venerdì 22 giugno 2018

Maria Clelia Cardona, I giorni della merla

Maria Clelia Cardona, I giorni della merla, Bergamo, Moretti & Vitali, 2018, pagg. 144, € 13,00 

 


Dopo i giorni del canto la merla scompare

Abitava in un buco del camino, ascoltava di lì

Si chiama Algoritmo il dio che nel web

Pochi anni per vivere, poca stanza per morire

La barcaccia accasciata a Piazza di Spagna

Un troppo che ci elude – meglio
le misure …

Così la lezione dei secoli, le forme …

Sono quasi tutti attacchi di poesia, e solo due invece colti nel corpo della poesia. Perché scriverli qui di seguito? Per il loro ritmo, per la loro musica, indipendentemente da ciò che significano. La poesia è musica, è ritmo. Ciò sembra dimenticato da molti sedicenti poeti italiani di oggi. I quali, forse per sfuggire un’accademia cantilenante dura a tirare le cuioa, in quasto paese che Gramsci chiamava giustamente di arcadi e di letterati, si sforzano di distruggire ogni prevedibile ritmo, ma ottenendo solo l’effetto di poesie di un’altra lingua malamente tradotte, perché i loro versi sembrano modellati su traduzioni di versi, invece che su una tradizione conclamata di prosodia italiana. Facciamo un esercizio. Provate a cambiare l’ordine delle parole di un famoso attacco di canto leopardiano: Dolce e chiara è la notte e senza vento. E’ quasi un bollettino meteorologico. E niente più, una vibrazione emotiva appena suggerita solo dall’attributo “dolce”. Ma il suo senso profondo è espresso dal ritmo, dalla musica delle parole. Scrivete: La notte è chiara e dolce e senza vento. Oppure: Chiara e dolce è la notte e senza vento. In entrambi i casi la prosodia dell’endecasillabo è rispettata, ma è distrutto il ritmo della scansione leopardiana. Anche perché proprio il termine che accenna a una vibrazione emotiva è collocato all’inizio el verso e attira subito l’attenzione. C’è un grosso equivoco, in molti poeti italiani di oggi: che il verso sia dato solo dall’andare a capo, che il senso di una poesia stia nei concetti, nei significati che comunica. Il verso, anche il verso libero, invece, ha un suo ritmo, anzi è solo il ritmo a denotarlo come verso. E ciascun poeta ha il suo ritmo. Come del resto anche ciascun musicista. Il ritmo di Bach è in genere anapestico, quello di Schubert dattilico. Petrarca ha un ritmo giambico musicalissimo che sembra ricostruire in italiano il senario giambico latino e il trimetro giambico greco (ma il riferimento è latino, non greco). Anzi proprio questo ritmo giambico lo rese il modello imitabile di tanta poesia europea successiva, fino ai giorni nostri. Ma non è solo il verso a richiedere un suo ritmo specifico, bensì anche la prosa. Fin dalle origini. La prosa della Vita Nuova è musicale quanto nessun’altra. Per non parlare di quella del Decameron o dei Promessi Sposi o di Pavese, che anzi se ne fa un’ossessione. Baudelaire scrive dei “petit poèmes en prose”, piccole poesie in prosa (sbagliata la traduzione di poèmes con poemi, in francese la parola indica sia il poema sia la poesia, in questo caso Baudelaire vuole specificare la poesia, in quanto singolo componimento – del resto, in italiano, poesia indica sia un singolo componimento che la creazione poetica). Possiedono un ritmo meraviglioso. Sentite qua: “Celui qui regarde du dehors à travers une fenètre ouverte ne voit jamais autant de choses que celui qui regarde une fenètre fermée (Les fenètres)”. E’ un ritmo particolare, individuale, che evita il ritmo regolare del verso classico, e il verso francese classico è per Baudelaire Racine. O Ronsard. Ma non per questo non è ritmo. Wagner a un certo punto lascia la costruzione musicale che procede di quattro in quattro battute e costruisce liberamente il suo discorso musicale. Ma non per questo è un discorso musicale senza ritmo. E’ prosa musicale. Ritorniamo ai versi citati sopra, dall’ultima raccolta di poesie di Maria Clelia Cardona: I giorni della merla. Hanno tutti un evidente andamento anapestico. E ciò li rende subito riconoscibili non solo come versi, ma come versi personalissimi di Maria Clelia Cardona. E’ un ritmo che rinvia la conclusione di una cadenza, che non impone subito l’icuts, ma lo sposta via via fino alla fine del verso e anche oltre, con arditi e splendidi enjambements, come la penultima citazione, dove tra l’altro si ammira un’allitterazione meglio/misure, esasperata dal fatto di essere collocata dentro un enjambement. Queste osservazioni metriche non avrebbero che un senso pedantescamente formale se non stessero invece a significare che attraverso questa musica Maria Clelia Cardona vuole dirci qualcosa. La raccolta comincia con un commiato – il più naturale dei commiati, ma per tutti, o quasi tutti – uno dei più terribili: la morte della madre. E’ il definitivo taglio del cordone ombelicale, si è gettati davvero ormai nudi e soprattutto soli nella selva della vita: belli e crudeli i versi aduncano la vita, canta in un’altra poesia, La strada più breve, Cardona. Si riferisce all’inferno di Dante, ma lo chiama vita, come se quell’inferno fosse, e non solo per Dante, la natura profonda della vita. Riprendiamo il commiato dalla madre. Qualcosa che la parole non possono dire:

