giovedì 26 luglio 2018

Rodrigo Boggero, Latitudini




Rodrigo Boggero, Latitudini. Romanzo (Tentativo di), 2017, Condove (TO), Sillabe di sale Editore, 2017, pp. 260, € 16,50


Sarà più di un secolo che si parla di crisi del romanzo (non parliamo poi della morte dell’arte!). Ma se ne continuano a scrivere. Se ne continuano a leggere. Qualcuno, anzi, è un capolavoro. E questi romanzi, si continua a leggerli. Da qualche tempo, però, il romanzo sembra voler riflettere sui propri presupposti, sui propri fondamenti. In realtà lo ha sempre fatto. Fin dal Don Chisciotte, il primo romanzo della modernità, e forse a tutt’oggi insuperato modello di romanzo moderno. La grande letteratura, del resto, ha sempre riflettuto se sé stessa. Guardate le polemiche degli alessandrini sul poema eroico – sembra di leggere quelle attuali sul romanzo – e il povero Apollonio Rodio che si ostina a scriverne uno, e ne esce quel capolavoro delle Argonautiche. Che però non ha più niente di omerico. Ma è come un lungo epillio in quattro canti. Uno, interamente dedicato all’amore di Giàsone e Medea. Oggi si ritorna farlo. Forse è un buon segno, soprattutto in Italia, dove ci si era adagiati su formule comprovate e abitudini di lettura corrive. Giorni fa ho scritto del bellissimo Il tuo sguardo nero di Francesco Maria Colombo. Ecco un altro romanzo che entra ed esce da sé stesso. Anzi, non un romanzo ma, come recita il titolo: un “tentativo di romanzo”. Che, non a caso, comincia con l’ossessione dell’ombra di un aereo che ogni giorno alla stessa ora passa e copre la stessa finestra. Fin dalle prime pagine del romanzo, infatti, tutto è mobile, i personaggi sono dichiarati personaggi, lo scrittore stesso uno di essi, ma poi chi scrive dello scrittore, quale scrittore dello scrittore? Una notte d’estate, sulle rive di un lago, in montagna, dentro una tenda, un bambino è stuprato dallo zio, ma se ne dimentica. Lo zio, anni dopo, si uccide. Il bambino, diventato adulto, torna a quella notte dello stupro, alla tenda accampata in montagna sulle rive di un lago, dove nudi zio e nipote si abbracciano senza sapere né l’uno né l’altro quello che fanno. Lo zio, in fondo, lo sa ancora meno del nipote. Che sente sì dolore, ma dimentica anche il dolore. E ormai adulto, un giovane disorientato, ma attraente, stupra e forse uccide una ragazza che lo provoca ma gli resiste. La ragazza gli fa rabbia così alternativa, così altra, vegana, indiana, come gli si presenta, e sembra offrirsi, ma non gli si offre. A questo stupro, e forse femminicidio, seguono molti, moltissimi altri stupri e femminicidi. Il giovane è, naturalmente, il principale sospettato, l’imputato più probabile, e perciò scappa. Ma è davvero così, o è solo il segno – o, chi sa, il sogno – della scrittura? Attraverso ripetuti incontri, di donne e di uomini, il giovane, Luciano, cambia sesso, si fa donna, soggiace al possesso di un uomo, e soggiancendo ridiventa uomo. E così via, fino a un ultimo incontro in cui ancora donna incontra un uomo che si fa donna e lui (lei) da donna ridiventa uomo. L’uomo ridiventato donna, Rut, gli racconta la sua storia, gli racconta perfino di avere cambiato colore della pelle, di essere diventata una nera africana, da italiano/a bianco/a che era. Assiste in India all’omicidio di un bambino. Persegue l’omicida. Ecco, dunque, che ritornano i delitti. Ma l’assassino è potente, sfugge. Lui/lei se ne sente complice, cerca giustizia, ma si accorge che una vera giustizia è impossibile o andrebbero puniti tutti. I due, il bel giovane ritornato uomo, e forse omicida, anzi femminicida, assassino di molte donne, e l’uomo prestante ridiventato donna bianca e avvenente, dopo essere stata anche uomo, anche nera, e complice involontaria (ma davvero involontaria?) di un crimine, non vedono davanti a sé altra via di scampo che la fuga, da tutti i luoghi, da tutti gli uomini. Fuggono, per sfuggire alla cattura o per sfuggire, forse, a sé stessi. Ma scoprono che è impossibile fuggire da sé stessi, fosse pure il sé stesso un sé stesso mutante. Fanno a ritroso la strada dei migranti. Capiscono così che forse la via è davvero quella – ma non è una via di salvezza: in fondo a quella via c’è forse la morte, o senz’altro il disprezzo, l’oppressione, lo sfruttamento, la schiavitù. Comune, uguale, per i due, come per i migranti, solo la sofferenza. Il racconto si chiude qui perché qui vuole chiuderlo lo scrittore richiamato in causa proprio nella pagini finali del romanzo. La fine, dunque, resta aperta. Perché in realtà non c’è una fine, ma tutto può ricominciare da capo. Anzi, forse, davvero tutto può o deve ancora cominciare.

