mercoledì 6 ottobre 2021

Autofiction tearale a Roma: vivisezione del cuore


 


Teatro Basilica, Roma. Frammenti.

Cuòre: sostantivo maschile.

drammaturgia, Angela Di Maso

regia, Alvia Reale

spazio scenico, luci, immagini, Francesco Calcagnini

costumi, Sandra Cardini

assistente alla regia, Ilaria Iuozzo

assistente costumi, Thiago Marcondes

Alvia Reale, Daniela Giovannetti, attrici e coautrici del progetto


Sotto la Scala Santa, tra Porta San Giovanni e la Basilica di San Giovanni, a Roma c’è un piccolo teatro che si chiama Teatro Basilica, la cui attività e i cui progetti possono essere letti ed esaminati nei seguenti siti:


https://www.teatrobasilica.com/

https://www.gruppodellacreta.it/il-team


E’ un gruppo di giovani attori e gente di teatro che vuole proporre un’idea nuova di teatro, un progetto nuovo di rapporto con il pubblico. Persone e programmi si leggono nei siti. Bella, comunque, l’idea di chiamare Frammenti tutto il progetto. In un’epoca in cui convivono da una parte l’illusione di costruire ed attuare una visione totalizzante del reale attraverso una semplificazione della sua complessa, assai complessa struttura, e dall’altra imponendo una sorta d’ideologia dell’individuo, che scambia la separazione dell’individuo dalla società e dal sociale come una conquista di libertà, ecco che questo gruppo di attori, di registi, scenografi, tecnici delle luci, drammaturghi, non nascondono la propria limitatezza, l’ineliminabile, insuperabile finitezza di esseri singoli, e anzi la esibiscono appunto come frammenti della realtà, il che vale a dire come parte essenziale di una realtà, che tutta insieme è impossibile abbracciare. Questi utopisti del teatro si tengono insomma in equilibrio tra specificità di ogni individuo e imprescindibile legame, o per meglio dire connessione, dell’individuo con il resto della società, che non è solo il suo presente, ma anche il suo passato e ciò che vuole divenire e sta per diventare, il suo futuro. Ma quale luogo migliore che un teatro, appunto, per dire e attuare tutto questo? Il teatro non nasce, infatti, come divertimento, anche se però diverte, bensì, già nell’antica Grecia, ad Atene, come spazio pubblico in cui la società esamina e giudica sé stessa. Sarebbe ora, soprattutto in Italia – in altri paesi d’Europa, e del mondo, si è già fatto, in qualche paese addirittura da qualche secolo – che il teatro torni a essere questo spazio. Poco importa che un Presidente del Consiglio dichiari – pubblicamente – che attori, musicisti sono utili perché “ci divertono”. È dalla sua fondazione, prima come regno, poi come repubblica, che l’Italia non riconosce il valore pubblico, sociale e- perché no? - politico del teatro. Ma di tante altre cose, è vero, l’Italia non riconosce il valore: l’istruzione (abbiamo gli insegnanti peggio pagati dell’Unione), la ricerca (è il paese di Europa che investe meno nella ricerca sia scientifica sia umanistica), e stendiamo un velo sull’insufficienza degli aiuti alle famiglie, sulla mancanza di un vero piano industriale, su una sanità del territorio mortificata, e così via. Ma non è questo il luogo per disegnare una mappa delle disfunzioni del paese Italia. Ecco, allora, che uno spettacolo come Cuòre: sostantivo maschile desta un interesse particolare, e non solo perché inserito nel progetto teatrale e culturale Frammenti, di cui sopra si è scritto. Angela di Maso, che ne ha curato la drammaturgia – qualcosa di più specificamente teatrale che scrivere soltanto un testo, come in genere in Italia si pensa la drammaturgia – Di Maso ha costruito l’azione sul corpo, sulla pelle, sulla vita delle attrici che lo attuano: Alvia Reale e Daniela Giovannetti. Ha reinventato una vicenda individuale, quella delle due attrici, per farne una rappresentazione esemplare della vita di ciascuno. Il drammaturgo uruguayano Sergio Blanco usa per questo tipo di scrittura e di rapprsentazione il termine, inventato negli anni ‘70 del secolo scorso da Serge Doubrovsky: autofiction, che si potrebbe tradurre in italiano con autofinzione, ma in francese, in inglese e in spagnolo il termine ha una maggiore densità semantica. In italia si usa perciò in genere il termine inglese, per designarlo: autofiction (nella scrittura, ma non nella pronuncia, identico a quello francese), che significa qualcosa di più preciso, e soprattutto di più letterario, che autofinzione. Gli italiani che ignorano lo spagnolo, per esempio, sono abituati a chiamare le Ficciones di Borges “finzioni”, che ne è la traduzione italiana. Ma lo spagnolo ficción, esattamente come il corrispondente inglese fiction, non significa semplicemente, come in italiano, finzione, bensì anche, o soprattutto, invenzione, racconto. L’autoficción, dunque, per Sergio Blanco, o autofiction, come dicono inglesi e italiani, è “il lato oscuro dell’autobiografia, e dove nell’autobiografia c’è un patto di verità, nell’autofiction c’è un patto di menzogna”. Da una certa parte della critica italiana si è scritto che l’autofiction è la morte del romanzo, perché reprime la fantasia dello scrittore. E’ una solenne idiozia. Allora il primo grande capolavoro della narrativa italiana, anzi l’invenzione stessa della prosa narrativa italiana, è un romanzo fallito, un libro sbagliato: la Vita Nuova di Dante. E sarà dunque sbagliato anche il Viaggio in Italia di Goethe, per non parlare del Werther? Nel Viaggio in Italia Goethe racconta dell’incontro a Roma con una “bella milanese”, di una possibile avventura amorosa che non trovò attuazione reale. Inventato. Goethe non incontrò nessuna “bella milanese”. Sarà per questo l’episodio meno vero? La sua verità non sta, infatti, nella corrispondenza con i dati reali della biografia di Goethe, bensì nella verità della sua realtà letteraria. Del resto, con gioco sottile, e geniale, di allusioni, Goethe intitolò la sua autobiografia non già autobiografia, come hanno fatto molti scrittori e anche non scrittori, o Vita scritta da esso, come fece Alfieri, ma Dichtung und Wahrheit, Poesia e Verità.

