sabato 8 febbraio 2020

Schumann, L'Album per la gioventù secondo Maurizio Baglini







Robert Schumann
Album für die Jugend
Maurizio Baglini

Decca 481 9027
2 cd


Schumann è compositore di una complessità quasi insondabile. La sua musica, nonostante questa complessità, ha però sempre, o quasi, un impatto immediato sull’ascoltatore, che se ne lascia conquistare, anzi affascinare, sommergere. Anche l’analisi più sottile non coglie tuttavia che una parte degli infiniti suoi livelli di costruzione e di significazione. C’è un argomento, per esempio, che soprattutto in Italia, si trascura sempre, o quasi sempre: la crittografia che si cela nella sua scrittura. Eric Sams, che, durante la seconda guerra mondiale, fu tra i decrittatori del codice Enigma dei nazisti, ha dedicato, come musicologo, un libro alla crittografia schumanniana (altri ne ha scritti su Brahms ed Elgar, ed uno generale proprio sulla crittografia musicale): Il tema di Clara, Asti, Analogon, 20102. Indispensabile, come introduzione generale alla crittografia musica, il suo Musica e codici cifrati, Asti, Analogon, 2010. (Per la bibliografia e i riferimenti alle edizioni originali rinvio alle pubblicazioni italiane di Analogon, che si avvalgono della bella traduzione di Erik Battaglia).

Ora, mettiamo pure da parte la crittografia segreta di Schumann, che comunque ha una funzione e un valore significante non inferiori alla funzione e al valore della numerologia nella Commedia di Dante e nella musica di Bach. Ma consideriamo che, per esempio, le citazioni da sé stesso e da altri musicisti non sono mai casuali, bensì introducono anch’esse una significazione, intellettuale ed emotiva, di peso non inferiore al respiro melodico, all’originalità armonica, alla particolarità ritmica. Insomma, alla costruzione di una pagina musicale di Schumann, anche la più semplice, la più elementare, concorrono molti fattori, e nessuno è più importante dell’altro. In questo, veramente Schumann è la prima figura di compositore intellettuale, nel senso moderno del termine, e sembra quasi un compositore d’avanguardia. Non a caso amatissimo, per esempio, da Berg, anche lui patito di calcoli musicali e di crittografie. La Fantasia in do maggiore op. 17 ricava il suo tema d’attacco, che comunque percorre l’intera composizione, dal ciclo liederistico An die ferne Geliebte di Beethoven. Non è un rinvio casuale, ma l’affermazione di una continuità, come a dire che dopo Beethoven la musica non è più la stessa. Qualcosa di analogo esprime l’evocazione bachiana nello struggente Adagio della Seconda Sinfonia.

Ma veniamo a questo Album per la Gioventù interpretato da Maurizio Baglini. Schumann dedica molte sue pagine all’infanzia, alla gioventù. Ma mentre le Kinderscenen, Scene infantili, sono il mondo infantile guardato dall’adulto, l’Album per la gioventù vuole dare la parola ai bambini e agli adolescenti, guardare il mondo con i loro occhi. L’Album per la gioventù ha un intento didattico. E’ diviso in due parti, la prima für Kleinere, per i più piccoli, la seconda “für Erwachsenere“, per i più adulti. Vuole condurre per mano il giovane pianista dal semplice al complesso, insegnargli a capire il moderno, la sospensione della melodia, la melodia non più in equilibrio tra un’ascesa e una discesa, l’armonia inattesa, o senza di conclusione, il contrappunto come gioco fantastico, la libertà asimettrica del fraseggiare o se ingabbiato in una simmetria, la sua irregolarità all’interno di essa. Ma, come per Bach, per Chopin, e poi per Bartók, l’intento didattico, invece di mortificare l’invenzione poetica l’accende, la incrementa. Non solo, ma in qualche modo tutti i pezzi sembrano generati dal primo, in ciò seguendo un principio costruttivo al quale Schumann resta fedele per quasi tutta la sua opera. L’opera non si presenta come una successione di vere e proprie variazioni, ma di sviluppi, varianti, fantasie da un’idea di partenza. Anche qui la lezione beethoveniana è profondamente assimilata. Ma piegata anche a esiti assai diversi: il rigore dell’invenzione è celato, per sortire l’effetto apparente di un’improvvisazione. Non che da Beethoven tale procedimento sia ignorato, si pensi solo al primo tempo dell’op. 101 o 109. O alle Bagatelle, soprattutto le ultime, già quasi pre-schumanniane, o più esattamente, ricche di spunti per l’invenzione musicale di Schumann. Il filo che collega i pezzi è però facilitato dalla semplicità dell’idea di partenza, una scala discendente che copre una sesta, dalla mediante alla dominante della tonica di do maggiore, da mi a sol. Con inversioni, retrogradazioni, varianti: la scala è deviata, spezzata da varie figure melodiche tradizionali e da abbellimenti, da diversioni su altri gradi, da procedimenti d’inversione e retrogradazione, insomma da tutti gli artifici del contrappunto: così che l’idea si dimostra di una fertilità insospettata. 

