L’eroe autistico
Le
seguenti riflessioni nascono dalla visione di un film: Coriolanus
di Ralph Fiennes, riscrittura geniale della tragedia di Shakespeare.
Nel
capitolo dedicato a Shakespeare, in Mimesis (Il principe
stanco), Erich Auerbach analizza come la commistione degli stili
inauguri nel teatro di Shakespeare una nuova concezione del sublime
tragico. La contrapposizione dell’eroe al resto del mondo non si
limita più a una distanza di classe, di stile anche linguistico, ma
introietta nell’eroe stesso una divisione che non è più o non è
solo psicologica o ideologica, bensì il banco di prova su cui si
scontrano le divisioni del mondo. L’ultimo Euripide già
configurava qualcosa di simile. Ma Shakespeare scalza via secoli di
confini stilistici tra i generi. Dal punto di vista strettamente
psicologico e ideologico, Coriolano non è un nemico del popolo,
della plebe, ma lo è anche dell’aristocrazia, alla quale
appartiene, lo è di sua madre, dalla quale dipende. E, nel profondo,
lo è di sé stesso. Non intrattiene rapporti condivisi con nessuno,
non con la moglie, non con il figlio, non con Menenio e gli altri
nobili. In qualche modo la madre non gli ha dato solo la vita, ma lo
ha modellato così com’è. Il tuo orgoglio lo hai preso da me, ma
la tua ostinazione è solo tua, gli dice Volumnia. L’ostinazione,
tuttavia, è l’unico strumento che ha Coriolano per opporsi a ciò
che gli altri vogliono fare di lui. E’ destinato a soccombere, e in
qualche modo la sconfitta è da lui stesso prevista, e dal momento
che la vede inevitabile, la cerca come una forma eroica di suicidio,
una riaffermazione della propria singolarità, della propria
solitudine, estraineità al mondo che lo vorrebbe adoperare per fini
che non lo riguardano. Beethoven lo ha intuito meglio di altri,
questo eroismo autodistruttivo. Anche se la famosa Ouverture non per
la tragedia shakesperiana, ma del Collin, vi si fissa musicalmente la
figura di un’ossessione, di una fuga dalla realtà, di uno scontro,
anzi, con la realtà stessa. La concisione monotematica corrisponde
all’idea ossessiva di un unico pensiero. L’unica persona che
Coriolano potrebbe amare è, però, il suo nemico, Aufidio, il quale
lo ricambia con una uguale, e come per Coriolano, anche per lui
fortissima attrazione, che perepisce reciproca, ma irrealizzata e può
darsi irrealizzabile, si vedrà perciò alla fine costretto ad
annientarlo, quest’oggetto di un odio ch’è amore, proprio per
lasciarsene possedere: My rage
is gone, / And I am struck with sorrow. Struggente,
quest’ultima scena, nel film di Fiennes. Aufidio abbraccia stretto
Coriolano, e sembra in quel punto che Coriolano non aspetti altro.
Aufidio gl’infilza il pugnale nel petto, e nello stesso tempo,
mentre Coriolano agonizza, lo bacia teneramente sulla tempia,
accompagna delicatamente la caduta dell’eroe morente, tenendolo
sempre avvinto, strettissimi, la bocca quasi sulla bocca, fino a che
l’eroe solitario, finalmente abbracciato, si stende per terra. Il
film si chiude qui. Tagliato il commiato finale e il discorso
celebrativo. Retrospettivamente questo amplesso illumina tutta la
vicenda: la solitudine di Coriolano trova una corrispondenza
sentimentale soltanto nel congedo dalla vita. Poco prima, alla madre,
Coriolano aveva detto: gli dei ridono guardando questo spettacolo
mostruoso. Lo spettacolo mostruoso è il cedimento alle preghiere
della madre, il salvataggio di Roma, la città che lo respinto,
cacciato e che lui ormai odia, perché deve odiarla, ma che forse
odiava anche prima, se ha potuto dire che più di ogni Romano,
l’unico con il quale si sentiva di potersi confrontare da uguale
era un non Romano: il Volsco Aufidio. E adesso, quasi con dolcezza,
si lascia morire tra le sue braccia. Coriolano è l’eroe dei doveri
negativi, dell’obbligo di compiere ciò che in realtà lo
distrugge, perché solo distruggendosi può rappacificarsi con un
mondo che lo rifiuta, perché in realtà Coriolano in quel mondo è
un estraneo, è anzi un alieno.