 Che cosa, dunque, racconta, e rappresenta Cuòre: sostantivo maschile? Sulla scena appaiono due donne, una, Alvia Reale, che ha costruito anche la regia dello spettacolo, indossa abiti quasi maschili, neri, pantaloni e giacca, l’altra, Daniela Giovannetti, un abitino leggero, roseo, gonna volante, quasi da ballerina. Attacca la donna in nero, e afferra una motosega elettrica. Parte enunciando come una filastrocca fiumi di parole, tutte con la stessa intonazione urlante, ma senza caratterizzazione particolare, e sono parole violente, insultanti, di frustrazioni vendicate. Questa violenza, però, risulta tanto più intollerabile, quanto più l’espressione è uguale, piatta, indifferente al significato delle parole, tra l’altro un tour de force non indifferente per un attore, condotto da Alvia Reale con mirabile continuità, una mitragliatrice di sofferenza e d’insofferenza. Con chi ce l’ha? Si direbbe con il mondo. Ma soprattutto con il teatro, che in Italia è così difficile portare sulle scene, quando è davvero teatro. La motosega si mette in moto, collocata con la base sull’inguine, e minaccia il teatro, i maschi, il mondo, come un gigantesco cazzo urlante che invece di sputare vita annuncia vivisezioni, tagli, mozzamenti, segature, recisioni, troncamenti. L’altra, Daniela Giovannetti, è una che sogna la danza, brama diventare famosa danzando, e ci è andata vicino, è perfino diventata davvero famosa, lavorando in televisione insieme a Rafaella Carrà, ma poi un incidente la immobilizza per mesi. Tutta la scena di lei che danza sdraiata per terra, perché non può alzarsi, perché non può muoversi, il braccio appena sollevato ricade inerte sul pavimento, i passi di danza sono attuati da gambe orizzontali, è da antologia di come si sta sulla scena. Ma ogni momento dello spettacolo è da antologia.

 Per esempio, le confessioni sessuali con un proiettore calato che dondola come un pendolo, lo si potrebbe perfino supporre simbolo fallico. E poi la scena finale, mozzafiato, le due donne diventano animali. Daniela un gatto, Alvia un cane. E la sofferenza, la solitudine, il bisogno di corpo, di contatto, la lacerazione dei ricordi, il dolore dell’abbandono, del rifiuto, la gioia dell’amplesso, sono gli stessi, come nell’homo insipiens: che ha di più, questo vanitoso animale, se non la parola? Ma ecco che se gli animali parlano, dicono le stesse cose. Perché sentono, vivono le stesse cose, gli stessi sentimenti, gli stessi abbandoni, gli stessi ritrovamenti. Teatro Basilica pieno, e fragorosi, interminabili applausi per le due splendide attrici, ma anche per tutti gli altri, le luci di Francesco Calcagnini, i costumi di Sandra Cardini. Il lavoro teatrale è sempre un lavoro collettivo. 


E alcune battute sono veramente destinate proprio alla collettività teatrale, comprese fino fondo solo da essa. “Chi non ha mai sognato almeno una volta di fare sesso con il proprio tecnico?” E tuttavia, proprio perché la collettività teatrale è metafora, specchio di qualunque altra collettività, specchio anzi di tutta la società, anche il linguaggio cifrato coglie nel segno. E l’autofiction non è solo la rappresentazione di una singola vicenda, ma il carnevale, la processione del mondo, della vita del mondo, come la vede sfilare sotto gli occhi Dante sulla vetta del Purgatorio, o come la dipinge Van Eyck nell’Adorazione dell’Agnello mistico sull’altare di San Bavone a Gand: tutta la storia del mondo, prima e dopo l’Uomo-Dio che separa la storia, e sia Dante, sia Van Eyck ci raccontano in realtà la propria storia, l’uno raccontando un viaggio nell’al di là, come se fosse un viaggio nell’al di qua, l’altro dipingendo la sua Gand dietro la processione dei profeti, e dietro la figura dell’agnello sacrificale. Il teatro si chiama Teatro Basilica. Sotto la Scala Santa, si suppone la scala che salì Cristo condotto davanti a Caifa. E accanto, la bella facciata costruita da Alessandro Galilei per la cattedrale paleocristiana di Roma, ma l’interno paleocristiano è totalmente reinventato da Francesco Borromini, il moderno sostituisce l’antico, o meglio, lo completa. Vengono le vertigini. C’è quasi l’autofiction di una città, e poiché è la città che fu capitale di un Impero ed è capitale dei cristiani, si potrebbe supporre che sia l’autofiction del mondo. Ha ragione Sergio Blanco: l’autoficcion è il lato oscuro dell’autobiografia. Molto oscuro. Ma è per questo che il teatro lo porta alla luce: perché la realtà del teatro è sempre stata, ed è, la realtà non dell’evidenza, ma di tutto ciò che ci è oscuro. Ed è saggio, perciò, l’avvertimento che ci suggerisce Frammenti, sul programma della stagione: “Si prega di non recitare nella vita reale”.




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