Questo libro è un’evasione. Lo è sempre stato. Per me come per Luciano e Rut. E come per te, lettore. Un’interminabile evasione. Ma non dalla vita o dalla realtà: dallo sguardo che c’imprigiona”.

Il romanzo è ambizioso. Rendere concreta, visibile, tangibile, e raccontarla, l’ambiguità del reale, l’ambiguità, anzi, di ciascuno di noi. I confini dell’individuo non sono netti, ma transitabili, e transitabile anche il nostro corpo. Toccato, penetrato, o anche solo abbracciato, il corpo si trasforma, non è il corpo che era prima del contatto, della penetrazione, dell’abbraccio. In qualche modo toccarlo, più che modificarlo, è ucciderlo. Anche per amore, anche con un atto d’amore, come l’atto dello zio sul corpo del nipote. Peccato che in quel momento il nipote non fosse veramente il nipote, ma un corpo che sostituiva, per lo zio, il corpo della sua sorella amatissima e insostituibile, mai sostituita. Nemmeno il corpo del nipote, però, la sostituiva veramente, perché nell’atto di essere penetrato quel corpo era, era realmente, la sorella dello zio. Veri, però, e non soltanto per lo zio, entrambi i corpi, in quell’unico atto d’amore, che quella notte, in montagna, sulle rive del lago, dentro la tenda, l’atto mai compiuto con la sorella, e portato, invece, a termine, felicemente, con il nipote, regalavano allo zio e al fratello il compimento di una parte di sé rimossa, ignorata, ma l’unica forse davvero esistente. E chi sa, ficcavano nel fondo del corpo, e della coscienza, del nipote, la realtà terribile, ma sfuggente, di sé stesso. O tutti quei delitti non avrebbero nessun senso. A cominciare dal delitto, in senso profondamente kirkegaardiano, di dimenticare sé stesso.



Temi terribili. Indicibili,forse (ma allora, perché scriverci un romanzo?). Al limite dell’osceno, chi sa, dell’invito a trasgredire, del mettersi sul punto di assolvere un atto di pedofilia. Ma non è così. Perché quell’atto resta comunque, insieme, sia un crimine sia un atto d’amore, di cui non solo lo zio, con il suicidio, ma anche il nipote, e con lui tutti i personaggi, scontano tremenda carica di violenza, direi anzi l’implacato, insoddisfatto karma di conoscere sé stessi, di scappare dalla disperazione di non essere sé stessi. Latitudini, appunto, della coscienza. Che non è un campo fisso, né una fotografia di ciò che siamo, ma uno stadio mobile, che ora è una cosa, un momento dopo un’altra. Siamo tutti così? sembra domandarsi il narratore, e con lui lo scrittore, non più personaggio, ma ormai autore, e cioè Rodrigo Boggero.

Qualche mutazione appare un po’ meccanica, e qualche periodo troppo compiaciuto nella sua complessità costruttiva, ma tutto il romanzo si legge d’un fiato. Per concludersi, com’è giusto, con una domanda che ci riguarda tutti:

O forse, sì, dalla realtà. Cosa c’è, infatti, di più irreale della loro vicenda? Ma chiudendo il libro, tornando alla ‘realtà’, a quella realtà da cui sei e siamo evasi … cosa pensi di trovare? Cosa credi che ti aspetti? Una cella? La solita cecchia cella della quotidianità? O il sospetto? il sospetto che da qualche parte, intorno a te, tra le pieghe di un evento insignificante e magari fortuito, che si ripete non visto milioni di volte ogni giorno in tutto il mondo, a cui non ha mai prestato la minima attenzione, si nasconda come uno spiraglio, la ‘maglia rotta nella rete’, la serratura, il punto critico (o ‘archimedico’) su cui far leva con la chiave della tua vita? Cosa accadrà dunque – concludo con fare puerile, innocente (e non poco altisonante) la Voce per-sempre-narrante – se spalancherai infine quella porta?
Cominiamo”.

Fiano Romano, 26 luglio 2018

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