Non
è l’unica volta che nel teatro shakespeariano si affaccia
un’attrazione omoerotica. Il Coriolano è l’ultima
tragedia di Shakespeare, andata in scena probabilmente nel 1608, dopo
verranno i romances, Pericle,
il Racconto d’inverno,
la Tempesta. Otto o nove anni prima era andato in scena
The Twelfth Night or What You Will, la dodicesima notte o ciò
che volete, commedia tratta, tra altre fonti, da una bellissima
commedia degli Accademici Intronati di Siena, Gli Ingannati.
Nella prima scena del secondo atto, Antonio, un capitano albanese,
così parla della sua amicizia per il giovane Sebastiano, al quale
aveva salvato la vita:
The gentleness of all the gods
go with thee!
I have many enemies in Orsino's court,
Else would I very shortly see thee there.
But, come what may, I do adore thee so,
That danger shall seem sport, and I will go.
I have many enemies in Orsino's court,
Else would I very shortly see thee there.
But, come what may, I do adore thee so,
That danger shall seem sport, and I will go.
Aufidio
è più esplicito, e indirettamente cita la Bibbia: Samuele, II,
1,26. E abbracciando Coriolano, un abbraccio d’amizciia, questo,
mentre quello finale sarà di morte, una morte che sostituisce un
amore, impossibile tra i due, anche se solo tra loro due, forse, un
amore sarebbe amore, abbracciandolo, con il “cuore estasiato (rapt
heart) che gli balla nel petto”, Aufidio dice a Coriolano:
I
loved the maid I married; never man
Sighed
truer breath. But that I see thee here,
Thou
noble thing, more dances my rapt heart
Than
when I first my wedded mistress saw
Bestride
my threshold.
Il
lamento di David per la morte di Gionata, in questi versi, è citato
quasi alla lettera:
Io
sono in angoscia per te, fratello mio Gionathan;
tu
mi eri molto caro,
il
tuo amore per me era meraviglioso
piú
dell'amore delle donne,
che
Shakespeare, però, leggeva nella versione inglese:
I
grieve for you, Jonathan my brother;
you were very dear to me.
Your love for me was wonderful,
more wonderful than that of women.
you were very dear to me.
Your love for me was wonderful,
more wonderful than that of women.
Intorno
a questo scontro-incontro di due eroi solitari è costruita tutta la
tragedia. Come se la solitudine, l’isolamento di Coriolano non
potesse trovare altro sbocco d’intesa che in un abbraccio di amore
e di morte.
Ma
Shakespeare è drammaturgo e poeta assai più complesso che
l’ideatore di una vicenda che abbia una sola chiave
d’interpretazione. Coriolano è un isolato perché non sa mentire,
non sa dissimulare le sue passioni, come gli rimprovera la madre. E
la politica costruisce il successo solo sulla dissimulazione. Come
aveva già spiegato Machiavelli. Coriolano non dissimula il suo
disprezzo per la plebe, ma non nasconde nemmeno il suo disgusto per
gli intrighi politici della classe alla quale appartiene. Le tre
tragedie romane di Shakespeare, Giulio Cesare, Antonio e Cleopatra e
Coriolano, ruotano tutt’e tre sull’incertezza del favore
popolare, sull’ambiguità degli appoggi politici. Bruto e Antonio
strappano, uno dopo l’altro, in pochi minuti,
opposte reazioni dalla folla ad
entrambi di volta in volta plaudente,
odio per il tiranno Cesare e subito dopo odio per i tirannicidi.
Antonio, come Coriolano, soccombe anche
lui ai
colpi dell’astuzia politica, nel
suo caso
di Ottaviano, ma a differenza di Coriolano fa il tentativo di
misurarsi anche lui con questi giochi di astuzia politica, punta
le sue carte su un
matrimonio
conveniente.
