domenica 7 aprile 2019

Absolute Chopin

Roma, Sapienza, Università di Roma, Aula Magna
IUC, Istituzione Universitaria dei Concerti
74a Stagione musicale, 2018-2019
Sabato 6 aprile
Absolute Chopin
Alexander Romanovsky

Alexander Romanovsky (translitterazione inglese di Александр Романовский, Aleksandr Romanosvskij) sta girando l’Europa e il mondo, Buenos Aires, Porto, Roma, con un concerto interamente dedicato a Chopin. Suonerà invece il Secondo Concerto per pianoforte di Šostakovič a Bournemouth, nel Regno Unito. In ogni caso un repertorio interamente slavo. A Roma, il 6 aprile scorso, per la IUC, Società Universitaria dei Concerti, nell’Aula Magna della Sapienza, di Chopin ha interpretato gli Studi op. 10 e op. 25, preceduti i primi dai tre Notturni op. 9 e i secondi dalle quattro Mazurke op. 24. Entrambe le serie di studi, cioè, precedute dall’opera che immediatamente precede ciascuna serie. 




Ciò ha un significato. I tre Notturni op. 9 sono i primi che Chopin pubblica, e sono composti tra il 1829 e il 1831. Gli Studi op. 10 furono composti tra il 1829 e il 1832. Tra questi studi e l’op. 25, composti tra il 1829 e il 1836, Chopin compone e pubblica varie composizioni, tra cui alcune fondamentali: i due Concerti per pianoforte, composti tra il 1829 e il 1830; la Grande Fantasia su Arie Polacche op. 13, per pianoforte e orchestra, del 1828; Krakoviak, Gran Rondeau de Concert op.14, per pianoforte e orchestra, composto tra il 1827 e il 1828; Andante spianato e Grande Polonaise Brillante op. 22 per pianoforte e orchestra, ma oggi, come da Chopin stesso, spesso eseguiti anche senza orchestra, composti tra il 1830 e il 1835; il primo Scherzo, del 1830-31; la prima Ballata, del 1831-35. Quindi tutte queste musiche vengono composte tra il 1827 e il 1836. Le musiche del concerto romano tra il 1829 e il 1836. Non si riflette mai abbastanza che sono musiche composte da un giovane che ha dai 19 ai 26 anni. Eppure questo giovane ha già le idee molto chiare. L’attacco del primo notturno op. 9 è sconvolgente: Chopin ha 19 anni, ne aveva 17 quando compone un altro notturno pubblicato solo postumo. E ha 19 anni quando attacca la composizione degli studi. Meno sorprendenti le Mazurke op. 24, perché precedute da altre tre raccolte: op. 6, op. 7 e op. 17, ma dal punto di vista formale sono quattro mazurke magistrali. Sia il notturno sia le mazurke smentiscono il luogo comune di uno Chopin incapace di costruire forme musicali complesse, perché si accontenterebbe di piccoli pezzi, per lo più strutturati nella forma cosiddetta di Lied, A B A. Non è vero. O meglio: è vero che spesso la forma Lied sembra prediletta, ma Chopin la sottopone a sorprendenti, nuovi, inusitate e sconvolgenti trasformazioni. Non solo, ma non è ugualmente vero che sia refrattario all’elaborazione e allo sviluppo di un’idea musicale. Spesso anzi la melodia si ripresenta invariata solo nell’attacco della sua formulazione, come nel primo Notturno op. 9, per abbandonarsi poi a una vera e propria riformulazione del profilo melodico, e – si badi – riformulazione, non abbellimento o fioritura, l’abbellimento in Chopin assume sempre una funzione strutturale, e non decorativa, come nel suo amato Bach, ma come anche in Beethoven. Ed è vero che Chopin si mostra in genere estraneo alla concezione musicale di Beethoven, ma è anche vero che ne assimila, più forse di qualsiasi altro romantico, escluso Brahms, il procedimento di una variazione, di una elaborazione continua dell’idea musicale, al punto che tante idee apparentemente secondarie si rivelano all’analisi, ma spesso anche al semplice ascolto, sviluppo e derivazione di qualche inciso dell’idea principale. Ritorniamo alle mazurke. E alla quarta dell’op. 24. La sua costruzione è strabiliante. Un procedere imprevedibile di variazioni, elaborazioni, contrasti, varianti ritmiche. Ma il tutto tenuto insieme da una logica inflessibile, che ad ascolto ultimato, ci fa esclamare che non poteva andare diversamente. Una costruzione monumentale, come quella di certi preludi bachiani, o di certi adagi beethoveniani. Ma l’aspetto più nuovo, più sorprendente è il trattamento del ritmo. La mazurka batte l’ictus generalmente sul secondo tempo della battuta. Chopin talvolta lo sposta o vi trasvola, aggiunge accenti secondari. Solo la discussione di questo uso liberissimo del ritmo nelle mazurke richiederebbe un lungo, lunghissimo saggio. Ma se mi sono soffermato su questo aspetto, è perché mi sembra che sia stato tenuto presente dall’interpretazione di Romanovsky. Così come il fatto che la ripetizione, invece che l’evoluzione o la variazione, di un idea, soprattutto nelle mazurke, assuma esso stesso un valore di sviluppo, di trasformazione, magari cambiando l’armonia del riproposizione, ma soprattutto dimostri, più di quanto si creda, la fedeltà di Chopin al canto popolare polacco. Bartók non si comporterà diversamente nei confronti del canto popolare ungherese. Gli Studi, di questi diversi procedimenti costituiscono insieme l’esemplificazione e la summa. Romanovsky li ha eseguiti senza vere interruzioni tra uno studio e l’altro, come se costituissero un’unica gigantesca pagina. Incoraggiato forse anche dal fatto che entrambe le raccolte presentano una coerenza armonica straordinaria. L’op. 10 comincia in do maggiore e si conclude in do minore. L’op. 25 comincia in la bemolle maggiore (il suo relativo minore è fa, la cui dominante è do) e si conclude in do minore, che è uno studio di arpeggi come il primo studio che inaugura l’op. 10, e così le due raccolte si rispecchiano l’un l’altra, dal capo della prima alla coda dell’ultima. Organiche e coerenti relazioni armoniche legano anche ciascuno studio all’altro all’interno di ciascuna raccolta. La scelta dunque di suonarli quasi come un unico pezzo musicale non solo è giustificato, ma appare assai convincente. Ma Romanovsky non si limita solo a considerare ogni raccolta di studi come un’unica coerente pagina musicale. Evita anche ogni insistenza enfatica, ogni abbandono sentimentale. Il suo è uno Chopin asciutto, talora perfino duro, scontroso, anche tenero, dolcissimo, ma mai sdilinquito. E soprattutto non è mai trascurato il gioco fittissimo dl contrappunto tra le parti. Qualche studio può perfino sembrare una parafrasi (erano allora di moda, quasi un campo di battaglia per Liszt, a cui gli Studi sono dedicati, o più precisamente l’op. 10 a Liszt, l’op 25 all’amante di Liszt, M.me la Comtesse d’Agoult) e parafrasi di preludi del Clavicembalo Ben Temperato di Bach. Come in Bach, anche in Chopin l’idea del gesto musicale, del motto singolo, si fa supporto dell’intera struttura di un pezzo. 




