lunedì 18 aprile 2016

I vicini, di Fausto Paravidino



Il teatro di Fausto Paravidino stimola lo spettatore a farsi molte domande. Nascono dal testo, e dalla recitazione. Ma non è il testo, né tantomeno la recitazione, a porle. Sono suggerite dal dialogo dei personaggi, dal comportamento dei personaggi. E’ il carattere che subito colpisce, di questo teatro. Che non fa domande, né tanto meno dà risposte. Ma da subito, dalla prima scena, colloca non solo i personaggi, ma anche lo spettatore, in situazioni che non contengono in sé nulla d’inspiegabile, di complicato, o di irrisolto, di problematico, e tuttavia sembrano interrogarsi sul perché, sul come, sull’esito della situazione, senza però dichiararlo esplicitamente, nessun personaggio dice: perché mi accade questo? che cosa significa? e che cosa ne verrà fuori? Le domande sorgono immediate nel cervello dello spettatore, senza che se ne accorga, quasi, e quando se ne accorge, hanno già preso corpo nella sua testa. I personaggi ne sembrano inconsapevoli: agiscono quasi per caso, o semplicemente agiscono, e basta, come facciamo noi tutti i giorni, a casa, per la strada, guidando un’automobile. Il teatro di Paravidino è un teatro profondamente problematico, che s’interroga e interroga il pubblico, sull’esistenza, sul suo significato, sulla convivenza, sui rapporti affettivi, o solo di conoscenza, di “vicinato”, ma nessun personaggio se lo chiede, o dà delucidazioni.  Le domande – e mai le risposte – stanno sempre, e solo, nell’azione teatrale pura e semplice. Come nei grandi classici. Shakespeare, prima di tutti. Ma anche i tragici greci. Sofocle non spiega mai perché a Edipo succede ciò che succede. Ma porta sulla scena le vicende di Edipo. Accade, allora, che Edipo si ponga alcune domande – quasi sempre sbagliate – e non trovi risposte. Quando la realtà stessa gli darà la risposta, e di tutt’altro genere da quella che Edipo si aspettava, Edipo sa, a questo punto sa, che nemmeno quella è la risposta. E chiude la propria esistenza con un’altra domanda, questa volta l’unica vera, l’unica giusta. Ma non la chiede agli dei, al fato, al destino; la chiede a un altro personaggio, a Téseo: “Non sapevo di uccidere mio padre e di accoppiarmi con mia madre. Ero dunque innocente di questi crimini. Ma perché io?” Lo chiede nell’”Edipo a Colono”. Naturalmente Téseo non conosce la risposta. E nemmeno il Coro. Che però così commenta: “La vita umana è infelice. Dunque meglio morire giovani. E meglio ancora, non nascere affatto”.  Non è una risposta. Ma è il significato della tragedia. Di ogni tragedia: che sorga una domanda simile: perché io? e un commento che non spiega niente, come quello del Coro. Il Destino della Tragedia non è una Divinità, o un’istanza soprannaturale, trascendente, incomprensibile. Ma ciò che accade a ognuno di noi. Gli dei greci sono immanenti, sono la realtà. Io, che sto scrivendo queste riflessioni, per esempio: perché nasco italiano, e da una famiglia d’intellettuali, mio padre matematico e mia madre insegnante? e nasco a Roma, non a Torino o a Venezia? potevo nascere in una famiglia povera, o ignorante, in un altro paese, magari in guerra, e non in pace come l’Italia. Ma il mio Destino è stato di nascere a Roma da un padre matematico e da una madre insegnante. Non l’ho scelto io, come Edipo non ha scelto di risolvere l’enigma della Sfinge: se l’è trovata sulla strada. Quanto al padre, lo ha ucciso perché gli sbarrava la via, non voleva lasciargli il passo, e lui non sapeva che quell’uomo, Laio, fosse suo padre. Come non sapeva che Giocasta, la donna concessagli in premio per avere sciolto l’enigma della Sfinge, fosse sua madre. E allora si capisce tutta la forza, l’ineluttabilità, della domanda finale: perché io? Edipo, al silenzio di Téseo, e degli dei – solo le Erinni lo chiamano: che aspetti? - si nasconde nel boschetto da dove lo chiamavano le Erinni, e si lascia morire. Nessuno sa la risposta. Ma tutti restano con quella domanda nel cervello, che rode l’animo: perché io? Proprio perché non ha risposta, la domanda turba, corrode l’animo.
Sembra un giro di divagazioni assai lungo, per riflettere sulla commedia “I vicini” di Fausto Paravidino.  E invece no, perché da queste riflessioni nasce un’osservazione essenziale: il teatro di Paravidino, come il teatro dei grandi classici del teatro, pone domande, anche inquietanti, ma non ha, non conosce le risposte a queste domande. Come non le conoscevano Sofocle, Euripide, Shakespeare, Calderón, Racine, Alfieri, Pirandello.  Per questo mi ha attratto subito, e vi ho riconosciuto lo stigma di un vero drammaturgo. Non è naturale nell’Italia di oggi. Capisco il suo successo in Francia, in Inghilterra, negli USA. Gli autori teatrali italiani di oggi, o di cinema, gli scrittori, e perfino i poeti italiani, salvo poche eccezioni, non solo le domande le esplicitano, le ripetono fino all’ossessione, ma danno anche le risposte e le spiegazioni delle risposte.  