Roma,
Sapienza, Università di Roma, Aula Magna
IUC,
Istituzione Universitaria dei Concerti
74a
Stagione musicale, 2018-2019
Sabato
6 aprile
Absolute
Chopin
Alexander
Romanovsky
Alexander
Romanovsky (translitterazione inglese di Александр
Романовский, Aleksandr
Romanosvskij) sta girando l’Europa e il mondo, Buenos Aires, Porto,
Roma, con un concerto interamente dedicato a Chopin.
Suonerà invece il
Secondo Concerto per pianoforte di Šostakovič
a Bournemouth, nel Regno Unito. In ogni caso un repertorio
interamente slavo. A Roma, il
6 aprile scorso, per
la IUC, Società
Universitaria dei Concerti, nell’Aula
Magna della Sapienza, di
Chopin ha
interpretato gli Studi op. 10 e op. 25, preceduti i primi dai tre
Notturni op. 9 e i secondi dalle quattro Mazurke op. 24. Entrambe le
serie di studi, cioè, precedute dall’opera che immediatamente
precede ciascuna serie.
Ciò ha un significato. I
tre Notturni op. 9 sono i primi che Chopin pubblica, e sono composti
tra il 1829 e il 1831. Gli Studi op. 10 furono composti tra il 1829 e
il 1832. Tra questi studi e l’op. 25, composti tra il 1829 e il
1836, Chopin compone e pubblica varie composizioni, tra cui alcune
fondamentali: i due Concerti per pianoforte, composti tra il 1829 e
il 1830; la Grande Fantasia su Arie Polacche op. 13, per pianoforte e
orchestra, del 1828; Krakoviak, Gran Rondeau de Concert op.14, per
pianoforte e orchestra, composto tra il 1827 e il 1828; Andante
spianato e Grande Polonaise Brillante op. 22 per pianoforte e
orchestra, ma oggi, come da Chopin stesso, spesso eseguiti anche
senza orchestra, composti tra il 1830
e il 1835; il primo Scherzo, del 1830-31; la prima Ballata, del
1831-35. Quindi
tutte queste musiche vengono composte tra il 1827 e il 1836. Le
musiche del concerto romano
tra il 1829 e il 1836. Non si riflette mai abbastanza che sono
musiche composte da
un giovane che ha
dai 19 ai 26 anni. Eppure
questo giovane ha già le idee molto chiare. L’attacco
del primo notturno op. 9 è sconvolgente: Chopin ha 19 anni, ne aveva
17 quando compone un altro notturno pubblicato solo postumo. E ha 19
anni quando attacca la composizione degli studi. Meno sorprendenti le
Mazurke
op. 24, perché
precedute
da altre tre raccolte: op. 6, op. 7 e op. 17, ma
dal punto di vista formale sono quattro mazurke magistrali.
Sia il notturno sia le mazurke smentiscono il luogo comune di uno
Chopin incapace di costruire forme musicali complesse, perché si
accontenterebbe di piccoli pezzi, per lo più
strutturati
nella forma cosiddetta di Lied, A B A. Non è vero. O meglio: è vero
che spesso la forma Lied sembra prediletta, ma Chopin la sottopone a
sorprendenti, nuovi, inusitate e sconvolgenti trasformazioni. Non
solo, ma non è ugualmente vero che sia refrattario all’elaborazione
e allo sviluppo di un’idea musicale. Spesso anzi la melodia si
ripresenta invariata solo nell’attacco della sua formulazione, come
nel primo Notturno op. 9,
per abbandonarsi poi a una vera e propria riformulazione del profilo
melodico, e – si badi – riformulazione, non abbellimento o
fioritura, l’abbellimento in Chopin assume sempre una funzione
strutturale, e non decorativa, come nel suo amato Bach, ma come anche
in Beethoven. Ed è vero che Chopin si mostra in genere estraneo alla
concezione musicale di Beethoven, ma è anche vero che ne assimila,
più forse di qualsiasi altro romantico, escluso Brahms, il
procedimento di una variazione, di una elaborazione continua
dell’idea musicale, al punto che tante idee apparentemente
secondarie si rivelano all’analisi, ma spesso anche al semplice
ascolto, sviluppo e derivazione di qualche inciso dell’idea
principale. Ritorniamo
alle mazurke. E alla quarta dell’op. 24. La sua costruzione è
strabiliante. Un procedere imprevedibile di variazioni, elaborazioni,
contrasti, varianti ritmiche. Ma il tutto tenuto insieme da una
logica inflessibile, che ad ascolto ultimato, ci fa esclamare che non
poteva andare diversamente. Una costruzione monumentale, come quella
di certi preludi bachiani, o di certi adagi beethoveniani. Ma
l’aspetto più nuovo, più sorprendente è il trattamento del
ritmo. La mazurka batte l’ictus generalmente sul secondo tempo
della battuta. Chopin talvolta lo sposta o vi trasvola, aggiunge
accenti secondari. Solo la discussione di questo uso liberissimo
del ritmo nelle mazurke richiederebbe un lungo, lunghissimo saggio.
