Luciano Funetta, Il grido,
Milano, Chiarelettere, 2018, pp. 165, € 16,00
Come si racconta la
disperazione? Da qualche anno cinema e narrativa italiane ci hanno
abituati a toni esasperati, e narrazioni melodrammatiche,
perennemente urlanti, come se urlare, esasperare, esagerare la
sostanza e i contorni del detto, del rappresentato, restituissero
efficacemente le lacerazioni dell’attuale vita di abbandonati, come
sembra ormai la nostra vita sul pianeta, e come sembra soprattutto e
in particolare in Italia.
Luciano Funetta fa invece il
contrario, non grida mai, non esagera i contorni, non esaspera il
racconto, che pure ha per titolo Il grido. Si pensa a
uno dei primi film di Michelangelo Antonioni, lo stesso titolo, e
anche lì la disperazione era rappresentata, ma non gridata. Si pensa
al quadro, famosissimo, di Edvard Munch. Ma si andrebbe fuori strada.
Tanto nel film di Antonioni che nel quadro di Munch il grido è
l’espressione di un dolore soggettivo, individuale. Allude, certo,
a un disagio collettivo, ma resta il grido di un singolo. Se si
vuole, e rubiamo la definizione alla prima geniale indagine sulla
natura della poesia, dell’arte, e cioè alla Poetica di
Aristotele, un individuale che si pone come universale. Ma non è
questo l’assunto del romanzo. La sofferenza qui non è detta, forse
non è addirittura nemmeno sentita dai personaggi, sembra, anzi,
abolita qualunque differenza tra il fuori e il dentro, tra ciò che
passa nel cervello e i fatti che accadono per la strada, nelle case,
nei bar, nei parchi. L’allucinazione sotto l’effetto di droghe ha
certo il suo peso, e Funetta la chiama “oblio”, ma si ha
l’impressione, procedendo nella lettura, che le forme dell’oblio
siano molte e che ci sarebbero comunque, anche senza la
sollecitazione della droga.
Non c’è separazione nemmeno
tra i vivi e i morti, tra la popolazione delle donne che di notte
pulisce gli uffici deserti, e gli avventori di un equivoco locale, il
Kraken, in cui un poliziotto può impunemente incularsi un ragazzino,
ma pulirsi poi la merda appiccicatasi sotto la suole dei suoi stivali
strofinandoli sulla schiena del ragazzo. Nessuno dei frequentatori
del Kraken muove un dito. O così sembra. Perché, invece, a Lena, la
protagonista del romanzo, orfana oppure rifiutata dai genitori, e
allevata dalle Dame, era sembrato prima che gli avventori si
precipitassero a bloccare l’energumeno. Non c’è separazione
nemmeno tra l’immensa periferia di una città qualunque che può
essere percorsa solo a piedi perché i trasporti non ci sono o se ci
sono non funzionano, e il Canale che la spacca in due, la Casa delle
Dame dove sono allevate le figlie che i genitori si rifiutano di
riconoscere e di allevare, e l’Orto Botanico dove vive uno strano
Albero Uomo, Mendel, che assiste al trascorrere delle esistenze che
cercano proprio sotto i suoi rami l’oblio, la liberazione non sanno
nemmeno loro da che cosa. E poi ci sono i Dormienti, i Moribondi,
ectoplasmi di qualcosa che potrebbe essere la vita.
“Lena aveva scrutato
attraverso la densa caligine i Dormienti ammassati. Adesso che si
trovava in mezzo a loro, avvertiva la puzza dei corpi e degli abiti
come un liquido trasparente e contaminato che li ricopriva tutti, li
cullava, li avvicinava gli uni agli altri, li radunava sotto la
stessa specie nonostante appartenessero a classi diverse e a diversi
regni. Individui alati e fungini, donne dalla pelle lucida e i piedi
palmati, una nidiata di quattro fratellini che dormivano con le otto
zampe contratte sul ventre, ragazze-mosca cavallina, vecchie
donne-salamandra, anziani crostacei con i berretti di lana calati fin
sotto il naso, e così infiniti altri esseri” (pag. 118).