 

Come tutti i grandi artisti Schumann non ha bisogno di accumulare un diluvio di idee diverse e assemblarle, infittirle. Gli basta una sola idea dalla quale la fantasia estrae poi altre, molte e inesauribili idee. E’ il principio che unisce, come in Haydn, in Beethoven, l’idea di variazione con l’idea di sviluppo da una stessa figura tematica. Anche questo, è un procedimento imparato soprattutto dall’ultimo Beethoven. Schumann inventa, come pochi altri musicisti romantici, forme nuove, anzi nuovissime, ma queste forme sono intrise tutte di memoria, costruite su una tradizione ineliminabile, che volendo, almeno per lui, può farsi partire dal contrappunto fiammingo. Non è un caso, del resto, che la rinascita dell’interesse per Palestrina, allora sentito non a torto come il culmine della tradizione fiamminga, cominci proprio in Germania. Come poi sarà, nel tardo ottocento, e nel primo novecento, la “riscoperta” di Verdi, non più sentito come esempio di musica più rudimentale rispetto a Wagner, bensì come un’altra via del moderno, e proprio quando in Italia si tendeva invece ancora a considerarlo irrecuperabilmente inferiore. Si potrebbe aprire qui una lunga digressione sulla perenne incomprensione degli italiani per le figure più europee di italiani, si pensi solo, nel Novecento, a Svevo e Pirandello, capiti, e apprezzati, all’inizio, più in Francia, in Germania, in Inghilterra, e perfino negli Stati Uniti (Greta Garba girò un film da Come tu mi vuoi), che in Italia, dove non solo il lettore, il pubblico, ma perfino la critica. in particolare Croce, o se ne teneva a distanza o li stroncava. La cultura tedesca ha, invece, un profondo e radicale senso della trasformazione che il presente impone al passato. Se non si tiene presente questa costante culturale della società tedesca non s’intende il classicismo di un poeta rivoluzionario come Goethe, l’attenzione di Bach a Frescobaldi, e la quantità incommensurabile di musica rinascimentale, barocca, classica e romantica che innerva le pagine di innovatori come Schoenberg, Berg e Webern.

Prendiamo uno dei primi pezzi di quest’Album. E uno dei più semplici, almeno all’ascolto. Il 16°: Erster Verlust, Prima Perdita. Scrive bene Baglini, nelle bellissime note che accompagnano l’incisione, che Schumann non ha un’immagine serena, idilliaca, dell’infanzia e dell’adolescenza. Ma ci rappresenta un mondo complesso, intimamente fratturato, che ha certo i suoi momenti di gioia, e perfino di esaltazione, ma che nel fondo è un mondo doloroso, disincantato, intriso di sofferenze e lacerazioni, non diversamente dal mondo degli adulti. In questo Schumann è modernissimo. Freud non farà, infatti, per esempio, che confermare la giustezza delle intuizioni schumanniane. E non diversamente, dopo, un Piaget. Ma anche retrocedendo addirittura ai primi secoli del cristianesimo, basterebbe leggere le prime pagine delle Confessioni di Sant’Agostino per vedersi demolire la zuccherosa e falsa idea che troppi hanno ancora dell’infanzia. l’idea di una diversità, di un’innocenza primordiale del bambino, è recente, anche se diffusa. Gli psicologi moderni si ostineranno, giustamente, a ribadirne l’inconsistenza e e l’illusorietà. In tal senso, i nostro nonni, e anzi addirittura i bisnonni, i bisavoli, trisavoli, in una parola i nostri antenati, capivano il bambino più di noi. C’è un bellissimo libro, di Philippe Ariès, sulla costruzione moderna dell’immagine edulcorata del bambino. Le fiabe di orchi e streghe cattive, che raccontavamo nei secoli scorsi ai bambini. non spaventano affatto i bambini, spaventano gli adulti che suppongono, erroneamente, che i bambini debbano restarne spaventati, perché non sanno confrontarsi con la durezza della realtà, non capiscono anzi niente di com’è fatta la realtà.

Ora, qui, in questo breve, immenso, capolavoro, ch’è Verlust, Schumann vuole raccontarci invece il dolore infantile della perdita, del distacco. E ci dice che questo dolore non è diverso dal dolore dell’adulto. Freud in una pagina bellissima dell’Interpretazione dei sogni demolisce e deride gli adulti che deridono i bambini quando piangono per la perdita del palloncino. E dicono al bambino: ma è solo un palloncino! Questi adulti, per Freud, non capiscono niente del bambino, ma soprattutto non capiscono niente di che cosa sia il dolore di una perdita. Perché non è la cosa perduta che fa male, ma il fatto che la si perda. E’ il perdere, la sofferenza, non ciò che si perde. Allora tra il dolore per la perdita di un palloncino e quello per la perdita dell’amata la differenza sta tutta e solo nell’oggetto della perdita non già nel dolore di perdere.

