Teatro Potlach di Fara in
Sabina
Autunno
a Teatro
Festival
2019
Immigrant
song (2.0) Compagnia Hellequin (L’Arlecchino errante)
23
novembre 2019
La
pioggia battente ha scoraggiato gli appassionati di teatro che
frequentano il Teatro Potlach di Fara in Sabina ad affrontare la
strada che dai borghi vicini conduce al bel borgo sabino arroccato su
una collina, e al teatro proiettato sulla sommità della stessa,
dentro le corti di un antico palazzo. Peccato. Hanno perso
l’occasione di confrontarsi con una sorta di saggio sul senso del
teatro oggi. E non spaventi il termine “saggio”, niente di
didattico o di noiosamente accademico, ma un esempio di come uno
spettacolo possa raccogliere in sé lo studio di una lunga,
lunghissima tradizione (quella della commedia dell’arte) e insieme
proiettarsi sulle angosce dell’oggi. Si tratta di Immigrant song
(2.0) messo in scena dalla Compagnia Hellequin, di Pordenone, regia di Ferruccio
Merisi, attrice Lucia Zaghet. Il filo rosso dello spettacolo è una
fiaba di Saramago sulla fine del mondo (dell’Occidente).
Il
titolo rimanda a una famosa canzone dei Led Zeppelin. Nella quale
invero si parla dei vichinghi, non dei migranti africani. Ma tant’è.
Il succo è lo stesso. Intorno alla fiaba, però, Merisi e Zaghet
costruistono una complessa rete di racconti, simboli, gesti teatrali,
rappresentazioni della memoria come manifesto dell’oggi. E Lucia
Zaghet è magnifica nel prestare il proprio corpo, la propria voce,
alla costruzione di questi simboli. Appare, all’inizio, come un
Pulcinella ripiegato su sé stesso. Che ogni tanto fa smorfie di
dolore che si convertono in una risata liberatoria di gioia quando da
sotto il suo mantello bianco spunta, come in un parto – e il genere
della maschera è abolito! -, un mandolino.
Lucia
Zaghet ricostruisce la recitazione stilizzata, tutta mosse, e gesti,
della commedia dell’arte. Anche la voce ha gesti. La risatina è
quella tradizionale di Pulcinella. L’ascoltavo bambino al Pincio,
dai burattini che lì vi si esibivano ogni domenica. Ma la mimica
stilizzata, invece di attenuare, inacerbisce il senso della
rappresentazione, perché ne fa non un caso singolo, realistico, di
questo e di quell’individuo, di questo o di quell’evento, ma una
storia universale, proprio nel senso in cui dice Aristotele che la
tragedia (leggi: il teatro) è più universale della storia. Piano
piano la favola del re che vuole il deserto intorno a sé e la storia
del migrante che muore dentro un TIR si mescolano, si confondono.
L’età mitica e l’oggi ci assalgono, ci violentano, con u
racconto che non è più qualcosa di lontano da noi, ma qualcosa che
ci riguarda, e molto da vicino. Il sasso che si sporca di sangue per
il povero ammazzato e il sangue che diventa mare, sono uno specchio
tutt’altro che assolutorio dell’oggi.
Pochi
oggetti occupano la scena: un carrello della spesa, come se ne vedono
nei supermercati (e diventa la pancia del TIR dentro cui muore il
migrante, allusione forse al paradiso perduto del consumismo
occidentale, irraggiungibile dagli esternamente esclusi), casette di
presepe, pupazzi, e altri oggetti, che alla fine Pulcinella rimette
alla rinfusa nel carrello, e se ne va via di scena, togliendosi e
togliendoli alla vista dello spettatore – occidentale. Ma
Pulcinella, levandosi la maschera aveva prima fatto intravedere una
seconda maschera, non nera, bensì marrone, ch’è la maschera del
migrante. E così le due maschere, quella dell’escluso,
dell’emarginato Pulcinella, e quella del migrante - un Brighella,
un Truffaldino? - finiscono con il sovrapporsi, con l’immedesimarsi.
La trasformazione di Pulcinella in Migrante è furibonda, una danza
scatenata, come s’immaginano le danze degli africani, il danzante
sempre di spalle.
Ma
l’operazione più interessante è quella di avere separato l’attore
dalla figura che l’attore rappresenta. La maschera dell’arte
diventa così un segno, un simbolo visivo del teatro stesso, in cui
la verità della rappresentazione sta nell’altro che l’attore
rappresenta. Diderot scrive, in una bella pagina sul senso della
musica, che il canto gli pare sempre una stilizzazione del grido.
Ecco: Diderot coglie l’essenza di qualsiasi arte, anche di quella
che apparentemente si avvicina di più alla vita, che sembra imitarla
più da vicino: il teatro. Perché la verità della rappresentazione
non sta nella realtà alla quale la rappresentazione allude, bensì
nella rappresentazione stessa, cioè nella stilizzazione del reale.
Il canto non è il grido, ma la sua stilizzazione. La vicenda del
migrante, o la fiaba del re che vuole desertificare il mondo (da
Saramago), non sono l’oggetto della rappresentazione. L’oggetto
della rappresentazione è Pucinella che, sulla scena, rappresenta la
fiaba e la storia del migrante.
Bravissimi
Ferruccio Merisi, il regista, e Lucia Zaghet, l’attrice, a farcelo
capire. Il pubblico si lascia conquistare fin dall’inizio e alla
fine esplode in entusiastiche ovazioni, prima di tutto alla
bravissima Zaghet, ma anche a tutto l’emozionante e coinvolgente
spettacolo. Quando si esce, commossi, e pensosi, la pioggia cade
ancora, e battente, furibonda più di prima.
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