venerdì 10 luglio 2020

Il moderno di sempre







CARTER | BEETHOVEN | MUMFORD
TEMPO E TEMPI
PINA NAPOLITANO
ODRADEK ODRCD378
1 cd



Accostare le ultime due sonate di Beethoven alla musica pianistica di Elliott Carter è una bella sfida. E intitolare poi la registrazione Tempi e tempi, titolo i una poesia di Montale, da Satura, amara, sconfortata, come tutta l’ultima poesia di Montale. “Non c’è un unico tempo: ci sono / molti nastri che … raramente s’intersecano”. In quel momento “si palesa la sola verità”. Ma “viene subito chi sorveglia i congegni” e “si ripiomba … nell’unico tempo”. Poesia di un’attualità che fa male. In questa nostra epoca che anela all’omologazione universale. In musica non è diverso. I tempi che s’intersecano sono appunto quelli in cui si palesa la verità, perché molteplici, non unici. E allora può succedere che Beethoven e Carter ci mostrino due facce di uno stesso rapportarsi con il proprio tempo: affidare la voce non all’appello che seduca, al lenocinio gradevole, ma al lavoro capillare del contrappunto, rendendo, apparentemente, quasi indecifrabile la pagina, e più simile al caos, al rumore, che al canto, la musica. Ma sta proprio in quell’intrico inestricabile, in quel rumore aggressivo, invece, la verità che si palesa, lo specchio che non deforma, perché ci butta addosso non una visione unica e gratificante della vita, bensì la complessa e coerente interferenza di più visioni. Pina Napolitano sembra amare le vie difficili. Lo Schoenberg che sembra uscire dal sentiero, in Elegy, un cd dedicato al concerto per pianoforte di Schoenberg accostato al terzo concerto per pianoforte Bartók. O Brahms the progressive, in cui le ultime pagine pianistiche di Brahms sono accostate a pagine pianistiche di Berg e di Webern. Tutte incisioni della Odradek. Pina Napolitano sembra volerci togliere dalle orecchie i filtri con cui individuiamo gli stili, le epoche, i compositori, per farci aggredire, più che dal suono, dal pensiero che genera un certo modo di elaborare i suoni. Allora ecco che si rivelano affinità insospettate, che non sono somiglianze stilistiche, ma impostazioni di pensiero musicale. Come in questo cd. Carter e Beethoven non hanno niente apparentemente che gli accomuni, salvo il fatto, non trascurabile, che compongo musica complicata, complicatissima, in qualche modo, appunto, aggressiva. E tuttavia d’impatto immediato, già al primo ascolto. Anche Carter, almeno per chi sia abituato a confrontarsi con le musiche del secondo novecento. E casca subito un pre-giudizio. Che questa musica sia calcolo di scrittura, ma inascoltabile, sgradevole, di fatto non musicale, un compito matematico, non una composizione. Niente di più falso. Come l’impatto emotivo della musica beethoveniana si appoggia in realtà su una scrittura complicatissima, elaboratissima, così la scrittura complicata, elaborata di Carter scatena anch’essa un immediato impatto emotivo. Soprattutto gli splendidi Two Thoughs about the Piano. Nelle Night Fantasies affiorano invece memorie del lavoro egualmente capillare di uno Schumann; schizzi fantastici che dello stile schumanniano non hanno niente, ma ricostruiscono a loro modo un affine percorso di miniature calibratissime. I Two Elliott Carter Tributes di Jeffrey Mumford completano, densamente, la trilogia novecentesca. Beethoven è affidato alle sue due ultime sonate. Un abisso di visionarietà interminabile, ma anche di struggente tenerezza, di capricciosa fantasia improvvisatrice, ed è tutta beethoveniana la sapienza con cui cui è misurata e controllata l’estrosità dell’improvviso che interrompe il tema cantabile nel primo tempo dell’op. 110, o la rudezza degli accordi che bloccano e chiudono il lamento dell’adagio prima della ripresa della fuga. Ecco, Pina Napolitano ci regala l’esperienza di cogliere già all’ascolto il pensiero che ha generato la musica. Tocco, fraseggio, dinamica non sono tanto strumenti di una volontà espressiva – anche! - ma soprattutto il grimaldello per sforzare l’architettura musicale e penetrare dentro il laboratorio del compositore, dove finalmente si riconosce la radice intellettuale anche del canto.







