venerdì 25 gennaio 2019

Teatro Massimo di Palermo: Turandot




PALERMO. TEATRO MASSIMO. TURANDOT di Giacomo Puccini. Libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni.

Turandot Tatiana Melnychenko
Altoum e Principe di Persia Antonello Ceron
Timur Simon Orfila
Calaf Brian Jadge
Liù Valerie Sepe
Ping Vincenzo Taormina
Pang Francesco Marsiglia
Pong Manuel Pierattelli
Mandarino Luciano Roberti

Direttore Gabriele Ferro
Concept Fabio Cherstich e AES+F
Regia Fabio Cherstich
Video, scene e costumi AES+F
Luci Marco Giusti
Videomaker Georgy Arzamasov
Coach movimenti Alessio maria Romano
Assistente alla regia Fabio Condemi
Assistente alle scene e ai costumi Marina Bursigina

Orchestra, Coro e Coro di voci bianche del Teatro Massimo
Maestro del Coro Piero Monti
Maestro del Coro di voci bianche Salvatore Punturo

Nuovo allestimento del Teatro Massimo
In coproduzione con il Teatro Comunale di Bologna e il Badisches Staatstheater Karlsruhe
In partnership con Lakhta Center – San Pietroburgo
Partner tecnico per i costumi, Alcantara

Due teatri italiani, Il Teatro Massimo di Palermo e il Teatro Comunale di Bologna; un teatro tedesco, il Badisches Staatstheater di Karlsruhe; il Lakhta Centr di San Pietroburgo, un grattacielo alto 486 m, e di 86 piani, per questa Turandot che inaugura il 2019 a Palermo. Alla guida dei complessi teatrali e artistici un giovane regista triestino, Fabio Chestich, e il collettivo artistico di San Pietroburgo, AES+F, composto dagli architetti concettuali Tatiana Arzamasova e Lev Evzovich, il grafico editoriale e pubblicitario Evgeny Svyatsky e il fotografo di moda Vladimir Fridkes. Tutti insieme concepiscono uno spettacolo d’interazione continua tra azione scenica e narrazione visiva, che si realizza con un video proiettato sul fondo, il quale integra e completa l’azione sulla scena, e a ben pensare le dà anzi il suo vero senso. Il punto di partenza è di uscire dall’idea di una Cina mitica, esotica, come se l’immagina un occhio eurocentrico. Già nel 1997, a Firenze, per il Maggio Musicale, il grande regista cinese Zhang Yimou aveva figurato una Cina fiabesca assai diversa dall’idea mitica di un europeo. Non già la Cina dei Tang o dei Ming, o quella più arcai del primo Imperatore, o quella del Kublai Kan visitata da Marco Polo, e riraccontata da Calvino, da un regista colto come lui era questo infatti che ci si poteva aspettare. Ma Ahang Yimou è regista di un genere fantastico assai di moda in Cina, rievoca tempi mitici con la leggerezza della fiaba e dei racconti aerei come una danza di arti marziali. In ogni caso la Cina portata sulla scena del Comunale di Firenze non era la Cina reale. Né di ieri, né quella del suo grande millenario passato, né quella di oggi. Ma una Cina di fantasia, tutta drappi svolazzanti e guerrieri che disegnano danzando coreografie marziali. Era un piacere degli occhi, come nei suoi film. La Cina di Cherstich suscita un piacere diverso, più complesso, fa pensare a noi, e al nostro futuro, mettendo sulla scena il futuro di una Cuina immaginaria, distopica, multietnica, che domina il vasto impero delle galassie. Città con grattacieli erbiformi, polpi femminei sospesi nel cielo. Tappetti scorrevoli che accolgono corpi nudi di giovani preparati per la decapitazione, teste mozze che galleggiano sui petali di fiori giganteschi. Robot femminei dalle molte braccia che agguantano i malcapitati giovani, li torturano, li consegnano al nastro che scivola verso la “cote”. Gira gira la cote, canta, infatti, il coro. Dove regna Turandot il lavoro mai non manca. 



Autobus che sembrano navette aeroportuali, taxi da Guerre Stellari, navicelle che navigano nell’aria, aeroplani spaziali che volano tra i grattacieli. E una nave spaziale a forma di drago è di fatti il palazzo imperiale di Turandot.





Forme meccaniche, animali, umane, vegetali, architettoniche sono tutte una sorta di cellulose mollicce, giocattoli molli, mobili, mutevoli. Potrebbe essere una delle città invisibili di Calvino dal nome di donna. E predominante, del resto, è l’incombenza di figure femminili, dalle teste che si assemblano nella testa del polpo gigantesco ai robot con facce femminili che con le braccia molteplici a forma di tentacoli avvolgono, agguantano le proprie vittime. In questo futuro senza tempo, in questo paesaggio proteiforme, la vicenda della principessa che sottopone alla prova di tre enigmi il principe che dovrà sposarla, vicenda immaginata all’origine da un poeta persiano, Turandot significa in iranico figlia di Turan, trasformata in fiaba cinese da Carlo Gozzi (ma prima dai francesi dai quali l’attinse), e messa in musica, oltre che da Puccini, anche da Busoni, più che l’utopia di un futuro terribile, un incubo, ci si presenta come il sogno attualissimo di libidini represse, di fantasie scatenate alle quali non si era avuto il coraggio di dare forma. Una sorta di Bosch del XXI secolo. 



Lo spettacolo visionario si combina perfettamente con la musica ugualmente visionaria. Gabriele Ferro libera, infattui, la partitura dalle tante pastoie sentimentali e tardoromantiche che hanno finito per sfigurarla, e l’accostarla se mai alle più estraniate ed estranianti armonie di un Debussy, alle rarefatte, ma spesso taglienti melodie di un Ravel. La musica acquista così uno spessore inusitato, un’intensità che tocca nervi profondi, immette l’ascoltatore in un universo sonoro ugualmente inquitante del proteiforme mondo visivo che gli offre la scena. Il cast risponde splendidamente alle richieste del regista e del direttore, evita pertanto qualsiasi accenno a una recitazione realistica. 



Voce tagliente, magnifica quella della Turandot diTatiana Melnychenko. Le si confronta con uguale squillo il Calaf di Brian Jagde. Entrambi piegano lo squillo a un fraseggiare flessuoso, variabile. Patetica, dolce la Liù-infermiera di Valeria Sepe. Giusti ciascuno nel proprio ruolo il Timur di Simon Orfila, le tre maschere di Vincenzo Taormina, Francrsco Marsiglia e Manuel Pieratteli. L’imponente Mandarino di Luciano Roberti e il solenne Altoum di Antonello Ceron completano magnificamente il cast. E Orchestra, Coro, Coro di voci bianche, hanno splendidamente contribuito al successo dello spettacolo. Qualche isolato dissenso è stato presto sommerso dal fragore degli applausi. Com’era giusto.

Palermo, 19 gennaio 2019



Nessun commento:

Posta un commento