Miguel
Ángel Hernández, El dolor de los demás, Barcelona,
Anagrama, 2018, pagg. 310
Le
righe finali non solo riepilogano il senso di tutta la narrazione, ma
sono anche un manifesto di poetica e insieme di scelta di vita.
Entrare e uscire dalla letteratura come un viaggio di entrata e di
uscita dalla propria esistenza e da quella degli altri, anche dei
morti. Senza per questo confondere la vita con la letteratura, anzi
ponendosi proprio il problema di come sia possibile fare letteratura
della vita, e in particolae della propria vita, senza cadere nella
trappola dell’autobiografia o, peggio, di un genere ormai abusato,
quello della cosiddetta autofiction. La lingua spagnola,
rispetto all’italiano, ha il vantaggio di possedere un termine
assolutamente equivalente dell’inglese fiction, ed è
ficción. Ficciones s’intitola uno dei libri più
belli di Borges. Ma sarebbe fuorviante tradurlo
con Finzioni.
La parola spagnola ficción,
come l’inglese
fiction,
si avvicina di più al senso dell’italiano invenzione,
o immaginazione,
sulla base del presupposto che comunque non si tratta della realtà
ma, appunto, di una
finzione. Una finzione che è insieme invenzione e immaginazione.
Insomma, quell’uscire dalla realtà e rientrarvi che fa del Don
Chisciotte o della Vita
è sogno i capolavori indimenticabili
che sono, ne fa i
modelli, anzi, insuperati, del romanzo e del teatro moderno.
Ma
il romanzo di Hernández
mette in discussione proprio questo. Non è né fiction
né autofiction
né, tanto meno, autobiografia. E’ una ricerca, un
conflitto
all’ultimo sangue, su come trasferire nella
pagina un dolore rimosso, una ferita ancora aperta, senza perciò
cadere per
questo
nella confessione. Un romanzo, e basta. L’oggetto
è un episodio doloroso della propria vita. Questo: l’amico del
cuore, il compagno dell’adolescenza, compagno
del liceo, dei giochi a carte, a pallone, a domino, venti
anni prima, uccide la sorella e si butta in un burrone. Il romanzo
parte da qui, dall’orrore rimosso, taciuto e
soffocato
per venti anni. Lo
scrittore ora indaga
il momento in cui il fatto gli fu
comunicato. E da lì cerca di ricostruire non tanto il fatto, ma il
senso e la qualità di un rapporto di amicizia, cerca
di spiegarsi come
fosse possibile immaginare nell’amico il mostro che ammazza la
sorella e si butta in un burrone. Nessuno poteva immaginarlo. Ecco
quindi che il lavoro dello scrittore si mescola con la memoria
dell’autore. I nomi non sono cambiati. Anzi viene annunciato a
ciascuna delle persone coinvolte nella tragedia che diventerà
personaggio del romanzo. Alcuni
se ne rallegrano, pensano di condividere la fama dello scrittore -
nel
caffè dove si riuniscono ci sono le foto dello scrittore, dei suoi
libri -, altri chiedono di cambiare nome, hanno paura. Ma è curioso
proprio questo programmare la struttura del romanzo con le persone
che ne faranno parte. E’ un entrare
nella vita e farne materia di un romanzo. Ma
non è proprio la cronaca di un fatto realmente accaduto, non è A
sangue freddo
di Capote. E’
un’altra
l’operazione: non raccontare sé stesso, o l’amico, o i familiari
e tutti coloro che furono travolti da quel dolore, bensì farne la
materia di una scrittura, nemmeno di un racconto, ma di una scrittura
che indaghi come si racconta, come si fa pagina, parola, letteratura,
la vita vissuta.
