Rodrigo
Boggero, Latitudini. Romanzo (Tentativo di), 2017, Condove
(TO), Sillabe di sale Editore, 2017, pp. 260, € 16,50
Sarà
più di un secolo che si parla di crisi del romanzo (non parliamo poi
della morte dell’arte!). Ma se ne continuano a scrivere. Se ne
continuano a leggere. Qualcuno, anzi, è un capolavoro. E questi
romanzi, si continua a leggerli. Da qualche tempo, però, il romanzo
sembra voler riflettere sui propri presupposti, sui propri
fondamenti. In realtà lo ha sempre fatto. Fin dal Don Chisciotte,
il primo romanzo della modernità, e forse a tutt’oggi insuperato
modello di romanzo moderno. La grande letteratura, del resto, ha
sempre riflettuto se sé stessa. Guardate le polemiche degli
alessandrini sul poema eroico – sembra di leggere quelle attuali
sul romanzo – e il povero Apollonio Rodio che si ostina a scriverne
uno, e ne esce quel capolavoro delle Argonautiche. Che però
non ha più niente di omerico. Ma è come un lungo epillio in quattro
canti. Uno, interamente dedicato all’amore di Giàsone e Medea.
Oggi si ritorna farlo. Forse è un buon segno, soprattutto in Italia,
dove ci si era adagiati su formule comprovate e abitudini di lettura
corrive. Giorni fa ho scritto del bellissimo Il tuo sguardo nero
di Francesco Maria Colombo. Ecco un altro romanzo che entra ed esce
da sé stesso. Anzi, non un romanzo ma, come recita il titolo: un
“tentativo di romanzo”. Che, non a caso, comincia con
l’ossessione dell’ombra di un aereo che ogni giorno alla stessa
ora passa e copre la stessa finestra. Fin dalle prime pagine del
romanzo, infatti, tutto è mobile, i personaggi sono dichiarati
personaggi, lo scrittore stesso uno di essi, ma poi chi scrive dello
scrittore, quale scrittore dello scrittore? Una notte d’estate,
sulle rive di un lago, in montagna, dentro una tenda, un bambino è
stuprato dallo zio, ma se ne dimentica. Lo zio, anni dopo, si uccide.
Il bambino, diventato adulto, torna a quella notte dello stupro, alla
tenda accampata in montagna sulle rive di un lago, dove nudi zio e
nipote si abbracciano senza sapere né l’uno né l’altro quello
che fanno. Lo zio, in fondo, lo sa ancora meno del nipote. Che sente
sì dolore, ma dimentica anche il dolore. E ormai adulto, un giovane
disorientato, ma attraente, stupra e forse uccide una ragazza che lo
provoca ma gli resiste. La ragazza gli fa rabbia così alternativa,
così altra, vegana, indiana, come gli si presenta, e sembra
offrirsi, ma non gli si offre. A questo stupro, e forse femminicidio,
seguono molti, moltissimi altri stupri e femminicidi. Il giovane è,
naturalmente, il principale sospettato, l’imputato più probabile,
e perciò scappa. Ma è davvero così, o è solo il segno – o, chi
sa, il sogno – della scrittura? Attraverso ripetuti incontri, di
donne e di uomini, il giovane, Luciano, cambia sesso, si fa donna,
soggiace al possesso di un uomo, e soggiancendo ridiventa uomo. E
così via, fino a un ultimo incontro in cui ancora donna incontra un
uomo che si fa donna e lui (lei) da donna ridiventa uomo. L’uomo
ridiventato donna, Rut, gli racconta la sua storia, gli racconta
perfino di avere cambiato colore della pelle, di essere diventata una
nera africana, da italiano/a bianco/a che era. Assiste in India
all’omicidio di un bambino. Persegue l’omicida. Ecco, dunque, che
ritornano i delitti. Ma l’assassino è potente, sfugge. Lui/lei se
ne sente complice, cerca giustizia, ma si accorge che una vera
giustizia è impossibile o andrebbero puniti tutti. I due, il bel
giovane ritornato uomo, e forse omicida, anzi femminicida, assassino
di molte donne, e l’uomo prestante ridiventato donna bianca e
avvenente, dopo essere stata anche uomo, anche nera, e complice
involontaria (ma davvero involontaria?) di un crimine, non vedono
davanti a sé altra via di scampo che la fuga, da tutti i luoghi, da
tutti gli uomini. Fuggono, per sfuggire alla cattura o per sfuggire,
forse, a sé stessi. Ma scoprono che è impossibile fuggire da sé
stessi, fosse pure il sé stesso un sé stesso mutante. Fanno a
ritroso la strada dei migranti. Capiscono così che forse la via è
davvero quella – ma non è una via di salvezza: in fondo a quella
via c’è forse la morte, o senz’altro il disprezzo,
l’oppressione, lo sfruttamento, la schiavitù. Comune, uguale, per
i due, come per i migranti, solo la sofferenza. Il racconto si chiude
qui perché qui vuole chiuderlo lo scrittore richiamato in causa
proprio nella pagini finali del romanzo. La fine, dunque, resta
aperta. Perché in realtà non c’è una fine, ma tutto può
ricominciare da capo. Anzi, forse, davvero tutto può o deve ancora
cominciare.