Coriolano no, Coriolano
è
un puro. E
sta qui l’ironia tragica del personaggio, perché a perderlo sarà
proprio questa sua purezza, il rifiuto di scendere a compromessi, sia
con la plebe che detestata lo detesta, sia con gli aristocratici, che
lo giudicano superbo e che lui disprezza per la loro disonestà
politica. Sia
l’impacciata astuzia di Antonio, però, che l’ostinato rifiuto
dell’astuzia da parte di Coriolano sacrificano una donna: la
sorella di Ottaviano, Ottavia, e la “silenziosa” Virgilia, moglie
di Coriolano. E’ Coriolano stesso ad apostrofarla con questo
attributo: My gracious silence, hail ! (Atto II,
1)
Virgilia
è sorella di Ofelia, di Cordelia, di Ottavia, di Imogene, di tutte
le eroine shakespeariane che alla sopraffazione oppongono il silenzio
della propria tenerezza. In mezzo a questi rapporti che solo
apparentemente stringono un legame condiviso, la madre, la moglie, la
propria classe sociale, Coriolano intuisce che l’unico rapporto
stabile, l’unico
legame non
ambiguo, è il confronto
del condottiero con un altro eroe
militare,
del generale con il condottiero nemico. L’attrazione omoerotica non
è, allora,
che la manifestazione esplicita di un legame più profondo, alla
pari, tra due solitudini guerriere. E la solitudine guerriera è
a sua volta
una maschera dell’incapacità di rapportarsi agli altri. Tema
quanto mai shakespeariano. Lo troviamo, struggente, disperato, in
Amleto: “But
thou wouldst not think how ill all's here / about my heart: but it is
no matter” (V, 2).
Era la malattia
dell’epoca, la Malinconia, mirabilmente incisa da Dürer,
spiegata da Aristotele nel Problema
XXX, definita dai
medici del tempo. Oggi la chiameremmo depressione. Amleto n’è
consapevole. Coriolano no. Una sorta di estraneità alla vita, ai
giochi della vita, politici e amorosi. Prospero, dopo aver creduto di
potersene impossessare, abbandona gli strumenti di questo illusorio
possesso. Potrebbe anche essere il teatro, il regno dei sogni – e
degli incubi – la recita di un mentecatto, come crede Macbeth, o,
più genericamente, il gioco stesso della vita, come suggerisce As
You Like It. Ma
il soggetto che dovrebbe giocarlo, in un modo o nell’altro, ne esce
sempre sconfitto, anche quando, come Prospero, non
se ne lascia schiacciare, ma
lo abbandona. Non sappiamo se Shakespeare nutrisse in petto una fede,
c’è chi lo dice addirittura cattolico. Il suo teatro ci mostra un
cielo vuoto di qualsiasi presenza divina.
O se qualcuna se ne
può
figurare, è quella di dei che ridono dello spettacolo delle nostre
azioni, come Coriolano dice alla madre nel colloquio fatale. Forse ha
ragione Nadia Fusini (Di
vita si muore,
Mondadori, 2010) quando
scrive che qualunque spettatore alla vista di Lear che entra in scena
con il cadavere della figlia, alla fine della tragedia, troverebbe
assai improbabile in quel momento raffigurarsi una presenza divina
nei cieli, se si spalancassero. E’
questa solitudine, questa desolatissima solitudine, che anche nel
Coriolano, ci strazia, più che il cuore, la mente. Al punto che
proprio la solitudine, assunta non più come condizione inevitabile,
ma condensata volutamente nel rifiuto d’ogni rapporto con gli altri
e con il mondo, in una sorta di autismo dell’esistente nei
confronti dell’essere, finisce per essere, se non la medicina,
certo la fuga proprio dal dolore stesso di questa ineluttabile
solitudine del vivente, al quale, mutilato
d’ogni speranza, e sempre privato proprio di ciò che lo fa vivere,
gli dei ridenti non
lasciano altro scampo che l’annientamento, che lo sprofondare,
finalmente, nella quiete del nulla.