Prima
di continuare l’analisi
del romanzo, alcuni dati. Miguel
Ángel Hernández insegna Storia dell’Arte all’Università di
Murcia. Il suo rapporto con l’immagine è dunque non solo una
personale inclinazione, una curiosità intellettuale, ma impegno
professionale. Ora l’immagine, e in particolare l’immagine
artistica, ha una storia: non solo un quadro di Velázquez,
di
Rembrandt, di Caravaggio, ma anche una fotografia raccolta in un
album personale o in
un album di famiglia, e perfino la fotografia scattata per caso in
una
gita turistica, o il selfie
scattato
davanti
a un monumento, insieme all’amico, all’amato, all’amata. Quel
momento fissato nell’immagine non è, quando lo rivedo, il momento
del passato in cui l’immagine fu fissata, bensì il momento del
presente in cui guardando l’immagine la memoria ricostruisce
l’attimo del passato. L’arte contemporanea di ciò ha fatto la
propria ossessione. L’arte diventa il luogo di resistenza contro il
tempo moderno,
un
tempo che ingoia e cancella tutto, scrive
Hernánddez
in un
suo saggio sull’arte moderna, Materializar
el pasado, el artista como historiador (benjaminiano),
materializzare il passato, l’artista come storico (benjaminiano).
Questa
intuizione ha un peso decisivo nell’ultimo romanzo di Hernández.
Ma
in realtà in tutta l’opera dello scrittore e storico dell’arte.
Un altro suo saggio, bellissimo, s’intitola Presente
continuo (in
italiano il titolo resterebbe uguale). Su questa intuizione Aristotele
aveva negato la realtà del tempo, limitando il
tempo alla
sola misurazione umana
del movimento. Uno spazio senza corpi non sarebbe spazio e non
conoscerebbe il tempo. Ma movimento per Aristotele è anche la
crescita di una pianta, di un animale. Di
questa crescita, però,
possiamo sì concepire una storia, ma coglierla mai: la pianta, e
l’animale, sono, sempre, solo quello che vediamo e tocchiamo
nell’attimo in cui le nostre vite si toccano. Di fatto, la storia,
il pensiero, la conoscenza, si hanno solo perché siamo animali che
possiedono il linguaggio, anzi
gli unici animali del pianeta che parlano.
E
la moderna neurobiologia dà ragione ad Aristotele.
Ciò che conosciamo non è il mondo come è, la storia come è
avvenuta, ma ciò che del mondo, e della sua storia, ci fa conoscere
il linguaggio con
cui li
rappresentiamo,
sia il mondo sia la sua storia, li raccontiamo,
e li raccontiamo
non già
come
realmente si sono trasformati, ma come li cogliamo nell’attimo in
cui li rappresentiamo, nella
situazione di contatto in cui li
circoscriviamo e
assumiamo nel
nostro linguaggio. E
la matematica? potrebbe obiettarmi qualcuno. La matematica, così
come la fisica,
è anch’essa linguaggio, rappresentazione, la nostra
rappresentazione dei fenomeni. Non è il fenomeno, ma la sua
rappresentazione simbolica. Torniamo, ora,
al romanzo di Hernández.
La
narrazione procede per stacchi temporali vertiginosi tra presente e
passato, ma poi il passato s’inserisce nel presente, lo assimila,
non si fa tanto memoria, quanto incubo, paura, disorientamento. Lo
stile, secco, spigoloso, segue questo andirivieni della memoria, e
dietro la memoria, del sentimento del presente che riassorbe il
dolore del passato. Hernández
ci ha abituati a questi giochi di una realtà che sfugge, che non si
lascia afferrare, all’indeterminatezza dell’immagine, anche
quella apparentemente più precisa, nei suoi due bellissimi romanzi
precedenti: Intento
de escapada
(tradotto in italiano con il titolo di Tentativi
di fuga
(edizioni
E/O) e El
instante de peligro,
l’istante di pericolo, entrambi pubblicati da Anagrama. Sono due
romanzi che parlano dell’arte di oggi e attraverso l’arte parlano
dell’indecifrabilità
della vita di oggi.
Nel
primo romanzo si descrive
l’installazione che nasconde un rifugiato dentro una cassa di
legno: dopo qualche giorno la
cassa
comincia
a puzzare
e si teme il peggio. Nel secondo
romanzo
un’artista triestina cerca la propria identità in vecchie
fotografie che cancella con l’acido, e in alcuni film che
proiettano sempre la stessa ombra sullo stesso muro. In
qualche modo questo terzo romanzo tira le fila degli altri due. Anche
qui la ricerca dell’immagine – dell’altro e di sé stesso –
fallisce, l’immagine sfugge, non corrisponde alla realtà, né a
quella che si ricorda né a quella che si vive nel momento in cui la
si ricorda. L’amico amatissimo che ammazza la sorella, dopo averla
forse stuprata, e poi si butta in un burrone, è l’amico che
ricorda, senza averne mai presentito il mostro nascosto, ma
sorge il sospetto che
il mostro si manifestasse
anche nel compagno di giochi che non vuole mai perdere, che
s’accanisce sulla carta vincente,
sulla tessera del domino, che sembra non guardare più nessuno,
l’occhio fisso a un sé precluso agli altri, un
sé che domina, deve dominare gli altri.