“Questo
libro è un’evasione. Lo è sempre stato. Per me come per Luciano e
Rut. E come per te, lettore. Un’interminabile evasione. Ma non
dalla vita o dalla realtà: dallo sguardo che c’imprigiona”.
Il
romanzo è ambizioso. Rendere concreta, visibile, tangibile, e
raccontarla, l’ambiguità del reale, l’ambiguità, anzi, di
ciascuno di noi. I confini dell’individuo non sono netti, ma
transitabili, e transitabile anche il nostro corpo. Toccato,
penetrato, o anche solo abbracciato, il corpo si trasforma, non è il
corpo che era prima del contatto, della penetrazione, dell’abbraccio.
In qualche modo toccarlo, più che modificarlo, è ucciderlo. Anche
per amore, anche con un atto d’amore, come l’atto dello zio sul
corpo del nipote. Peccato che in quel momento il nipote non fosse
veramente il nipote, ma un corpo che sostituiva, per lo zio, il corpo
della sua sorella amatissima e insostituibile, mai sostituita.
Nemmeno il corpo del nipote, però, la sostituiva veramente, perché
nell’atto di essere penetrato quel corpo era, era realmente, la
sorella dello zio. Veri, però, e non soltanto per lo zio, entrambi i
corpi, in quell’unico atto d’amore, che quella notte, in
montagna, sulle rive del lago, dentro la tenda, l’atto mai
compiuto con la sorella, e portato, invece, a termine, felicemente,
con il nipote, regalavano allo zio e al fratello il compimento di una
parte di sé rimossa, ignorata, ma l’unica forse davvero esistente.
E chi sa, ficcavano nel fondo del corpo, e della coscienza, del
nipote, la realtà terribile, ma sfuggente, di sé stesso. O tutti
quei delitti non avrebbero nessun senso. A cominciare dal delitto, in
senso profondamente kirkegaardiano, di dimenticare sé stesso.
Temi
terribili. Indicibili,forse (ma allora, perché scriverci un
romanzo?). Al limite dell’osceno, chi sa, dell’invito a
trasgredire, del mettersi sul punto di assolvere un atto di
pedofilia. Ma non è così. Perché quell’atto resta comunque,
insieme, sia un crimine sia un atto d’amore, di cui non solo lo
zio, con il suicidio, ma anche il nipote, e con lui tutti i
personaggi, scontano tremenda carica di violenza, direi anzi
l’implacato, insoddisfatto karma di conoscere sé stessi, di
scappare dalla disperazione di non essere sé stessi. Latitudini,
appunto, della coscienza. Che non è un campo fisso, né una
fotografia di ciò che siamo, ma uno stadio mobile, che ora è una
cosa, un momento dopo un’altra. Siamo tutti così? sembra
domandarsi il narratore, e con lui lo scrittore, non più
personaggio, ma ormai autore, e cioè Rodrigo Boggero.
Qualche
mutazione appare un po’ meccanica, e qualche periodo troppo
compiaciuto nella sua complessità costruttiva, ma tutto il romanzo
si legge d’un fiato. Per concludersi, com’è giusto, con una
domanda che ci riguarda tutti:
“O
forse, sì, dalla realtà. Cosa c’è, infatti, di più irreale
della loro vicenda? Ma chiudendo il libro, tornando alla ‘realtà’,
a quella realtà da cui sei e siamo evasi … cosa pensi di
trovare? Cosa credi che ti aspetti? Una cella? La solita cecchia
cella della quotidianità? O il sospetto? il sospetto che da qualche
parte, intorno a te, tra le pieghe di un evento insignificante e
magari fortuito, che si ripete non visto milioni di volte ogni giorno
in tutto il mondo, a cui non ha mai prestato la minima attenzione, si
nasconda come uno spiraglio, la ‘maglia rotta nella rete’, la
serratura, il punto critico (o ‘archimedico’) su cui far leva con
la chiave della tua vita? Cosa accadrà dunque – concludo con
fare puerile, innocente (e non poco altisonante) la Voce
per-sempre-narrante – se
spalancherai infine quella porta?
“Cominiamo”.
Fiano
Romano, 26 luglio 2018
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