A un pubblico osannante, in un’Aula Magna stracolma, l’affresco di Sironi che guardava giù nella sala, da una distanza siderale, Romanovsky ha regalato due bis assai significativi: due studi di Skrjabin, famossissimi, di quelli che strappano l’applauso quasi più di un preludio di Rachmaninov (ma sono tanto più sostanziosi, musicalmente), il primo dell’op. 2 e il 12° dell’op. 8. A breve la Rivoluziomne d’Ottobre avrebbe spazzato via quel mondo, come negli anni in cui Chopin componeva gli Studi op. 10, le truppe russe, entrando a Varsavia, decretavano la fine di uno Stato polacco indipendente. Non c’è forse relazione tra i due avvenimenti. Ma sicuramente la struggimento esasperato di Skrjabin non può che apparirci come l’ultima manifestazione di quel disincanto romantico che cerca invano di arrestare la dissoluzione della vita, almeno di quella, brevissima, che si vive quaggiù con dolore. Tutta la musica di Chopin, in fondo, non sembra che un lungo addio alla vita, e proprio per questo la vita è guardata con tanta tenerezza, ma anche con tanto, durissimo, disincanto. Un verso del grande poeta romantico inglese Keats lo dice meglio di chiunque: When I have fears that I may cease to be. Dopo Skrjabin, il mondo, e non solo in Russia, conoscerà ben altri tipi di dissoluzione, ben altri orrori e crimini, e di questi orrori, di questi crimini anche la musica non si farà più premonizione, ma sarà, tremendamente, dolorosa, inguaribile memoria, basterebbero i nomi di Šostakovič e di Schoenberg (Un sopravvissuto di Varsavia). Ma ce ne sono altri. Tutti, chi più, chi meno, feriti dal dolore di vivere. Ricordiamo tra tutti almeno un poeta: Mandel’štam. Morto, non a caso, in un gulag.

Fiano Romano, 7 aprile 2019

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