Il narratore guarda, racconta
ciò che vede, né si distingue se ciò ch’è narrato è visto dal
narratore o dal personaggio. Si direbbe una prosa impersonale, o
talmente personale da inglobare le identità di tutti i personaggi.
Ma il narratore, in sé, è inerte, non partecipa, è un testimone,
oppure, meglio, è solo la lingua di queste molteplici identità.
”Si lasciarono indietro il
Kraken che oscillava come una lampadina appesa al soffitto della
notte. Viale Trieste distava quattro chilometri. Per raggiungerlo
bisognava attraversare il quartiere dei Moribondi. Lena e Stepan si
infilarono in mezzo alla folla degli epilettici. Finestre illuminate
di rosso, di verde, di fasci dorati. Dappertutto c’era una musica
ossessiva. Gruppi di persone che aspettavano di essere spinte dentro
presidiavano gli ingressi di palazzi in cui erano in corso feste che,
presumibilmente, sarebbero culminate con la sparizione di tutti i
partecipanti. / Mentre attraversava l’area, Lena si guardava
intorno con attenzione, scrutava una a una quelle facce da divinità
egizie, quei travestimenti da lepidotteri allevati in una vasca di
mescalina. Tra loro pensava che prima o poi avrebbe riconosciuto
qualche vecchia faccia dell’Orto. Le gemelle, oppure Atomo. Fatih
era più un tipo solitario. Di sicuro aveva fatto un’altra fine.
Mircea e Jurij invece dovevano essere nei paraggi, impegnati in
qualche dimostrazione delle loro capacità a fini sciamanici, ovvero
di lucro” (pag. 110).
Non mancano scene di crudeltà,
di sofferenza gratuita, si direbbe scene sopra le righe, la
narrazione, però, non è mai sopra le righe, scorre liscia,
tranquilla, si direbbe indifferente, si può raccontare così anche
una passeggiata.
“Un pomeriggio afoso, quando
le Dame si erano già ritirate per i loro esercizi di canto, le
ragazze erano uscite in giardino a giocare e avevano scoperto che, ai
piedi della recinzione, stava rannicchiato un gattino dal pelo rosso.
Era stata Alhambra a proporre di cavargli gli occhi. Nessuna aveva
fiatato. / Avevano fatto tutto le più grandi. Virginia aveva tirato
fuori la limetta per le unghie che teneva nascosta sotto il polsino
della felpa. Lena aveva visto il primo occhio saltare fuori
dall’orbita. Il gatto soffiava e strillava. L’occhio era caduto
nell’erba. A quel punto Lena era corsa in casa” (19).
Viene in mente la scena finale
di Salò, il film di Pasolini. Anche lì si cavano gli occhi
con un coltello. Ma ai ragazzi. E due giovani, intanto, nella stanza
di sopra, ballano come se niente accadesse. Ora, è proprio questo
distacco del racconto, questa freddezza stilistica, è proprio la
misura, controllatissima, del lessico e della sintassi, che
potrebbero sembrare cinismo, a innalzare, invece, il tono della
narrazione, a simularne quasi la significazione di un apologo. Ma non
lo è. E’ trasferito, nel racconto, nella lucidità distaccata del
racconto, il sentimento, mai esplicito, mai espresso, di una
stortura, di un inferno, nel quale i dannati non sanno di essere
dannati. Luciano Funetta ci aveva già abituati, con il suo primo
romanzo, Dalle rovine (Latina,
Tunuè, 20162),
entrato nella cinquina dello Strega del 2016, a gettare l’occhio
sull’orrore nascosto, sempre taciuto, che costituisce una sorta di
zoccolo spesso, massiccio, del mondo contemporaneo. In questo caso
sul traffico di video snuff, cioè di film o video che
registrano, per un folto pubblico di consumatori, torture e omicidi
reali.
