Maria
Clelia Cardona, I giorni della merla, Bergamo, Moretti &
Vitali, 2018, pagg. 144, € 13,00
Dopo
i giorni del canto la merla scompare
Abitava
in un buco del camino, ascoltava di lì
Si
chiama Algoritmo il dio che nel web
Pochi
anni per vivere, poca stanza per morire
La
barcaccia accasciata a Piazza di Spagna
Un
troppo che ci elude – meglio
le
misure …
Così
la lezione dei secoli, le forme …
Sono
quasi tutti attacchi di poesia, e solo due invece colti nel corpo
della poesia. Perché scriverli qui di seguito? Per il loro ritmo,
per la loro musica, indipendentemente da ciò che significano. La
poesia è musica, è ritmo. Ciò sembra dimenticato da molti
sedicenti poeti italiani di oggi. I quali, forse per sfuggire
un’accademia cantilenante dura a tirare le cuioa, in quasto paese
che Gramsci chiamava giustamente di arcadi e di letterati, si
sforzano di distruggire ogni prevedibile ritmo, ma ottenendo solo
l’effetto di poesie di un’altra lingua malamente tradotte, perché
i loro versi sembrano modellati su traduzioni di versi, invece che su
una tradizione conclamata di prosodia italiana. Facciamo un
esercizio. Provate a cambiare l’ordine delle parole di un famoso
attacco di canto leopardiano: Dolce e chiara è la notte e senza
vento. E’ quasi un bollettino meteorologico. E niente più, una
vibrazione emotiva appena suggerita solo dall’attributo “dolce”.
Ma il suo senso profondo è espresso dal ritmo, dalla musica delle
parole. Scrivete: La notte è chiara e dolce e senza vento. Oppure:
Chiara e dolce è la notte e senza vento. In entrambi i casi la
prosodia dell’endecasillabo è rispettata, ma è distrutto il ritmo
della scansione leopardiana. Anche perché proprio il termine che
accenna a una vibrazione emotiva è collocato all’inizio el verso e
attira subito l’attenzione. C’è un grosso equivoco, in molti
poeti italiani di oggi: che il verso sia dato solo dall’andare a
capo, che il senso di una poesia stia nei concetti, nei significati
che comunica. Il verso, anche il verso libero, invece, ha un suo
ritmo, anzi è solo il ritmo a denotarlo come verso. E ciascun poeta
ha il suo ritmo. Come del resto anche ciascun musicista. Il ritmo di
Bach è in genere anapestico, quello di Schubert dattilico. Petrarca
ha un ritmo giambico musicalissimo che sembra ricostruire in italiano
il senario giambico latino e il trimetro giambico greco (ma il
riferimento è latino, non greco). Anzi proprio questo ritmo giambico
lo rese il modello imitabile di tanta poesia europea successiva, fino
ai giorni nostri. Ma non è solo il verso a richiedere un suo ritmo
specifico, bensì anche la prosa. Fin dalle origini. La prosa della
Vita Nuova è musicale quanto nessun’altra. Per non parlare di
quella del Decameron o dei Promessi Sposi o di Pavese,
che anzi se ne fa un’ossessione. Baudelaire scrive dei “petit
poèmes en prose”, piccole poesie in prosa (sbagliata la traduzione
di poèmes con poemi, in francese la parola indica sia il poema sia
la poesia, in questo caso Baudelaire vuole specificare la poesia, in
quanto singolo componimento – del resto, in italiano, poesia indica
sia un singolo componimento che la creazione poetica). Possiedono un
ritmo meraviglioso. Sentite qua: “Celui qui regarde du dehors à
travers une fenètre ouverte ne voit jamais autant de choses que
celui qui regarde une fenètre fermée (Les fenètres)”. E’ un
ritmo particolare, individuale, che evita il ritmo regolare del verso
classico, e il verso francese classico è per Baudelaire Racine. O
Ronsard. Ma non per questo non è ritmo. Wagner a un certo punto
lascia la costruzione musicale che procede di quattro in quattro
battute e costruisce liberamente il suo discorso musicale. Ma non per
questo è un discorso musicale senza ritmo. E’ prosa musicale.