Perciò risultano così spesso prevedibili, banali, noiosi. Nel racconto di un film, di una commedia, sullo svolgimento del racconto prevale la spiegazione del significato del racconto. Spesso, in chiave ideologica. E sono caratterizzati in modo manicheo i personaggi:  positivi e negativi, buoni e cattivi. Talora con una conversione, un ravvedimento finale, o un sentimento “buono”, che salva il cattivo. La terrorista della “Meglio gioventù” si commuove e piange alla vista della bambina sua figlia. Ben altra durezza si trova in “Heimat” di Reitz, a ritrarre i terroristi. Ma anche i personaggi  “normali” di Heimat non sono definiti una volta per tutte. Perché non c’è una vera divisione tra buoni e cattivi. Ma una rappresentazione del “puramente umano”, direbbe Wagner. I personaggi di Paravidino hanno i nostri difetti, le nostre avversioni e le nostre simpatie, anche il nostro furore logico, se afferrati da una situazione che vogliono capire. Ma come noi non sanno le ragioni dell’avversione, o dell’attrazione, o della necessità di argomentare, di ragionare su ciò che avvertono e non capiscono. Il fantasma fa paura. Nessuno lo vede. Ma Greta lo avverte. E poi anche l’altra donna, Chiara, ne sente la presenza. Lo temono. E tuttavia potrebbe essere solo un’allucinazione, una proiezione di paure inconfessate o ignorate. Se esiste, la donna che abitava la casa dei vicini, potrebbe essere lei ad avere paura, come l’aveva quando era viva. Paura degli estranei. Perché gli altri, chi sa perché, fanno sempre del male. Magari è solo questa paura di lei che non c’è, che sorge ora nell’animo di chi c’è. Le domande potrebbero continuare. Come la diffidenza, e poi la simpatia, e poi di nuovo la diffidenza per i vicini. Il cibo li unisce, ma subito li divide. Come il sesso: scambio di coppia? Forse sì, forse no. Importante saperlo? Importa che il tradimento sia percepito, e in modo furibondo da uno dei personaggi: guarda caso, il vicino. Proprio il vicino di cui invece l’uomo della coppia, il marito di Greta, sospettava una tresca con la propria moglie. O davvero la tresca c’era stata? Ma in fondo che cosa sanno costoro l’uno dell’altro? e che cosa di sé stessi? E perché prima si attraggono e poi si odiano? I personaggi dialogano molto. E parlano anche dei massimi sistemi. Di Dio, per esempio. Apparentemente come se ne parla spesso in conversazioni private tra sconosciuti, o al bar. Dio, o il capo del governo, il calciatore famoso, fa lo stesso. Se ne sa soprattutto lo stesso, di Dio, quanto se ne sa del calciatore e del capo del governo. E rimasta sola, la vecchia vicina, il fantasma, nello spazio (abusivamente?) abitato dalle due nuove coppie, sembrano calmarsi le sue inquietudini, tornare il silenzio, la pace, in quello spazio, ch’era stato abitato da uomini così umorali, così fragili e così pericolosi. Ora, abitato da un fantasma? dai morti? Buio. Non lo sapremo mai.
Lo spettacolo, prodotto dal Teatro Stabile di Bolzano, vede lo stesso Paravidino nel ruolo del marito. Io l’ho visto al Piccolo Eliseo di Roma, mercoledì 13 aprile. Ho provato una grande emozione e un piacere intellettuale profondo. La recitazione di Paravidino cattura subito, per un che di estraneo, di non accademico, l’accento marcatamente genovese, ma senza caricatura. Leggera, anche, la recitazione di tutti gli altri attori, Iris Fusetti che fa Chiara, Davide Lorino il vicino, Sara Putignano, Chiara, e Barbara Moselli, la vecchia. La regia è dello stesso Paravidino. Scene di Laura Benzi. Costumi di Sandra Cardini. Luci di Lorenzo Carlucci. Dura un’ora e quaranta minuti senza intervallo. E’ stato scritto che si pensa al teatro inglese. In parte, è vero. Ma anche a Woody Allen, soprattutto per la recitazione di Paravidino, che tuttavia sembra mirare più in alto. Però, scrittura e recitazione appaiono tipicamente italiane. Per fortuna, non quelle abituali di oggi. Sembrano cadere quasi per caso, le battute. nessuna enfasi, nessuna sottolineatura, e soprattutto nessuna imitazione sciatta del parlato. O se può sembrare parlato, è un parlato tra parentesi, sopra le righe, che fa cogliere ogni virgola del testo. Ma fa cogliere, in particolare, la presenza di un sottotesto che non viene mai esplicitato. Si resta inchiodati alla poltrona, senza tirare il fiato. Si prova quasi disagio. Si ride, anche. Ma con la strana sensazione che si sta ridendo di sé stessi. E sorge una domanda, la domanda: chi sono, i personaggi, e chi siamo noi che li ascoltiamo parlare? Ci assomigliano? sono come noi, un nostro doppio? Ma veramente ci comportiamo così? E ci accusano? ci additano agli altri, a noi stessi? Tutte queste domande restano senza risposta. Ma ci si accorge che l’importanza di ciò che si è visto e ascoltato non sta nelle domande - implicite, ripeto, mai esplicite – che la commedia ci ha fatto sorgere nel cervello, bensì, appunto, nel fatto che siano sorte, che ce le siamo poste, che ci siamo sentiti obbligati a porcele. E che il senso, forse il senso più profondo, della commedia stia qui: nell’inquietudine di quelle domande che non hanno risposta, non possono avere risposta, ma che sono sorte spontanee nel nostro cervello assistendo alla commedia. Se non è questo vero teatro, che cosa è teatro?
Dino Villatico
Fiano Romano, 18 aprile 2016

Nessun commento:

Posta un commento