CORTI CIRCUITI CRITICI
CORTI
CIRCUITI MUSICALI
Con Beethoven possono diventare epidemici.
Perché per chi non si sofferma al piacere dell'ascolto, ma vuole capire com'è
fatta la musica che gli desta tanto piacere, Beethoven è un pozzo senza fondo.
In quello che fa c'è sempre una logica costruttiva, stavo per scrivere
deduttiva, e non so se avrei sbagliato. Gli scherzi, poi, della Terza Sinfonia
e della Settima, si fondano su un contrasto ritmico estremo - nell'Eroica
impostato già nel primo tempo - tra ritmo ternario e binario. Nella Settima c'è
inoltre la contiguità con l'inimitabile, divino Allegretto. Insomma, voglio
dire che uno alla fine è portato a pensare che Beethoven dall'op. 1 (stupendi
trii) al quartetto op. 135 abbia composto un'unica interminabile partitura,
interminabile perché continua a proliferare musica nella nostra testa. E
continua, poi, di fatto, nelle teste dei successivi compositori, direi fino a
Stockhausen (Klavierstücke), Boulez (Deuxième Sonate), Berio (Sinfonia). E
forse anche oggi.
(La riflessione mi è nata dall’intervento di
un amico, musicista, Alessandro Maria Carnelli, che scrive di avere fatto,
appunto, un corto circuito tra i due scherzi)
COROLLARIO AI
CORTI CIRCUITI MUSICALI
Ciascuno ha un proprio rapporto con l'arte. In
genere si privilegia la ricezione, la reazione emotiva. Io, invece, preferisco
collocarmi all'origine, al punto di partenza: cercare di capire ciò che ha
fatto il compositore. Non perché sottovaluti il sentimento di chi ascolta, ma
perché il sentimento stesso è immensamente accresciuto dalla comprensione di
ciò che ha scritto il musicista. Si dimentica troppo spesso che la composizione
è prima di tutto un atto dell'intelligenza. Ravel si arrabbiava quando gli parlavano
del sentimento della sua musica. Rispondeva che la musica si scrive con il
cervello.
COROLLARIO LETTERARIO AI CORTI CIRCUITI
MUSICALI
Anche
gli scrittori, i poeti costruiscono le loro pagine. Non le scrivono come
vengono o come detta il cuore. Il cuore non ha quasi mai un peso immediato –
vale a dire, senza mediazioni - in letteratura. Certi, tutti vivono emozioni.
Anche gli scrittori. Ma quando scrivono, le emozioni diventano materia, oggetto
della scrittura, e non il soggetto che le esprime. E allora, perché non entrare
nel laboratorio di uno scrittore? Tre soli esempi. Due danteschi, e uno
leopardiano. Con una conclusione a sorpresa.
In
un bellissimo capitolo della Vita Nuova, che è già quasi un saggio sulla
scrittura poetica (ma tutta la Vita Nuova è insieme un romanzo d’amore e un
saggio su come si scrive un romanzo d’amore), Dante racconta di avere avuto,
dopo lunga riflessione su come rivolgersi alla donna amata, l’intuizione di un
verso: “Donne che avete intelletto d’amore”. Sta passeggiando nei dintorni di
Firenze e decide di serbare la memoria di quel verso. Per elaborarne e dedurne
una canzone, una volta tornato a casa. Intanto è straordinario il racconto di
come gli si presenta l’intuizione del verso: “e mi venne una voluntade di
volere dire” (cito a mente) e “la bocca parlò come per sé stessa mossa, e
dissi: donne che avete intelletto d’amore”. Il verso è notevole per più motivi,
ma particolarmente per due, uno metrico, l’altro concettuale. E’ un endecasillabo
accentato sulla prima, quarta, settima e decima sillaba. Accentazione non molto
frequente, soprattutto all’inizio di una canzone. Più regolare sarebbe stato un
accento sulla sesta e poi ottava sillaba. Ma l’insolita accentazione, che però
deriva dal fatto di avere costruito l’endecasillabo come l’unione di un
quinario con un settenario, fa partire la canzone con un ritmo nuovo, forte,
marcato, che richiama subito l’attenzione dell’ascoltatore (la lettura della
poesia all’epoca di Dante era a voce alta, spesso anzi la poesia si cantava,
oggi diremmo canzone di cantautore, la lettura mentale è posteriore e arretrala
a Dante è un anacronismo). Ma, guarda caso, l’accento insolito cade proprio
sulla parola “intelletto”. Dante attribuisce alle donne non già il sentimento,
l’emozione dell’amore, ma l’intelletto, cioè la comprensione della sua natura,
le donne conoscono la natura dell’amore più degli uomini. Ed è su questa
conoscenza, non già sul sentimento, che Dante costruisce tutta la canzone.
Qualsiasi lettura o interpretazione sentimentale, romantica, dunque, della
bellissima, stupenda canzone sarebbe fuorviante. Anche perché in quasi tutta la
poesia di Dante separare ciò ch’è ragionamento da ciò ch’è sentimento non ha
nessun senso, la sua poesia nasce dalla perfetta condivisione di ragione e
sentimento. Ma quanto detto finora è per dimostrare come Dante comunica il
proprio pensiero poetico attraverso una calcolatissima costruzione metrica e
retorica del verso.
