lunedì 21 gennaio 2019

Dante, nostro contemporaneo?

Marco Grimaldi ha scritto un breve, e intenso, saggio su Dante e l’ha intitolato “Dante, nostro contemporanero. Perché leggere ancora la Commedia” (Roma, Castelvecchi, “irruzioni”, pagg. 45, € 5.00). Ha il taglio, quasi, di un pamphlet, più che di un saggio letterario, e si legge d’un fiato. La contemporaneità additata è, tuttavia, quella di qualunque classico, anzi direi di qualunque scrittore che sia davvero scrittore, ma Grimaldi mette invece giustamente in guardia ogni lettore dall’apparente attualità delle sbalorditive e appariscenti attualizzazioni. La concezione della vita e dell’arte che aveva Dante non è la nostra, ma quella di un intellettuale fiorentino tra XIII e XIV secolo. E’ nostro il suo mettersi in discussione, e dalle fondamenta, e scrivere un poema proprio su questa integrale ridiscussione della propria vita e dei propri convincimenti. Persuade meno il confronto con Kant e l’idea che Dante prefiguri la libertà dell’atto morale così come la concepisce Kant e dopo Kant la modernità. Se non ho frainteso quanto scrive Grimaldi nelle pagine finali. In realtà il libero arbitrio di cui parla Dante è quello di Agostino, fortemente condizionato, per non dire limitato, dalla predestinazione divina: che a Dante genera però dubbi, angoscia, e ne incarna bene la profonda tristezza il personaggio di Virgilio. Soprattutto nell’incontro con il “redento” Stazio. Ma il disagio intellettuale, prima che emotivo, di Dante si rivela drammaticamente nel problema dei bambini irredenti. E che Dante sia toccato, e dolorosamente, dal problema ce lo fa sentire contemporaneo. Il resto no, rientra nella vicenda intellettuale di un poeta certamente innovatore, ma legato a doppio filo ai trovatori, ai trovieri, allo Stil Novo. Proprio all’inizio del viaggio, infatti, l’incontro con Francesca, con la dannazione di Francesca, gli fa crollare un mondo di certezze addosso. Il viaggio è la ricostruzione di un convincimento riguardo alla vita assai più complesso di quello di un Arnaut Daniel, di un Guinizelli, di un Cavalcanti. L’amore può – può! - essere dannazione. Il canto centrale del poema, il XVII del Purgatorio, spiega perché. La visione finale di Dio glielo ripropone il problema, ma il viator non riceve tuttavia da Dio nessuna risposta, il Motore Immobile lo assorbe nella propria identità di Causa delle cose, il poeta è per un attimo senza tempo assorbito dall’Essere, ma può raccontarlo solo dopo ch’è ritornato nel divenire, con una grande dose di oblio. E non sa trovare altra spiegazione che quella causa è Amore, l’amor che muove il sole e l’altre stelle. Il problema di Francesca all’inizio dell’inferno, di Guinizelli alla fine del Purgatorio, e di Beatrice nel congedo del Paradiso, trova una soluzione tipicamente dantesca: linguisitica. Il Motore, la Causa, l’Essere è Amore. Ma non quello disordinato dei sensi, bensì quello che trascende i sensi, ed è l’Ordine supremo delle cose. Nell’ultima tappa del viaggio, all’inizio dell’ultima tappa, lo spiega bene Beatrice:

Le cose tutte quante
hanno ordine tra loro e questo è forma
che l’universo a Dio fa simigliante.

Di quest’ordine, di questa calma, che per gli uomini s’incarnerebbe, dovrebbe anzi incarnarsi nella Giustizia, in terra non c’è traccia, l’aiuola che ci fa tanto feroci è il regno del disordine, della violenza, degli appetiti, del Caos. Accidenti se Dante non è nostro contemporaneo! In margine: la concezione agostiniana, e quindi dantesca, del libero arbitrio, mi appare oggi assai più moderna della libertà assoluta pensata da Kant. E non solo perché già Nietzsche ne aveva messo in evidenza i limiti, ma soprattutto perché Darwin prima e oggi le neuroscienze hanno profondamente ridimensionato l’autonomia delle decisioni umane. Tutto ciò ci dovrebbe, tra l’altro, far ripensare i nostri attuali sistemi legislativi in fatto di responsabilità morale dell’individuo e di comminazione di pene da parte della società. Ma questo è un altro discorso. Sul quale anche l’inflessibile Dante non ha certezze assolute. E se non le aveva un credente del XIV secolo, ciò dovrebbe farci riflettere.

Fiano Romano, 21 gennaio 2019

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