L’inizio fu solo un abbassarsi della voce -

e poi:

Forse il labirinto è la vita
e qui siamo dove la bestia
umana si nasconde e già so
che non c’è alcuna uscita

(Il viso girato verso il muro, la prima poesia, sulla morte della madre).

E’ qui dove Dante è sceso, in questa selva senza uscita, evitando la scorciatoia? C’è perfino una rima a connotare la vita come uscita, sinonimi accuratamente evitati nella quotidianità smemorata. Ma c’è un senso in tutto questo?

Seduta con le gambe incrociata la ragazza
dagli occhi incattiviti e alla terra straniati
fa yoga sul parapetto del Ponte,
propinqua agli angeli con le ali già aperte
sulla base di lancio …
Del suo vivere non si fa carico il fiume
e tantomeno
del suo morire.
(Ponte sul Tevere)

Qui l’anapesto diventa addirittura metafora dell’uscire dalla vita: ma nascere e morire non hanno, in sé, nessun senso. Nessun senso per il fiume. Nessun senso per i turisti che affollano il ponte, avidi di assistere a un suicidio. Hegel, in una pagina bellissima delle sue Lezioni di estetica, dice che la bellezza di un tramonto è una distorsione prospettica: il tramonto non è né bello né brutto, nasce dalla rotazione terrestre. La bellezza gliel’attribuisce l’occhio dell’uomo. A specificare che il bello, l’arte, non è un dato di natura, ma un prodotto culturale dell’uomo. Maria Clelia Cardona, di questo gelo, si direbbe leopardiano, della natura, della vita, fa sostanza della propria poesia. Ci canta sempre un allontanamento, un distacco, una scomparsa – come quella del gatto Berengario – o di un’illusione senza riscontro: Euridice che si vede lasciata per sempre, in una precedente raccolta, Penelope che non può ostacolare la nuova partenza di Ulisse, in un belissimo poemetto, Di fiato e di fuoco. E qui, l’amica e collaboratrice Angela, Pier Paolo Pasolini. Ma anche i poeti mai incontrati se non sulla pagina: Keats, per esempio: pochi anni per vivere, poca stanza per morire. Insomma, sempre la stessa storia che si ripete, lo stesso dolore che non è redimibile (come direbbe Eliot, anche lui ricordato), e soprattutto, ovunque, la stessa insignificanza, la stessa ferocia della vita che ingoia tutti, senza motivo e senza spiegazioni. La vita, non la morte: la morte è l’ictus dell’anapesto, la conclusione delle due sillabe brevi – la vita - che lo precedono, lui solo sillaba lunga, interminabile:

Quarti di luna per dirci
che il buio è misura della luce
e l’uno e l’altra nascono da un gioco
che ci illude e trascende.
(Quartina)



Fiano Romano, 22 giugno 2018

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