Una breve riflessione su ciò che possiamo e dobbiamo chiedere alla
scienza, per vincere la paura che troppi dimostrano di nutrire nei
suoi confronti
Un
amico, Lucio Malandra, si chiede da che cosa nasca questa rivolta
antiscientifica, questo movimento che vede anche nella scienza un
complotto ai danni della gente, e opporvisi lo interpreta come una
contestazione del sistema attuale di poteri - politici, economici,
sociali - che governano il mondo. Un altro amico, Adriano Lepri,
cerca una risposta e avanza l’ipotesi, suggeritagli da Jung, che la
perdita dei significati simbolici nella lettura del reale possa
esserne la causa. Pasolini avrebbe parlato di perdita del senso
sacrale della vita e del mondo, in una parola di perdita del sacro.
Scomparse religioni e ideologie, subentrerebbero le illusioni di
risposte immediate, semplici, a fenomeni che non si capiscono e,
soprattutto, non si controllano. Poiché sono, queste, riflessioni
che spesso hanno attravesato anche la mia mente, cerco di raccogliere
le briciole di quanto ho elaborato tra me e me in proposito. Eccone
un breve resoconto.
Quanto
scrive Adriano Lepri, la perdita di fiducia nei simboli, già
additata da Jung, è solo una parte, credo, della possibile
spiegazione. Jung va preso con le molle. La sua idea di archetipo
culturale è affascinante, ma non del tutto convincente. Non è
questo, tuttavia, lo spazio per dibattere problemi così complessi.
Butto perciò là un'ipotesi, solo un’ipotesi, di spiegazione, che
sarà certo parziale, e non esaustiva. Parto da lontano, perché da
lontano il problema si è posto alla riflessione degli uomini. Ciò
che la scienza da sempre propone, infatti, è la messa al bando delle
certezze, di ogni tipo di certezza, scientifica, politica, morale,
per inseguire con fatica una ricerca di spiegazioni comprensibili del
reale – inseguire, si badi, la ricerca di spiegazioni, non le
spiegazioni. Tra Ottocento e Novecento, la “fede"
positivistica nel progresso scientifico aveva assai poco di
scientifico, assomigliava di un più a una religione senza dio, non
direi laica, e già nel primo Ottocento Leopardi ironizzava su questa
fiducia incondizionata. L’atteggiamento scientifico è un’altra
cosa e lo riscontriamo già nei presocratici, vedi la negazione degli
dei e la ricerca di un principio naturale, anzi materiale, delle
cose. Platone ha poi cercato d'individuare lo spazio concettuale di
ciò che materiale non sembra, ma guarda caso lo cerca nella
matematica. Aristotele capisce che questa ricerca deve far capire
come la semplicità dei concetti astratti possa spiegare la
complessità del reale, e intravede due vie, una concettuale, e
l'altra sperimentale - il medio evo non capì questa doppia apertura
– scoprì, tra l’altro, il sistema sanguigno delle mosche, il suo
allievo e genero Teofrasto ci dà la prima classificazione delle
piante, quella degli animali l'aveva già schizzata Aristotele,
vertebrati e invertebrati, capì che balene e delfini non sono pesci
ma mammiferi, ecc. ecc., anche la teoria dei temperamenti ha radici
sperimentali, e il Problema XXX sulla malinconia anticipa intuizioni
della moderna neurobiologia. Il resto è la storia che ancora
viviamo. Aristotele dovette scappare da Atene, accusato, come
Socrate, di empietà. Ipazia, sette secoli dopo, fu sbranata e
scuoiata viva dai cristiani, perché sosteneva, tra l’altro, che
gli antipodi sono abitati e la gente non vi cammina a testa ingiù.
Quali le loro colpe, per gli ateniesi del IV secolo a. C. e gli
alessandrini del IV/V secolo d. C.? cercare una spiegazione
comprensibile e non mitica, del reale. Credo che questo sia il punto.
Non tanto la gratificazione dei simboli, quanto il rifiuto
dell'incertezza. La scienza non dà certezze, ma solo metodi di
ricerca. E la gente vuole invece certezze, sì e no, bianco e nero.