Mi
accorgo che sul film non ho finora
scritto nulla. Ma chiunque, vedendolo, potrà trovare conferma a
questa riflessioni che la sua visione mi ha suggerito. E’ uno
Shakespeare d’inaudita violenza, ma anche di disperata intensità
emotiva, di profondo struggimento con momenti di altissima tenerezza
e malinconia nella figura di Virgilia (Jessica
Chastain).
Vanessa Redgraves disegna
con efficacia impressionante la volontà di potenza della madre
Volumnia. Potrebbe quasi
sembrarci una raffigurazione della Regina Vergine, di Elisabetta.
Ma da parte della grande
attrice (come doveva essere anche la Regina) senza
mai andare sopra le righe, con fredda e calcolatissima discrezione,
ma anche con inflessibile fermezza. Solo quando Volumnia
vede crollarle addosso tutto il mondo che ha costruito
per il figlio, e lo vede
crollare proprio a causa
dell’ostinazione del figlio, i suoi occhi conoscono la debolezza
delle lacrime. Qualcuno ha trovato poco incisiva l’interpretazione
di Gerard Butler nella parte di Aufidio. Ma se
sta invece
lì tutta la
sua forza! E’ apparentemente un mediocre, rispetto al furore
protagonistico
di Coriolano, ma questa sua parte
di deuteragonista, questa sua parte
di uomo normale, con i piedi piantati per terra, l’opposto di
Coriolano, si direbbe, costituisce invece il modello perfetto di ciò
che Coriolano vorrebbe essere, un uomo normale, capace di amare, al
di là dell’odio, un
odio universale, un odio per tutti,
che sembra manifestare come passione prevalente. E segretamente,
commosso come da nessun altro, Coriolano intuisce che proprio da
costui, dal suo nemico, è amato per chi è, e non per ciò che si
vorrebbe da lui. In due momenti i due si riconoscono. Quando
Coriolano gli offre la propria alleanza, e Aufidio esplode in un
sussulto di gioia (il cuore estasiato
mi balla nel petto) e quando infine si lascia uccidere, e l’amplesso
mortale si fa, od è, quasi, o forse per intero, un amplesso d’amore.
Altro merito di questo film è il rilievo che assume il personaggio
di Menenio (Brian Cox).
Desolatissimo il suo
suicidio sulla riva del fiume. Ma poi c’è lui, Ralph Fiennes.
Incredibile la fluidità della sua recitazione, la musicalità con
cui intona – alla lettera: canta – il blank verse. Ma senza
enfasi, senza esibizionismi mattatori. Indimenticabile la ripetizione
di “boy”, ragazzo, moccioso, lanciata in faccia ad Aufidio per
spingerlo all’aggressione, per farsi ammazzare da lui e da nessun
altri. E la dolcezza disperata di quel “gracious silence”
sussurrato alla moglie. Infine la Serbia distrutta dalla guerra degii
Stati Iugoslavi come immagine delle guerre intestine di Roma. Ma
specchio, anche, delle guerre di oggi, sparse ai quattro angoli del
mondo, a ribadire la terribile contemporaneità di Shakespeare, che
quando parla dei Romani, o delle due Rose, o dei Capuleti e
Montecchi, sta sempre parlando di noi, e di noi, adesso. E non sembra
prevedere che gli orrori finiscano: ci sarà sempre un Senato che
opprime la plebe, due casate rivali che devastano e saccheggiano un
paese, clan mafiosi che si distruggono a vicenda. In mezzo, le
vittime, gli innocenti, quelli che non mentiscono: Romeo e Giulietta,
Riccardo II, Coriolano, e in fondo lo stesso Aufidio: I
am struck with sorrow.
Fiano
Romano, 1 aprile 2019
L'alienazione, direi l'alienita' rende ancor più sacrilego l'atto dell'eroe che di fatto non si immola ma trova nella morte il suo riscatto, anche verso se stesso. Penso che questo sia il senso del male di vivere, oggi più che mai: questo binomio attrazione/repulsione verso la morte. E non è detto che è contro natura. L'io e il me una volta divisi resteranno irrimediabilmente scissi.
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