Ma se mi sono soffermato su questo aspetto, è perché mi sembra che
sia stato tenuto presente dall’interpretazione di Romanovsky. Così
come il fatto che la ripetizione, invece che l’evoluzione o la
variazione, di un idea, soprattutto nelle mazurke, assuma esso stesso
un valore di sviluppo, di trasformazione, magari cambiando l’armonia
del riproposizione, ma soprattutto dimostri, più di quanto si creda,
la fedeltà di Chopin al canto popolare polacco. Bartók
non
si comporterà diversamente nei confronti del canto popolare
ungherese. Gli
Studi,
di questi diversi procedimenti costituiscono insieme
l’esemplificazione e la summa. Romanovsky li ha eseguiti senza vere
interruzioni tra uno studio e l’altro, come se costituissero
un’unica gigantesca pagina. Incoraggiato forse anche dal fatto che
entrambe le raccolte presentano una coerenza armonica straordinaria.
L’op. 10 comincia in do maggiore e si conclude in do minore. L’op.
25 comincia in la bemolle maggiore (il suo relativo minore è fa, la
cui dominante è do) e si conclude in do minore, che è uno studio di
arpeggi come il primo studio che inaugura l’op. 10, e così le due
raccolte si rispecchiano l’un l’altra, dal
capo della prima alla coda dell’ultima.
Organiche e coerenti relazioni armoniche legano anche ciascuno studio
all’altro all’interno di ciascuna raccolta. La scelta dunque di
suonarli quasi come un unico pezzo musicale non solo è giustificato,
ma appare assai convincente. Ma Romanovsky non si limita solo a
considerare ogni raccolta di studi come un’unica coerente pagina
musicale. Evita anche ogni insistenza enfatica, ogni abbandono
sentimentale. Il suo è uno Chopin asciutto, talora perfino duro,
scontroso, anche tenero, dolcissimo, ma mai sdilinquito. E
soprattutto non è mai trascurato il gioco fittissimo dl contrappunto
tra le parti. Qualche studio può perfino sembrare una parafrasi
(erano allora di moda, quasi un campo di battaglia per Liszt, a cui
gli Studi sono dedicati, o
più precisamente l’op. 10 a Liszt, l’op 25 all’amante di
Liszt, M.me la Comtesse d’Agoult)
e parafrasi di preludi del Clavicembalo Ben Temperato di Bach. Come
in Bach, anche
in Chopin l’idea del gesto musicale, del motto singolo, si fa
supporto dell’intera struttura di un pezzo.
A
un pubblico osannante, in un’Aula Magna stracolma, l’affresco di
Sironi che guardava giù nella sala, da una distanza siderale,
Romanovsky ha regalato due bis assai significativi: due studi di
Skrjabin, famossissimi, di quelli che strappano l’applauso quasi
più di un preludio di Rachmaninov (ma sono tanto più sostanziosi,
musicalmente), il primo dell’op. 2 e il 12° dell’op. 8. A breve
la Rivoluziomne d’Ottobre avrebbe spazzato via quel mondo, come
negli anni in cui
Chopin componeva gli Studi op. 10, le truppe russe, entrando a
Varsavia, decretavano
la fine di uno Stato polacco indipendente. Non c’è forse relazione
tra i due avvenimenti. Ma sicuramente la struggimento esasperato di
Skrjabin non può che apparirci come l’ultima manifestazione di
quel disincanto romantico che cerca invano di arrestare la
dissoluzione della vita, almeno di quella, brevissima, che si vive
quaggiù con dolore. Tutta la musica di Chopin, in fondo, non sembra
che un lungo addio alla vita, e proprio per questo la vita è
guardata con tanta tenerezza, ma anche con tanto, durissimo,
disincanto. Un
verso del grande poeta romantico inglese Keats lo dice meglio di
chiunque: When I have fears
that I may
cease to be.
Dopo Skrjabin, il mondo, e non solo in Russia, conoscerà ben altri
tipi di dissoluzione, ben altri orrori e crimini, e di questi orrori,
di questi crimini anche la musica non si farà più premonizione,
ma sarà, tremendamente, dolorosa, inguaribile memoria, basterebbero
i nomi di Šostakovič
e
di Schoenberg (Un sopravvissuto di Varsavia). Ma ce ne sono altri.
Tutti, chi più, chi meno, feriti dal dolore di vivere. Ricordiamo
tra tutti almeno un poeta: Mandel’štam.
Morto,
non a caso, in un gulag.
Fiano
Romano, 7 aprile 2019
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