Ciò
che dal tempo permane, ancora, nel ricordo, nella volontà stessa di
raccontarlo, quel dolore, è la sua indicibilità. Ma proprio per
questo lo scrittore vuole forzare l’indicibile, trovare le parole
che raccontino ciò che non si può dire. L’uomo, l’amico e lo
scrittore sembrano coincidere durante la ricerca dei testimoni, del
rapporto della polizia, che però gli sarà negato di consultare. Ma
non coincidono. E sta lì il dramma dello scrittore: di fare del
dolore degli altri e del
proprio rimosso dolore
materia
della scrittura. Innominato, innominabile: perché la parola sarà
sempre insufficiente a restituirne la ferita, la lacerazione,
l’abisso. Quello che l’amico, e poi lo scrittore, ricordando,
vedono negli occhi della madre dell’assassino.
Nel
padre, invece, vede
il niente, il vuoto, che prende la forma dell’inganno, della
menzogna, il figlio non ha ucciso la sorella, la Rosi è stata
ammazzata da ladri criminali e Nicolás
è stato trascinato via e gettato nel burrone.
La
menzogna è la maschera del nulla, la maschera del dolore che
s’impedisce di riconoscere un assassino nel figlio. Ma sono forse
più veri la consapevolezza, o il mormorio segreto, calunnioso
degli
altri? La fotografia sulla lapide del cimitero sembrerà all’uomo e
allo scrittore rivelare il mistero di quell’orrore. Lo sguardo
dell’amico, infatti,
come gli appare dalla fotografia della lapide,
è già pieno di quell’orrore. Ma non perché l’amico fosse un
mostro. Anzi
lo scrittore, e l’amico, riconosce in quello sguardo qualcosa del
proprio sguardo. Ciascuno
di noi può possedere uno sguardo simile, contenere dentro di sé un
mostro nascosto. Ma ritorniamo un momento indietro. Ecco la scena
dell’inizio, la scena della scoperta del crimine.
“Nada
…
Y
eso es lo que nadie entiende. La nada de lo que no puede ser dicho.
La nada que comienza poco a poco a apoderarse del todos los rincones
de la escena. La nada que te paraliza y nubla tu mente. La nada y dos
preguntas:
¿Quién
ha matado a la Rosi?
¿Quién
se ha llevado a Nicolás? (pag.15)
Pocos
meses más tarde, también ella moriría, de pena, o de
incomprensión, de esa imposibilidad de entender cómo la vida se da
la vuelta de un momento para otro y todo se tuerce
ya sin remedio”. (pag.
34)
(Niente
…
E
questo è ciò che nessuno capisce. Il niente di ciò che non può
essere detto. Il niente che comincia a impossessarsi di tutti gli
angoli della scena. Il niente che ti paralizza e annebbia la mente.
Il niente e due domande:
Chi
ha ammazzato la Rosi?
Chi
si è portato via Nicola?)
Pochi mesi più tardi, sarebbe morta anche lei, di pena, o d’incomprensione, di quell’impossibilità di capire come la vita da un momento all’altro volta la faccia e tutto ormai si storce senza rimedio).
Questo
romanzo è di una intensità spaventosa, scritto con un controllo
della scrittura
quasi maniacale, distante, e perciò la scrittura si fa ancora più
esplosiva. Tanto più che è un romanzo che esplora qualcosa
che è realmente accaduto, e accaduto allo stesso scrittore e
l’assassino era il suo migliore amico dell’adolescenza, l’amico
del cuore. Ma non è una confessione. E
tanto meno la cronaca di un delitto. E’
un romanzo, solo un romanzo,
ed è insieme il racconto, la ricerca di come si scrive un romanzo,
non qualsiasi romanzo, ma il romanzo che si
scrive su un ricordo di qualcosa di
terribile accaduto venti anni prima, qualcosa
d’insopportabile che
viene subito
rimosso, ma che ora riaffiora, e
riaffiorando “evoca demoni”, tutti i
demoni, della vita e della scrittura, dell’amico
suicida, dello scrittore, di “tutti gli altri”.