L’idea di partenza di questo piccolo gioiello è una variante della sesta discendente del primo brano, il quale s’intitola non a caso Melodie, melodia, come a significare che dalla melodia nasce tutta la musica; in questo caso, però, la scala non è esposta in do maggiore, bensì in mi minore, e va dalla mediante, sol, alla dominante, si. Il percorso è lo stesso, dalla mediante alla dominante – da qui il senso di ripetizione, di variazione, modulazione a un’altra tonalità e a un altro modo. Ma la scala non viene esposta per gradi congiunti, bensì con una figura che sarà molto cara a Mahler, e che risale al contrappunto rinascimentale, Praetorius la chiama “messanza”, una seconda discendente seguita da una seconda ascendente, nell’ambito di una terza che si appoggia sulla sensibile re diesis. La sinistra risponde con un’altra terza, però diversa, mediante tonica, a ribadire l’intervallo, ma a far sentire la differenza di due voci distinte. La destra ripete subito la terza, ma partendo dalla tonica e scendendo alla sesta, quasi a configurare il relativo maggiore di do. La terza diventa tuttavia una quarta alla sinistra, tonica dominante di sol maggiore, anch’essa ripetuta dalla destra, ma dalla tonica alla dominante di mi minore. Di nuovo è insistita la diversità delle voci, nella somiglianza delle imitazioni. La sinistra ripropone quindi la terza, sol mi, sulla tonica di mi minore. E abbiamo coperto le quattro battute della scansione tradizionale di un’esposizione di melodia, o di tema. Da questi soli elementi si sviluppa il resto del brano. Sono due voci che si combinano e si contrastano in contrappunto. Ciò che emerge all’ascolto è soprattutto questo combinarsi, rispondersi, contrastarsi di melodie. Le melodie però s’inseguono, ma non s’incontrano, sono simili, ma non uguali, sembrano unirsi nell’attaccare uno stesso motivo, ma poi la melodia procede per altri sviluppi. Siamo nel territorio del contrappunto imitato, ma le voci tendono a restare disgiunte, a non soprapporsi, si alternano invece di combinarsi. Sopraggiungono, a conclusione, pochi accordi netti, spietati, nei quali il contrappunto, e dunque la combinazione delle voci, non è abolito, ma è assorbito dall’omoritmia, il dialogo, che comunque non aveva mai conosciuto una vera combinazione, piuttosto che concludersi s’interrompe.

Si poteva dare immagine più dolorosamente efficace di una perdita e della sua ineluttabilità? La musica, per Schumann, racconta sentimenti, idee, avvenimenti. Ma non con effetti esteriori, plateali, d’imitazione realistica, che in musica risulta quasi sempre banale, puerile nel senso denigratorio del termine. Bensì solo attraverso procedimenti musicali che si sono sedimentati nella tradizione, proponendo figure convenzionali pressoché utilizzate da tutti i musicisti. Insomma, c’è una vera retorica musicale, e come la retorica letteraria si avvale non di supposte copie della realtà - la realtà non è riproducibile da nessun linguaggio - bensì dalle figure convenzionali di una tradizione attraverso la quale musica, poesia, pittura, scienza (sì, anche la scienza: la matematica è un codice che decritta le leggi del reale, non è la realtà) alludono alla realtà.

Ecco, tutto l’album è concepito con la stessa, costante tensione emotiva ed intellettuale. Ed è proprio questa tensione che Maurizio Baglini vuole restituirci. Intanto, l’esecuzione progressiva di tutti i brani ci rivela come tutto l’album sia un progetto unitario, un’architettura musicale in cui i singoli elementi - i diversi brani - costruiscono insieme l’edificio sonoro. E poi, la scelta espressiva di questa esecuzione. Ritorniamo al brano sommariamente analizzato, Verlust. Le due voci sono affidate alle due man; le melodie, anche se combinate per imitazione, non passano mai da una mano all’altra, quasi a proiettare fisicamente, anche nella separazione delle mani, la separazione della perdita. Baglini non usa, infatti, lo stesso tocco per le due mani. La sinistra ha un tocco più fievole, più lontano. Si sta perdendo. Il tocco è uniforme, forte, secco, duro, per l’ultima volta, solo negli accordi finali che sanciscono l’inesorabilità della perdita. Ecco una maniera di realizzare con il tocco e con la dinamica lo svolgersi del contrappunto. L’idea che una melodia sia qualcosa di continuo, e che vada sostenuta da un accompagnamento, come il senso comune intende la melodia, è distante anni luce dall’idea che Schumann vuole dare di una melodia, e di come cantarla.