Ritorniamo ai versi citati sopra, dall’ultima raccolta di poesie di
Maria Clelia Cardona: I giorni della merla. Hanno tutti un
evidente andamento anapestico. E ciò li rende subito riconoscibili
non solo come versi, ma come versi personalissimi di Maria Clelia
Cardona. E’ un ritmo che rinvia la conclusione di una cadenza, che
non impone subito l’icuts, ma lo sposta via via fino alla fine del
verso e anche oltre, con arditi e splendidi enjambements, come la
penultima citazione, dove tra l’altro si ammira un’allitterazione
meglio/misure, esasperata dal fatto di essere collocata dentro un
enjambement. Queste osservazioni metriche non avrebbero che un senso
pedantescamente formale se non stessero invece a significare che
attraverso questa musica Maria Clelia Cardona vuole dirci qualcosa.
La raccolta comincia con un commiato – il più naturale dei
commiati, ma per tutti, o quasi tutti – uno dei più terribili: la
morte della madre. E’ il definitivo taglio del cordone ombelicale,
si è gettati davvero ormai nudi e soprattutto soli nella selva della
vita: belli e crudeli i versi aduncano la vita, canta in un’altra
poesia, La strada più breve, Cardona. Si riferisce
all’inferno di Dante, ma lo chiama vita, come se quell’inferno
fosse, e non solo per Dante, la natura profonda della vita.
Riprendiamo il commiato dalla madre. Qualcosa che la parole non
possono dire:
L’inizio
fu solo un abbassarsi della voce -
e
poi:
Forse
il labirinto è la vita
e
qui siamo dove la bestia
umana
si nasconde e già so
che
non c’è alcuna uscita
(Il
viso girato verso il muro, la prima poesia, sulla morte della
madre).
E’
qui dove Dante è sceso, in questa selva senza uscita, evitando la
scorciatoia? C’è perfino una rima a connotare la vita come
uscita, sinonimi accuratamente evitati nella quotidianità smemorata.
Ma c’è un senso in tutto questo?
Seduta
con le gambe incrociata la ragazza
dagli
occhi incattiviti e alla terra straniati
fa
yoga sul parapetto del Ponte,
propinqua
agli angeli con le ali già aperte
sulla
base di lancio …
…
Del
suo vivere non si fa carico il fiume
e
tantomeno
del
suo morire.
(Ponte
sul Tevere)
Qui
l’anapesto diventa addirittura metafora dell’uscire dalla vita:
ma nascere e morire non hanno, in sé, nessun senso. Nessun senso per
il fiume. Nessun senso per i turisti che affollano il ponte, avidi di
assistere a un suicidio. Hegel, in una pagina bellissima delle sue
Lezioni di estetica, dice che la bellezza di un tramonto è una
distorsione prospettica: il tramonto non è né bello né brutto,
nasce dalla rotazione terrestre. La bellezza gliel’attribuisce
l’occhio dell’uomo. A specificare che il bello, l’arte, non è
un dato di natura, ma un prodotto culturale dell’uomo. Maria Clelia
Cardona, di questo gelo, si direbbe leopardiano, della natura, della
vita, fa sostanza della propria poesia. Ci canta sempre un
allontanamento, un distacco, una scomparsa – come quella del gatto
Berengario – o di un’illusione senza riscontro: Euridice che si
vede lasciata per sempre, in una precedente raccolta, Penelope che
non può ostacolare la nuova partenza di Ulisse, in un belissimo
poemetto, Di fiato e di fuoco. E qui, l’amica e
collaboratrice Angela, Pier Paolo Pasolini. Ma anche i poeti mai
incontrati se non sulla pagina: Keats, per esempio: pochi anni per
vivere, poca stanza per morire. Insomma, sempre la stessa storia che
si ripete, lo stesso dolore che non è redimibile (come direbbe
Eliot, anche lui ricordato), e soprattutto, ovunque, la stessa
insignificanza, la stessa ferocia della vita che ingoia tutti, senza
motivo e senza spiegazioni. La vita, non la morte: la morte è
l’ictus dell’anapesto, la conclusione delle due sillabe brevi –
la vita - che lo precedono, lui solo sillaba lunga, interminabile:
Quarti
di luna per dirci
che
il buio è misura della luce
e
l’uno e l’altra nascono da un gioco
che
ci illude e trascende.
(Quartina)
Fiano
Romano, 22 giugno 2018
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