giovedì 20 febbraio 2020

Roma, Teatro dell'Opera, Evgenij Onegin




L’Evgenij Onegin di Čajkivskij è un capolavoro che può illustrare la fallacia di ogni giudizio che voglia commisurare il valore estetico di un’opera confrontandola all’opera dalla quale trae il soggetto. Si sono versati inutili fiumi d’inchiostro per mettere in rilievo la differenza d’impostazione narrativa tra il romanzo di Puškin e quella drammaturgica di Čajkivskij. Intanto già di per sé confrontare due generi diversi come un romanzo, e sia pure un romanzo in versi, e un’opera teatrale, richiede molta prudenza, perché gli obblighi del genere sono diversi. Non si tratta di stabile se l’opera che deriva da un’altra sia fedele all’opera da cui deriva o no, ma se è riuscita in sé o no. La riuscita drammatica dell’Otello di Verdi non è data dalla sua maggiore o minore fedeltà alla tragedia shakespeariana, ma dalla coerenza con cui tutta l’opera è costruita. Poi si può preferire l’una o l’altra: io, personalmente, trovo che Shakespeare abbia costruito un dramma assai più complesso del dramma verdiano, ma non per questo sto a misurare la superiorità dell’uno sull’altro, sono due opere diverse che si pongono e attuano fini drammaturgici diversi, inconfrontabili.



Qualcosa di analogo accade con l’Evgenij Onegin. Inutile cercare nell’opera di Čajkovskij i molteplici piani narrativi e stilistici del romanzo di Puškin, la sua leggerezza, la sua ironia, la critica sociale. Puškin scrive un complesso e variegato ritratto di una società, e dentro v’inserisce la storia di Tatiana e di Onegin, che ne sono insieme i fattori e le vittime, esempi reali della società ritratta. Čajkovskij è interessato a portare sulla scena una tragedia di amore, due anime che non s’incontrano, si fraintendono e sono destinate alla solitudine. Non che tutto questo nel romanzo non ci sia, ma è parte di un quadro più vasto, più complesso. Čajkovskij elimina il quadro, e si concentra sul fraintendimento dei due personaggi. 

 

Ma poi accade che il quadro sociale, cacciato dalla porta rientri dalla finestra. E vi rientra proprio mettendo in rilievo la sofferenza di tutti i personaggi del dramma. Anche dei contadini, della balia, perfino del giudice del duello. Puškin scrive nei primi decenni del secolo, Čajkovskij negli ultimi. In mezzo c’è stato anche Dostoevskij. L’individualismo esasperato dei personaggi čajkovskiani non ha più niente dell’eroismo e della deliziosa spensieratezza, della freschezza dei personaggi di Puškin. Sono anime tortuose, arrovellate su sé stesse. La meraviglia musicale della scena della lettera (è tra l’altro uno dei punti in cui il libretto è più fedele al romanzo, i versi sono quasi i versi di Puškin, adattati certo alla rappresentazione) sta nell’invenzione di un tempo musicale che traduce, momento per momento, il tempo reale della scrittura di Tatiana. Il clarinetto ci s’insinua nella mente come la voce segreta di Tatiana, la sua coscienza irrequieta che riflette su ciò che sta compiendo. L’improvviso irrompere della melodia degli archi è anche l’improvvisa incrinatura che si apre nell’animo di Tatiana, la previsione che di quell’atto di coraggio, di sincerità emotiva se ne dovrà poco dopo vergognare, sentirsene umiliata. 

 

Ecco, credo che da riflessioni come queste sia partita per Robert Carsen l’idea di come mettere in scena Evgenij Onegin. Togliere tutto, lasciare la scena nuda (disegnata, come i costumi, da Michael Levine), solo le foglie per terra a raffigurare la campagna e l’autunno, nel primo atto, e poi negli atti successivi più nulla, la scena nuda, sedie, poltrone per le scene d’insieme, il colore livido del fondale e delle due pareti laterali per la scena del duello, il sole che sorge sul cadavere di Lenskij e sull’ombra di Onegin che lo scruta. La sedia isolata della conclusione rammenta la sedia dell’attacco: su tutt’e due s’accascia il fallimento di una vita, quella di Onegin. Come un arco che si ricongiunge, l’inizio è già la previsione della fine. I costumi appena vagamente tardottocenteschi connotano il senso decadente della vicenda. Intuizione geniale: se il romanzo di Puškin nasce dentro una temperie romantica, l’opera di Čajkovskij è corrosa, e profondamente, da una disperazione decadente.



Alla costruzione di questo mirabile spettacolo contribuisce, in maniera determinante, anzi decisiva, anche l’interpretazione musicale di James Conlon, che coglie con sensibilità finissima e lettura analitica lucidissima l’intricato e tuttavia limpido contrappunto di voci e di timbri dell’orchestra di Čajkovskij. Timbri e voci, di fatti, nella scrittura di Čajkovskij si sostengono a vicenda, nel senso che l’intera impalcatura dell’invenzione tematica e della strumentazione orchestrale è concepita sotto il segno del contrappunto. Il che, invece d’indebolire la forza melodica dei temi, la esalta, anche perché tutti, ma proprio tutti i temi dell’Onegin nascono da un’unica cellula melodica generatrice: un frammento di scala, discendente a rappresentare il dolore, ascendente la passione.



Il cast sulla scena asseconda mirabilmente la concezione del direttore e del regista. Personaggi tormentatissimi, canto e recitazione si fanno voce e gesto di questo tormento. Markus Werba disegna un Onegin introverso, complesso, problematico, per sfida farabutto, per necessità infelice. Il dolente Lenskij di Saimir Pirgu, tra i più intimi mai ascoltati e visti, fa capire come, in un melodramma, il canto sia sempre anche, e soprattutto, recitazione. Ma non violandone la bellezza melodica alla ricerca di effetti realistici, e nemmeno, però, accarezzandola in sé come oggetto di pura vocalità belcantistica. No, semplicemente cantando e dando espressione al canto. Maria Bayankina è Tatiana, viene dal Marijnskij di San Pietroburgo, ed è perfetta nella raffigurazione di un’appassionata ragazza russa di provincia, che diviene poi una principessa del gran mondo di corte consapevole di sé. Il suo canto recita con mille sfumature le situazioni del personaggio. Ma senza mai perdere il controllo dell’espressione. La sorella di Tatiana, Ol’ga, è una bravissima Julia Matoškina, spigliata, anche lei stupefacente nel variare gli stati d’animo anche i più diversi. Indimenticabile Principe Gremin John Relyea, struggente, delicato. Ma tutto il cast merita incondizionati elogi ed è stato giustamente applaudito trionfalmente dal pubblico. Orchestra, Coro e Corpo di ballo del Teatro dell’Opera di Roma, al loro meglio. Lo spettacolo viene dal Teatro Metropolitan di Neww York, allestito dalla Canadian Opera Company. Repliche fino al 29 febbraio.



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