E’ un altro mondo, mediterraneo, se si vuole, cattolico, che ha il canto gregoriano, e più ancora il teatro, per radice e per modello. E’ un mondo che non appartiene al mondo di Schumann, che alle origini ha la melodia del corale luterano a quattro voci. E’ lì che la tradizione italiana si separa da quella del nord. Entrambe affondano, certo, le radici nella monodia gregoriana, ma nel nord ricreata dal contrappunto fiammingo, in Italia, dopo la splendida stagione contrappuntistica rinascimentale franco fiamminga, prevale, con il recitar cantando, il senso monodico della melodia, la melodia accompagnata: il contrappunto s’è condensato in sostegno armonico. Non si tratta di stabilire una superiorità o un’eccellenza dell’una sull’altra. Sono due concezioni diverse d’intendere la melodia. Che hanno anche conosciuto incontri, contaminazioni. Di questa contaminazione, anzi, Mozart è l‘esempio insieme forse più alto, ma anche più enigmatico. L’idea melodica più semplice sottintende, invece, in Schumann, sempre anche un altro livello, anche quando non è espresso. In un suo brano per pianoforte Schumann scrive una melodia che non si suona. Nel Carnaval, infine, l’idea di partenza, Sphinxs (sic!), è un motivo e il suo retrogado che vede solo l’esecutore, perché non si suona (non è avanguardia darmstadtiana: è Schumann, e addirittura uno Schumann giovanile). Un compositore che abbia una concezione contrappuntistica della musica non concepisce melodia che non sia fonte d’intricate relazioni contrappuntistiche, anche se appare essa sola e appare come monodia: Bach e Chopin – sì, anche Chopin – e in fondo anche Debussy, il meridionale, il francese, la pensano in questo come Schumann.

E’ l’aspetto che più affascina di quest’interpretazione che Baglini offre dell’Album della gioventù: la complessità contrappuntistica della musica restituita da un’enorme ricchezza di differenziazioni del tocco e della dinamica. Baglini ha registrato anche le due Appendici dell’Album. Sono 18 brani che si aggiungono ai 43 dell’Album. Qualcuno è trascrizione o, meglio, riscrittura, di brani di altri musicisti (Handel, Bach, Beethoven – l’Arietta! - Weber). Sublime, o addirittura sublimillimo, se si potesse dire, un Ländler di Schubert, D 783, in cui la sintonia dei due immensi compositori, l’identificazione, è totale. Un altro brano si chiama Rebus, a mettere in evidenza, se ci fosse bisogno, la passione di Schumann per la crittografia. Non sottovalutiamola. Chi arriccia il naso o scrolla le spalle, come per dire che si tratta di bazzecole che non toccano l’essenza della musica, si sbaglia: se Schumann le dava peso vuol dire che un peso ce l’ha. Bisogna sgomberare la propria mente di qualsiasi idea pre-concetta (alla lettera, concepita prima del confronto con l’opera) dell’arte, quando ci si accosta all’opera di un artista, perché nell’opera ciò che conta non è la nostra idea ma l’idea dell’artista. Che Dante si faccia chiamare per nome da Beatrice, nel Purgatorio, ed è l’unica volta in cui leggiamo il suo nome, nel verso che divide esattamente in due il numero dei versi della Commedia, e il cui numero è il simbolo numerico del nome, non è un ghiribizzo di astruso cabalistico medievale, e se pure fosse dobbiamo tenerne conto, ma un messaggio che, nella struttura del poema, vorrà pure dire qualcosa. E noi dobbiamo cercare che cosa voglia dirci, non scrollare le spalle per liberarcene come di una sciocchezza.

Con Schumann e con qualsiasi altro artista dobbiamo comportarci nello stesso modo. L’idea crociana che la poesia sia una cosa e un’altra la non poesia non tiene conto dell’indissolubile unità dell’opera, nella quale la struttura non è un orpello, ma il sostegno, anche della poesia, un’architettura che anzi spiega perché c’è quella poesia e non un’altra. Baglini in quel Ländler ci affonda, vi si abbandona. E ci lascia così, con un’eco indimenticabile di bellezza che non guarisce, ma che ci rende più comprensibile, il dolore del mondo. E’ questo è l’ufficio della musica, della poesia, dell’arte: rendere comprensibile l’incomprensibile del vero. Lo aveva già capito Aristotele quando afferma, nella Poetica, che in qualche modo la poesia è filosofia, perché non ci rappresenta la cronaca di una vicenda, ma ci rappresenta, e concretamente, visibilmente, un “universale” che altrimenti non sapremmo afferrare.

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