Anche con questo suo secondo
romanzo, se possibile ancora più asciutto, scarno, essenziale del
primo, Funetta ci fa conoscere, vedere ciò che volentieri
preferiremmo ignorare. Ma sta qui la sua forza: nell’obbligarci,
invece, a confrontarci con il male (di oggi o di sempre?), un male
che riteniamo estraneo, di cui non ci sentiamo responsabili. Perché
ignorato, perché lontano, perché di altri quartieri della città,
di altre città, di altri paesi. Ne siamo sicuri? Abbiamo mai
visitato, ma visitato per davvero, le periferie di una metropoli di
oggi o anche di una piccola città, che ci appare tranquilla, e che
tuttavia ha i suoi ghetti, i suoi inferni. Abbiamo mai visitato un
carcere, un ospedale di malati terminali, un orfanotrofio? Quando
leggiamo di maestre di nidi d’infanzia che maltrattano i bambini,
c’indigniamo, e salviamo la coscienza. Ma abbiamo mai controllato
che le assunzioni nelle scuole, negli ospedali, procedessero nel modo
giusto? Ci siamo mai interessati al funzionamento delle istituzioni
pubbliche? Tempo fa venne fuori che alcuni ragazzi del Colle Oppio, a
Roma, passavano il tempo tirando frecce ai gatti randagi del
Colosseo. Funetta racconta qualcosa di simile compiuto da ragazze,
con la semplicità con cui si stappa una bottiglia. Tra il tappo e
l’occhio di un gattino, nessuna differenza. La qualità della
scrittura sta nell’evitare qualsiasi giudizio, qualsiasi parola
d’indignazione. L’indignazione, il giudizio stanno nel racconto,
il racconto stesso è un giudizio. Per questo Funetta è uno
scrittore e non un moralista o, tanto meno, un predicatore. La
bellezza, e la forza, di questo romanzo sta proprio nel metterci
davanti a uno specchio. Dirci: ecco, guardatevi. Forse la realtà
alla quale credete di essere abituati, che credete di conoscere, è
solo una parte della realtà, e forse nemmeno la più grande.
Guardate quante cose esistono di cui forse nemmeno sospettavate la
possibilità di esistere. Spesso vi riempite la bocca che volete
cambiare il mondo, che ci sono troppe ingiustizie, troppe soprattutto
nei vostri confronti, che vi toccano. personalmente Ma il mondo che
volete cambiare, lo conoscete?
Funetta, anche questa volta,
ci fa vedere ciò che forse non ci piacerebbe vedere, o che ci
ostiniamo a negare. Ma questo è la letteratura: far conoscere mondi
che prima non si conoscevano. Qualcuno la chiamerebbe distopia,
questa forma di letteratura. Forse. Ma allora è distopico anche
l’Orlando Furioso. La letteratura, però, si ferma qua.
Invita a guardare. E’ la politica poi che dovrebbe intervenire a
modificare il guardato, se ci disgusta, se ci dispiace. Zola, a chi
lo rimproverava di raccontare un mondo corrotto, ingiusto,
rispondeva: e voi costruitemi un mondo senza sfruttati e io parlerò
di un mondo in cui non ci sono né schiavi né puttane. Non
rimproverate allo scrittore di non proporre soluzioni. Lui vi fa
vedere le storture, i problemi. Le soluzioni dovrebbe proporle la
politica. Ma non lo fa quasi mai. Almeno non lo fa oggi, e non lo fa
in Italia.
In calce: leggendo questo bel
romanzo ho pensato a Rimbaud, a Una stagione all’inferno.
Niente che assomigli al romanzo di Funetta, né il soggetto né lo
stile. Ma il controllo della scrittura, la visionarietà concreta,
mai fumosa, la nitidezza delle descrizioni, la fluidità del
raccontare sono gli stessi. E non è poca cosa. Troppo attenti
all’invadenza, all’attualità degli argomenti, perdiamo spesso di
vista che la vera, la grande letteratura ha sempre collocato un
diaframma tra l’urgenza dell’emozione, del fatto impressionante,
e il raccontarlo, il mostrarlo al lettore: questo diaframma è lo
stile, il controllo della scrittura. Quando manca questo controllo,
tutto si fa scialbo, sciatto, e perfino l’argomento più avvincente
perde d’interesse.
Luciano Funetta, Il grido,
Milano, Chiarelettere, 2018, pp. 165, € 16,00
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