L’Evgenij Onegin di
Čajkivskij
è un capolavoro che può illustrare la fallacia di ogni giudizio che
voglia commisurare il valore estetico di un’opera confrontandola
all’opera dalla quale trae il soggetto. Si sono versati inutili
fiumi d’inchiostro per mettere in rilievo la differenza
d’impostazione narrativa tra il romanzo di Puškin
e quella drammaturgica di Čajkivskij.
Intanto già di per sé confrontare due generi diversi come un
romanzo, e sia pure un romanzo in versi, e un’opera teatrale,
richiede molta prudenza, perché gli obblighi del genere sono
diversi. Non si tratta di stabile se l’opera che
deriva da un’altra sia fedele all’opera da cui deriva o no, ma se
è riuscita in sé o no. La riuscita drammatica dell’Otello di
Verdi non è data dalla sua maggiore o minore fedeltà alla tragedia
shakespeariana, ma dalla coerenza con cui tutta l’opera è
costruita. Poi si può preferire l’una o l’altra: io,
personalmente, trovo che Shakespeare abbia costruito un dramma assai
più complesso del dramma verdiano, ma non per questo sto a misurare
la superiorità dell’uno sull’altro, sono due opere diverse che
si pongono e attuano fini drammaturgici diversi, inconfrontabili.
Qualcosa
di analogo accade con l’Evgenij Onegin. Inutile cercare nell’opera
di Čajkovskij
i molteplici piani
narrativi e stilistici del romanzo di Puškin,
la sua leggerezza, la sua ironia, la critica sociale. Puškin
scrive un complesso e variegato ritratto di una società, e dentro
v’inserisce la storia di Tatiana e di Onegin, che ne sono insieme i
fattori e le
vittime, esempi reali della società ritratta. Čajkovskij
è interessato a portare sulla scena una tragedia di amore, due anime
che non s’incontrano, si fraintendono e sono destinate alla
solitudine. Non che tutto questo nel romanzo non ci sia, ma è parte
di un quadro più vasto, più complesso. Čajkovskij
elimina il quadro, e si
concentra sul fraintendimento dei due personaggi.
Ma
poi accade che il quadro sociale, cacciato dalla porta rientri dalla
finestra. E vi rientra proprio mettendo in rilievo la sofferenza di
tutti i personaggi del dramma. Anche dei contadini, della balia,
perfino del giudice del duello. Puškin
scrive nei primi decenni del secolo, Čajkovskij
negli ultimi. In mezzo
c’è stato anche Dostoevskij. L’individualismo esasperato dei
personaggi čajkovskiani
non ha più niente dell’eroismo e della deliziosa
spensieratezza, della
freschezza dei personaggi
di Puškin.
Sono anime tortuose, arrovellate su sé stesse. La meraviglia
musicale della scena della lettera (è tra l’altro uno dei punti in
cui il libretto è più fedele al romanzo, i versi sono quasi i versi
di Puškin,
adattati certo alla rappresentazione) sta nell’invenzione di un
tempo musicale che traduce, momento per momento, il tempo reale della
scrittura di Tatiana. Il clarinetto ci s’insinua nella mente come
la voce segreta di Tatiana, la sua coscienza irrequieta che riflette
su ciò che sta compiendo. L’improvviso irrompere della melodia
degli archi è anche l’improvvisa incrinatura che si apre
nell’animo di Tatiana, la previsione che di quell’atto di
coraggio, di sincerità emotiva se ne dovrà poco dopo vergognare,
sentirsene umiliata.
Ecco,
credo che da riflessioni come queste sia partita per Robert Carsen
l’idea di come mettere in scena Evgenij Onegin. Togliere tutto,
lasciare la scena nuda (disegnata,
come i costumi, da Michael Levine),
solo le foglie per terra a raffigurare la campagna e l’autunno, nel
primo atto, e poi negli atti successivi più nulla, la scena nuda,
sedie, poltrone per le
scene d’insieme, il
colore livido del fondale e delle due pareti laterali per la scena
del duello, il sole che sorge sul cadavere di Lenskij e sull’ombra
di Onegin che lo scruta. La sedia isolata della conclusione rammenta
la sedia dell’attacco: su tutt’e due s’accascia il fallimento
di una vita, quella di Onegin. Come
un arco che si ricongiunge, l’inizio è già la previsione della
fine. I costumi appena vagamente tardottocenteschi connotano il senso
decadente della vicenda. Intuizione geniale: se il romanzo di Puškin
nasce dentro una temperie romantica, l’opera di Čajkovskij
è corrosa, e profondamente, da una disperazione decadente.
Alla
costruzione di questo mirabile spettacolo contribuisce, in maniera
determinante, anzi decisiva, anche l’interpretazione musicale di
James Conlon, che coglie con sensibilità finissima e lettura
analitica lucidissima l’intricato e tuttavia limpido contrappunto
di voci e di timbri dell’orchestra di Čajkovskij.
Timbri e voci, di fatti, nella scrittura di Čajkovskij
si sostengono a vicenda, nel senso che l’intera impalcatura
dell’invenzione tematica e della strumentazione orchestrale è
concepita sotto il segno del contrappunto. Il che, invece
d’indebolire la forza melodica dei temi, la esalta, anche perché
tutti, ma proprio tutti i
temi dell’Onegin nascono da un’unica cellula melodica
generatrice: un frammento di scala, discendente a rappresentare il
dolore, ascendente la passione.
Il
cast sulla scena asseconda mirabilmente la concezione del direttore e
del regista. Personaggi tormentatissimi, canto e recitazione si fanno
voce e gesto di questo tormento. Markus
Werba disegna un Onegin introverso, complesso, problematico, per
sfida farabutto, per necessità infelice. Il dolente Lenskij di
Saimir Pirgu, tra i più intimi mai ascoltati e visti, fa capire
come, in un melodramma, il canto sia sempre anche, e soprattutto,
recitazione. Ma non violandone la bellezza melodica alla ricerca di
effetti realistici, e nemmeno, però, accarezzandola in sé come
oggetto di pura vocalità belcantistica. No, semplicemente cantando e
dando espressione al canto. Maria Bayankina è Tatiana, viene dal
Marijnskij di San Pietroburgo, ed è perfetta nella raffigurazione di
un’appassionata ragazza russa di provincia, che diviene poi una
principessa del gran mondo di corte consapevole di sé. Il suo canto
recita con mille sfumature le situazioni del personaggio. Ma senza
mai perdere il controllo dell’espressione. La sorella di Tatiana,
Ol’ga, è una bravissima Julia Matoškina,
spigliata, anche lei stupefacente nel variare gli stati d’animo
anche i più diversi. Indimenticabile Principe Gremin John Relyea,
struggente, delicato. Ma tutto il cast merita incondizionati elogi ed
è stato giustamente applaudito trionfalmente dal pubblico.
Orchestra, Coro e Corpo di ballo del Teatro dell’Opera di Roma, al
loro meglio. Lo spettacolo viene dal Teatro Metropolitan di Neww
York, allestito dalla Canadian Opera Company. Repliche
fino al 29 febbraio.
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