a Benjamin, a Bense e a chi più ne ha ne metta, la discussione resta aperta alle più diverse e molteplici idee, e sempre allargandolo il campo, via via sempre più inclusivo di fenomeni nuovi, e soprattutto più interrogante, più irrequieto e inquietante, problematico, mai consolatorio, mentre i negazionisti vorrebbero restringerlo a un orticello grazioso e confortevole. Orchestra, coro e solisti, attori collaborano con penetrante forza espressiva, declinando tutte le possibili emissioni del suono, perché meglio il suo messaggio interiore possa essere assimilato dal cervello di chi ascolta. Ma basta con le parole. Almeno con le parole che cercano di spiegare che cosa significhi il suono che le supporta, e diamo spazio, invece, alla lettera, aprire lo spazio del nostro ascolto, proprio a questo suono. Lasciatevene avvolgere, lasciatevene penetrare.
Precise, esaurienti, oltre che necessarie, preziose, le note nel booklet di Giuseppe Martini. Decisive, per capire il senso dell’opera, le righe che vi dedica lo stesso direttore, Marco Angius, dal titolo illuminante di La partitura non è l’opera. Sembrerebbe un’ovvietà. Invece va spiegato, ogni volta. La partitura è solo la scrittura di che cosa si deve fare perché l’opera prenda vita. In musica, come anche nel teatro. Il testo di un dramma non è il dramma, ma il copione per la sua messa in scena. E il suo valore letterario? domanderà qualcuno. Resta intatto. Perché, un poema tramandato oralmente, non ha valore letterario? Una musica affidata all’improvvisazione non ha valore musicale? La scrittura permette un’elaborazione più capillare dell’opera. Ma l’opera è la sua realizzazione, non la sua scrittura. Ciò sembrerebbe contraddire quanto s’è scritto sopra, ma non è così. Perché scrittura non è solo l’atto materiale di segnare qualche segno su un foglio, ma anche, anzi soprattutto, la progettazione dell’opera, la sua invenzione, la sua costruzione, la sua scrittura, appunto. Quella segnata sulla carta è un appunto per la memoria. Perché l’invenzione di un’opera è diventata così complessa, articolata, che sarebbe ormai impossibile affidarla esclusivamente alla trasmissione mnemonica, alla tradizione orale, che non a caso si serve anche di formule, sigle che aiutano la memorizzazione. Con l’atto di segnare le linee della costruzione sulla carta non ho più bisogno di questi aiuti mnemonici e posso lanciarmi nelle più spericolate e imprevedibili invenzioni.


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