Veniamo alla metrica del secondo esempio
dantesco.
“Nessun
maggior dolore / che ricordarsi del tempo felice / ne la miseria”.
Da
che cosa nasce l’intensità violenta di questi versi? E’ una dannata che parla,
Francesca da Rimini. Ricordare e raccontare come cominciasse la sua storia
d’amore, come Dante le chiede, è per lei un dolore quasi più grande della
propria dannazione, perché proprio la dannazione le fa percepire che
quell’inizio felice fu la causa della condanna. E come comunica a Dante
Francesca questo inguaribile dolore? Con due meravigliosi enjambements! “Dolore”, in fine di verso,
continua nel verso seguente con “che ricordarsi”, e nello stesso verso “felice”
si appoggia a “ne la miseria” del verso seguente. E notare che, a differenza
del Tasso che lo prediligeva, l’enjambement non è un procedimento frequente in
Dante, e perciò, quando c’è, risulta tanto più efficace. Anche qui,
un’esperienza insolita è comunicata con una costruzione metrica poco
frequente. Si noti inoltre che le parole
“dolore” e “felice” si trovano alla fine di versi contigui.
L’ultimo
esempio è l’attacco di un Canto di Leopardi, L’ultimo canto di Saffo.
“Placida
notte e verecondo raggio / della cadente luna”.
Saffo
medita di suicidarsi gettandosi in mare da una rupe a strapiombo dell’isola di
Leucade. E’ una leggenda. Saffo non si è mai suicidata, e Leopardi lo sa. Ma la
leggenda gli serve, gli serve la “caduta” di Saffo nel mare e nella morte. E
come attacca Leopardi il canto che immagina sulla bocca di Saffo prima di
gettarsi? Con l’evocazione di una caduta. Della luna, tra le immagini costanti
del pensiero e della poesia leopardiana. L’ultimo suo canto, incompiuto,
s’intitola Il tramonto della luna. E alla luna si rivolge il pastore errante.
Qui, a rappresentare nel ritmo del verso la caduta, Leopardi ricorre, anche
lui, alla figura dell’enjambements. Il
raggio della luna, sospeso sulla fine del primo verso, cade all’inizio del secondo,
la voce non si può fermare, deve proseguire, ma prolungandosi oltre la fine del
verso fa sentire la cesura, la caduta: verecondo raggio / della cadente luna.
A
me sembra che questo modo di leggere la poesia – come negli altri due post sui
corti circuiti musicali – collocandosi non alla fine del percorso poetica, cioè
sulla ricezione dell’ascoltatore o del lettore, ma all’inizio, quando la poesia
nasce, si costruisce, nel laboratorio del poeta, renda molto più complessa e
perfino più emozionante la lettura della poesia, che non il soffermarsi sulle
emozioni che la lettura mi provoca. Emozioni legittime, ma insufficienti a
penetrare, veramente, profondamente, nel mondo della poesia.
Chiudo
con una citazione da Baudelaire, un sonetto, Recueillement, il cui attacco è
tra i più belli che io conosca della poesia di tutti tempi:
“Sois sage, ô ma Douleur! Et tiens-toi plus tranquille”.
E’
un alessandrino. L’efficacia nasce dal perfetto equilibrio ritmico dei due
emistichi, entrambi d’andamento giambico. Ma questo equilibrio conosce
all’inizio una lacerazione, una ferita: être sage, nella lingua parlata
(stupendo questo contaminare il livello alto con quello basso in Baudelaire –
come in Dante! E lo sapeva), significa stare buono, non fare casino. Ma Baudelaire
gioca anche con il significato alto dell’attributo sage, saggio. In italiano è
impossibile tradurre la convivenza dei due livelli. Ma è ciò che fa Baudelaire,
facendo esplodere un ossimoro sublime: come fa il dolore a essere “saggio”?
Subito, però, abbassa il tono – gli è bastato il grido di quel “ô ma
Douleur!”, e dice: resta un po’ più
calmo, non agitarti, tiens-toi plus tranquille.
Ecco
come lavorano i poeti. E ora chiedo: perché sopravvalutare le nostre emozioni e
non mostrarsi invece più umili, indagare, chiedersi, come abbia lavorato il
poeta? In una parola: dare credito alla sua emozione più che alla nostra. Ma
quella, la sua, potremo capirla veramente solo sforzandoci di studiare, e
capire, con che lavoro il poeta l’abbia rielaborata, espressa, e ce l’abbia
così comunicata. Insomma, non siamo così importanti, e soprattutto non sono
così importanti le nostre emozioni, per valutare davvero il lavoro di un poeta.
Schumann, in un bellissimo, aforisma scrive: “Il filisteo vuole capire in un
attimo ciò che all’artista è costato mesi, forse anni di lavoro”. E in un
altro: “Mi piace, non mi piace, dice la gente. Come se non ci fosse niente di
più importante da fare che piacere alla gente”. Riflettiamoci. Smettiamola di
considerare il nostro ombelico il centro del mondo. E le nostre emozioni un
metro di giudizio esclusivo, inconfutabile.
Tholaria,
Amorgós, Cicladi, Grecia, 13 luglio
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