L’esergo
del romanzo è una frase di Susan Sontag: “La memoria è,
dolorosamente, l’unico rapporto che possiamo avere con i morti”.
E’
il romanzo che affronta i demoni della giovinezza, anzi li evoca,
come si
è detto, e come confessa
lo
stesso
Hernández,
che
nel momento di scriverlo è insieme
sé stesso e scrittore, lo scrittore che
riflette sulla scrittura di questa evocazione. Molti, dunque,
i
piani che s’intrecciano. Nella più pura tradizione spagnola, anzi
hispanoamericana. Da Cervantes a Calderón,
da Borges a Piglia.
Quando
le vede uscire dalla chiesa, le
due bare, dell’amico, e della sorella uccisa, non fanno capire
quale corpo sia racchiuso in ciascuna. Questa indeterminatezza
accresce il dolore, confonde assassino e vittima. Il giovane amico
dell’assassino, non ancora scrittore, si chiude in camera propria,
si butta sul letto.
“Nicolás
…, dices ahora tendido en la cama.
Y
evocas en una imagen la vida que has pasado junto a él.
Nicolás
…, repites en voz alta.
E
intentas, por primera vez, comprender la muerte”. (pag.
180)
(Nicola
… , dici adesso steso sul letto.
Ed
evochi in un’immagine la vita che hai trascorso insieme a lui.
Nicola
… , ripeti a voce alta.
E
cerchi, per la prima volta, di capire la morte).
In
una fotografia la figura finora in secondo piano, quella
della vittima, prende
corpo. E lo scrittore si accorge che al racconto manca il personaggio
di lei. Va a trovare un’amica di Rosi. Mentre parlano l’amica
fuma una sigaretta dietro l’altra e non nasconde il suo odio per
l’assassino. Lo
scrittore nota che l’amico da lui amato può essere odiato dagli
altri. Anche questo, un
dolore inespresso, irredento. Lo
scrittore – e l’amico – va nel cimitero a visitare la cappella
della sventurata famiglia. E lì capisce che il romanzo non era la
storia di un crimine, ma il prendere consapevolezza di tutto questo
dolore inspiegato, inspiegabile, indicibile, senza redenzione, né in
questa vita né in nessun’altra. Ed eccole le
righe finali. La conclusione di un grande romanzo, uno dei più belli
tra quelli scritti negli ultimi anni, anzi forse negli ultimi
decenni.
“Regresarás
entonces a estas notas dispersas. Darás forma a los garabatos que
una tarde arrojaste a la basura. Comprenderás que el muro de niebla
jamás logrará disiparse, que la noche amarga permanecerá anclada
en el tiempo. Pero también intuirás por fin lo que late dentrás de
la bruma. Descubrirás entonces las grietas por donde la luz se cuela.
Y entenderás por vez primera lo que importan las palabras. Las que
duelen y las que salvan. Las que se escriben en un cuaderno y las que
se dicen al oído. Las que se guardan en el alma y las que tardan
media vida en llegar”. (pag.
305)
(Ritornerai
allora a questi appunti dispersi. Darai forma agli scarabocchi che un
pomeriggio gettasti nella spazzatura. Capirai che il muro di nebbia
non arriverà
mai a dissiparsi,
che la
notte amara rimarrà ancorata nel tempo. Ma intuirai anche finalmente
ciò che pulsa dietro la bruma. Scoprirai allora le grate attraverso
le quali sgocciola
la luce. E
capirai per la prima volta ciò che importano le parole. Quelle che
fanno male e quelle che salvano. Quelle che si scrivono in un
quaderno e quelle che si dicono all’orecchio. Quelle che si
custodiscono nell’anima e quelle che tardano mezza vita ad
arrivare).
Fiano
Romano, 19 giugno 2018
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