Il medico ti dice che il tuo cancro, per ora, non si può curare,
tutt'al più si può arrestare. Arriva uno e ti dice che ha trovato
il filtro per curarlo. La gente che fa? Crede al ciarlatano, perché
lo libera dall'incertezza di una soluzione della malattia e gli dà
la certezza di una guarigione, dunque lo libera dalla certezza
spaventosa della morte. La gente non solo vuole certezze, ma certezze
consolanti. Le certezze d’insuccesso, di morte, di malattia sono
rimosse, evitate, rifiutate. L'incertezza della guarigione fa inoltre
più paura della certezza della morte. Gli esempi possono continuare.
Accade anche nelle discipline umanistiche: anche qui una resistenza
ai metodi di ricerca critica, è talmente bello rifugiarsi nel
sentimento della poesia! Che importa se “Tanto gentile e tanto
onesta pare” non significa oggi quello che significava per Dante, e
chi se ne frega? a me mi emoziona così come la capisco. E’ questa
la risposta, compreso il rafforzativo a me mi, per ribadire qual è
il vero interesse. E così via. Probabilmente tutto ciò fa parte
della psicologia di massa, ma in Italia Croce e Gentile vi hanno
aggiunto un carico da undici: parte da loro, infatti, la svalutazione
del lavoro scientifico, in tutti i campi. ne paghiamo ancora le
conseguenze. Per esempio con un insegnamento vecchio, accademico, in
cui la scienza ha una parte risicata. Aristotele faceva esercitare i
suoi allievi nel disegno e nell'apprendimento della musica e li
obbligava a imparare i fondamenti della matematica. Poi, quando
diventavano cittadini, a 16 anni, impartiva loro i fondamenti della
logica e dell'analisi del linguaggio. Strano, ma questo sistema è
rimasto alla base delle scuole francesi, inglesi e tedesche. Che poi
hanno altri limiti e sono anch'esse in crisi. Cavour aveva immaginato
per l'Italia una scuola di orientamento soprattutto tecnico e
scientifico, come in Inghilterra. Ma poi ha prevalso l'orientamento
umanistico di De Sanctis. Ed eccoci qua! Scusatemi la lunga
digressione. Ma è quasi niente rispetto a ciò che si potrebbe dire.
Per esempio: le conseguenze politiche di questo rifiuto
dell'incertezza. Un tempo sia la DC sia il PCI non si mascheravano la
complessità dei problemi e formavano i propri politici in scuole
apposite per affrontarla, spiegarla ai cittadini. Oggi anche i
partiti preferiscono le semplificazioni facili e illusorie. Ed eccoci
qua! ;a la scienza propone certezze, dice qualcuno. Come i guaritori.
No, la scienza non cerca affatto la certezza. Chi se n'è illuso non
era uno scienziato. Problemi suoi. La scienza è ricerca di una
spiegazione comprensibile del reale, confortata dalla
sperimentazione, ma ogni scienza è sempre disponibile a rivedere le
spiegazioni acquisite (preferisco usare il termine spiegazione a
certezza). Wittgenstein, che era insieme filosofo e matematico, lo
riassume bene nell'aforisma: ogni spiegazione è un'ipotesi. Pensiamo
alle discussioni sui quanti, sulla teoria delle stringhe, sulle
probabili (probabili) infezioni contratte tra specie diverse
(spillover, travasi), oggi sappiamo che certi virus ci sono trasmessi
da certi pipistrelli, la malaria dalle zanzare, ma di altre malattie
cerchiamo ancora l'origine. Questa è la scienza, sempre disponibile
a rivedere e se nel caso a smentire le spiegazioni acquisite. E'
questo che io chiamo l’incertezza della scienza, il rifiuto della
verità definitiva, della certezza di un risultato ultimo. Ma questo
fa paura alla gente. E come, non posso saperlo? e come faccio, se non
lo so? No, non lo sai - per esempio, perché sulla terra si è
manifestata la vita e con la vita anche i virus, mica sono venuti
degli extraterresti a portarceli, e chi li ha visti? - con questa
ignoranza devi convivere, devi fartene una ragione, ti piaccia o no.