M. RAVEL J.F. BROWN L.ALEXANDRA
SONGS OF NATURE AND FAREWELL
HEMISPHAERIA TRIO
FEAT. ANDREA OLIVA

Da Vinci Classics C00239
1 cd

Il soprano Damiana Mizzi, il violoncellista Roberto Mansueto e il pianista Marcos Madrigal compongono l’Hemisphaeria Trio, che unendosi al flautista Andrea Oliva ha registrato un interessante ciclo di musiche da camera per voce e, appunto, pianoforte, flauto e violoncello. Un capolavoro assoluto, di una concezione addirittura visionaria, vista la data di composizione, 1926, apre il ciclo: le Chansons Madécasses di Ravel. Canzoni popolari del Madagascar tradotte in francese da Evariste Parny. Ravel non è nuovo all’assunzione di melodie popolari. Si pensi alle due splendide Mélodies Hebraiques. Alla Rapsodia spagnola, al Bolero, al jazz dei due concerti per pianoforte. Ma il suo non è l’atteggiamento etnomusicologico né di Bartók né di Falla. Non lo interessa l’assunzione di moduli estranei alla tradizione europea colta, ma vuole anzi inserire proprio all’interno di questa tradizione sollecitazioni che gli possono venire da mondi ad essa estranei. E’ l’orecchio a guidarlo, a cogliere gli accostamenti timbrici inusitati, le scansioni ritmiche irregolari, l’intonazione melodica di scale diverse dai modi e dalle tonalità europei. Se poi si tratta di lavorare su testi poetici, allora vi si aggiunge un lavoro sottilissimo di dizione musicale del testo. Nella Chansons madécasses sperimenta la possibilità di tradurre musicalmente il silenzio particolare dell’e finale francese, muta nel linguaggio parlato, percettibile in poesia e nel canto, con l’intento di equiparare il canto al parlato. Suscitò polemiche a non finire. E perfino proteste dei cantanti. Non ci riprovò più. Ma le tre canzoni sono una meraviglia. Non si sa se ammirare di più la sillabazione della voce o le combinazioni timbriche e ritmiche degli strumenti. Per certi versi in una partitura come questa si possono perfino intravedere gli esiti delle due Improvisations sur Mallarmé di Boulez, nel Pli selon pli. La rassegna del disco si conclude con un altro capolavoro raveliano: la seconda della canzoni di Shéhérazade, per voce e orchestra, del 1903, La flûte enchantée. Qui la parte orchestrale è trascritta per pianoforte, violoncello e flauto. In mezzo, tra le due pagine raveliane, due partiture assai diverse tra loro e diversissime da Ravel. I Songs of Nature and Farewell di James Francis Brown, del 2011, i tre testi tratti dalle Rimes familières di Camille Saint-Saëns, e Chant d’amour de la Dame à la Liocorne della compositrice rumena Liana Alexandra, su poesie di Etienne de Sadéleer. Ciò che maggiormente incuriosisce è scoprire Saint-Saëns poeta, e poeta niente male. Adieu è una poesia di una desolazione abissale, e Brown la rende bene. Ma strano a dirsi, e ancora più a sentirsi, queste musiche appaiono assai più datate di quelle di Ravel. E non perché nell’insieme rispettino l’andamento tonale – non sono i soli, oggi, a farlo – ma proprio perché l’armonia tonale non è adottata in maniera personale, inventiva. Sono pagine molto gradevoli, accattivanti, ma, per esempio, non appare particolarmente curata la scansione e dizione della lingua francese. Non è la prima volta che ascoltando accostate pagine di Ravel e pagine di compositori assai posteriori, il più moderno, il più nuovo risulta proprio Ravel. Bravissimi, comunque i quattro interpreti, assai precisi e fluidi, molto espressivo il canto, e lodevole l’intento di far conoscere pagine altrimenti poco conosciute al grande pubblico.





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