martedì 10 luglio 2018

Gianfranco Pecchinenda, Essere Ricardo Montero



Gianfranco Pecchinenda, Essere Ricardo Montero, Caserta, Lavieri, 2011, pagg.96, € 8,90.
Non è un libro recente, ma merita che se ne parli, che se ne continui a parlare. La letteratura della Nuova Italia , per rubare un’espressione allo storico e critico più illustre della nostra letteratura (e di altre), Benedetto Croce, oltretutto quasi concittadino dello scrittore, ma che dal suo pensiero è distante anni luce, sopravvissuto ad altre, e forse più terribili catastrofi, e meno attratto dal campo chiuso, quasi arcadico, in cui il filosofo sembra voler racchiudere la letteratura, proprio perché il libro – romanzo? indagine? racconto autobiografico? – non è inquadrabile in un genere particolare né tanto meno disponibile a lasciarsi sezionare in pagine riuscite e pagine sorde alla poesia.  Con buona pace dell’abruzzese, la letteratura andava, e va, oggi, per strade assai diverse da quella da lui circoscritte e configurate. Non a caso il filosofo, e critico, cui Napoli dedica perfino una strada, fu ostinatamente ostile alla letteratura moderna, ebbe in astio Mallarmé, derise Pascoli, distrusse Pirandello, e se la prese anche con chi, forse, di questi moderni in qualche modo era stato se non il padre, certo l’apripista, Giacomo Leopardi, e proprio con quelle pagine delle Operette Morali e dello Zibaldone da Croce con sufficienza demolite come ambasce di adolescente. Sarà che anche Leopardi non era affatto sicuro che una sola identità bastasse a capire il mondo, e in ognuna delle Operette, se ne inventa un’altra. Ma veniamo al libro di Gianfranco Pecchinenda.
Sembra, dicevo, che la letteratura della Nuova Italia, questa Italia del terzo millennio, vada cercata fuori dei testi strombazzati dai premi più famosi e più famigerati, negli scrittori esclusi, confinati nei margini di una vita letteraria sterile e auto gratificante. Tra gli ultimi Strega non uno memorabile. Né meglio va con il Campiello e altri consimili premi. Talora qualcuno entra pure tra i probabili vincitori. Ma è subito escluso, non sia mai la qualità della sua scrittura offenda la piattezza della prosa da tutti celebrata. Non faccio nomi. Ognuno può rifarseli a mente. Da qualche tempo, infatti, leggo con ammirazione e piacere romanzi di lingua francese, spagnola, inglese, che sembrano confinare al confronto in una provincia striminzita i nostri scrittori. Ma non è così. Perché scrittori non provinciali, che non scimmiottano la moda del momento, esistono anche in Italia. E Gianfranco Pecchinenda è uno di loro.
Questo romanzo – o saggio sul romanzo, vedete un po’ voi – è la giustificazione, o meglio la rivendicazione di un eteronimo. Ora di eteronimi è vissuta la scrittura fin dalle sue origini. Chi è Omero o chi sono i poeti che ci sono arrivati con il nome di Omero? Ma non andiamo così lontano. In qualche modo già Platone, nei suoi inimitabili dialoghi, ci parla per interposta persona, con la voce di eteronimi. Socrate, uno di questi. Ma anche Fedone, e Gorgia.   Però bisogna venire più vicino a noi. E allora, come non pensare a Kirkegaard? e, tra gli italiani, a Nievo, sia Ippolito che Stanislao
 Chi è dunque Ricardo Montero, per Gianfranco Pecchinenda?  Il narrante si divide tra Parigi, Napoli, Buenos Aires e il Venezuela. Ma chi narra chi? Ognuna delle voci narranti sembra nascondere un doppio e non si sa mai se, quando scrive, scrive di sé steso o del doppio.  Anche il tentativo di eliminarlo, l’eteronimo, con un atto di violenza digitale, cancellando il suo profilo da Facebook, costui  rispunta fuori con la memoria di tutti i nomi che ha assunto attraverso il romanzo.
E’ un eteronimo perfino lo scrittore, figura reale, di cui compare in copertina la fotografia: un uomo con un cappello che tiene per mano una bambina. Lo scrittore francese di origine russa Emmanuel Bove. Ma per il narrante la foto prende le sembianze di Ricardo Montero. La sua eliminazione è stata solo apparente. Perché poi a sbugiardarla compare, con una postfazione, un personaggio di Miguel de Unamuno: Augusto Pérez. E’ il protagonista di uno straordinario romanzo, Niebla, nebbia, che a un certo punto si ribella al destino che per lui ha designato lo scrittore e va a visitarlo. “Io non voglio morire”. Lo scrittore allora lo lascia uscire di casa, ma lo fa investire da un’automobile, appena sbuca sulla strada. Spaventosa metafora della vita, del destino, di Dio, se c’è, o piuttosto del caso. Unamuno ha scritto due saggi fondamentali della cultura spagnola ed europea del Novecento: El Cristo de Velázquez e El sentimento trágico de la vida. Ai quali bisognerebbe forse aggiungere Vida de don Quijote y Sancho. In tutti e tre è impostato il tema della necessità di ciò che accade, comunque accada. E dell’assoluta estraneità della volontà umana a qualunque accadimento della vita e della storia.  Si pensa alla Ginestra leopardiana: che differenza c’è tra l’eruzione del Vesuvio che distrugge due città e il passo di un inavvertito camminante che calpesta e distrugge un formicaio? Che la distruzione del formicaio è una catastrofe maggiore, perché le formiche sono più prolifiche degli uomini.
Pecchinenda non è così tragico, all’apparenza. Ma l’irruzione del personaggio di Unamuno, alla fine, acquista quasi il senso di un nuovo eteronimo, eteronimo di Unamuno, naturalmente, in primo luogo, ma anche dello stesso Montero, anzi, scusatemi, di Pecchinenda, o no? Nel caos di quanto oggi accade nel mondo, Pecchinenda, Montero, Unamuno, sono fuori strada? O proprio questa loro scissione in più voci ci restituisce la molteplice e indecifrabile, moltiplicantesi all’infinito, nostra condizione dis-umana di oggi? En passant, il narrante parla di molteplici vicende di migranti. Ma non vengono in Italia dall’Africa o dall’Asia. Sono italiani che emigrano nelle Americhe. Non fa male ricordarlo, ogni tanto.
Ma lo scrittore non avrebbe raggiunto l’obiettivo se a tenere insieme queste molteplici e fuggevoli voci non ci fosse la tenuta di uno stile apparentemente discorsivo, colloquiale,  in realtà lucidamente costruito per spaccare il capello in quattro, non solo, dei gesti dei personaggi, ma delle malcerte sicurezze del lettore. Se, infatti, dopo avere letto questo libro, ne uscite ancora con la certezza di sapere chi veramente siete, allora vuol dire che in questo libro non ci siete mai entrati.
Tholaria, Amorgós, Cicladi, Grecia, 10 luglio 2018.

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