A molti non piace, e non riuscendo a procurarsi vere certezze,
cercano allora surrogati di certezze. E qui il discorso contemporaneo
si apre sulla incapacità, da parte di chi sa, di dare risposte a chi
le chiede. Bisognerà dire a tutti chiaramente: non abbiamo risposte.
Dovete imparare a vivere con problemi che non hanno risposte, che
ancora non si sono trovate, poi chi sa! Questo dovrebbe essere
insegnato fin dall'asilo nido, invece di dare per il momento risposte
provvisorie ai bambini, un contentino su due piedi solo per farli
stare buoni. Già i bambini devono invece sapere che non a tutto c'è
una risposta. Chiudo con una citazione letteraria. Nella sua ultima,
bellissima, tragedia, l'Edipo a Colono, Sofocle ci fa assistere a un
dialogo intenso, stupendo tra Edipo e Teseo. Teseo chiede a Edipo se
sapesse di commettere i mali che ha commesso. Edipo risponde che non
lo sapeva. Sono innocente del male che ho fatto, dice. Ma chiedo:
perché io? Teseo non risponde, si ode il canto delle Eumenidi nel
boschetto, Edipo ci va a incontrare la propria morte, seguito da
Teseo, a cui però chiede di non rivelare ciò che vedrà. La
tragedia finisce così: resta la domanda di Edipo: perché io?
Sofocle pone la domanda, ma come tutti i grandi drammaturghi non
risponde, perché la risposta non la sa. Il mito la chiama destino.
Ma il destino non è una risposta, non è una spiegazione, è una
certezza provvisoria. Ed Edipo non vuole certezze provvisorie, vuole
la risposta definitiva, ultima: perché io? Sofocle lo abbandona,
solo, con quella domanda che non ha risposta. Ecco, questo è un
atteggiamento non solo correttamente drammaturgico, ma che uno sta
alla base del rapporto razionale con il mondo, e due alla base anche
della scienza. E' questo non avere risposte, non averne nessuna che
risponda a tutte le domande, ciò che disturba la gente. Ripeto,
bisognerebbe cominciare da bambini, e dire ai bambini, quando fanno
domande terribili, a cui non sappiamo rispondere, che appunto non
sappiamo, non possiamo rispondere, che non abbiamo le risposte. Ma i
più, ne hanno paura. Preferiscono inventare qualsia risposta,
qualsiasi fantasia. Ma il bambino ci crede. E dopo sarà difficile
sradicare dalla sua mente la cognizione falsa, la risposta che non
risponde, perché dice tutto e non dice niente, perché propone una
soluzione immaginaria, inesistente, a un problema reale. E questa
paura, invece, dobbiamo sradicarla. Come dobbiamo sradicare la
risposta provvisoria, sbagliata, che illude, ma non spiega. Dobbiamo
sradicarla, perché in questa paura si annidano i germi di molti
comportamenti sbagliati dell’uomo, violenti, aggressivi, criminali:
si annidano le radici del razzismo, dell'intolleranza,
dell'incapacità di affrontare la complessità del mondo, di
riconoscere la problematicità irrisolvibile del reale.
Fiano
Romano, 12 luglio 2017
Analisi mirabile. Superfluo aggiungere una qualsiasi parola: tutto quanto scritto, per me, è ineccepibile. Una sola riflessione sulla conclusione: la gente preferisce credere ai ciarlatani perché la libera dalla paura della morte certa. È così, ma è tragicamente ridicolo. Fra tutte le incertezze della vita e della scienza, unica cettezza è proprio la morte, ineludibile, inevitabie. Dunque soltanto rinviabile, come, appunto, nel caso del cancro, o meglio, di alcuni tipi di tumore. Ed è ancora più buffo che, nell'illusione di sfuggire alla ineluttabile morte, affidandosi ai dulcamara di turno, si accelera l'appuntamento finale. Stoltezza somma degli esseri umani e sconfortante conclusione: con simili cittadini, quali esiti ci si possono aspettare dalle consultazioni elettorali? Da un simile popolo, quali governanti possono venire estratti?
RispondiEliminaQuelli che vediamo sugli scranni del Parlamento e alle poltrone dei ministeri.
RispondiEliminaGià.
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