Francesco
Maria Colombo, Il tuo sguardo nero, Milano, Ponte alle grazie,
2018, pp. 334, € 18,00
Giuseppe
Scaraffia, sulla Domenica del Sole24Ore (22 luglio 2018, pag. 21,
Belli, sfrenati e pieni di talento) critica la scelta di
Francesco Maria Colombo di raccontare anche la nascita dell’idea,
la ricerca, la costruzione e la scrittura del romanzo: “Colombo ha
raccontato con passione e abilità questa fiaba moderna, peccato che
abbia ceduto alla moda di inserire nella storia dei riferimenti alla
sua vita privata, un’impresa ancora più ardua di una scena
erotica”. Intanto, quale fiaba? La storia narrata non è una
fiaba, ma un’esperienza profonda di vita. Ma perché, peccato? E
quale “moda”?Colombo non è il primo ne sarà l’ultimo
scrittore a mescolare i piani di una narrazione. In Spagna è appena
uscito El dolor de los demás
(Anagrama), terzo romanzo di Miguel Ángel Hernández Navarro, che
sta salendo in testa a tutte le classifiche di lettura, nei paesi di
lingua spagnola. Ne
ho già scritto
anche io, sia sul mio blog che sulle pagine
degli Stati Generali. Chi vuole può andare
a consultare quella mia recensione.
Hernández racconta
un omicidio, anzi un femminicidio, compiuto dal suo più caro amico
d’infanzia e d’adolescenza venti anni prima. L’uccisa è la
sorella dell’amico, forse anche la sua amante, oppure una sorella
stuprata. Lo scrittore non si limita a ricostruire la vicenda, ma
segue passo passo l’idea di scrivere un romanzo sul delitto
dell’amico, un romanzo e non un ricordo autobiografico;
l’autobiografia,
se mai, è dello scrittore che scrive un romanzo, non dell’amico
che rievoca il delitto di un amico. Su questo crinale ambiguo,
sfuggente, pericoloso, il racconto procede entrando e uscendo dalla
scrittura. Il pericolo non è tanto quello di cadere
nell’autobiografia, quanto di scoprire la sfida che ogni scrittura
lancia allo scrittore, quella del gioco tra verità e menzogna. Ma
che cosa è verità, nel ricordo, e che cosa menzogna? E, ancora più
profondamente, quanto è verità, rilevamento della verità in una
ricostruzione e quanto invece soggettivo giudizio di verisimiglianza?
Il tempo non c’entra in questa ricerca della verità? E quanto la
ricostruzione di un fatto realmente accaduto può diventare,
attraverso la scrittura, romanzo? Il grande poeta Costantino
Kavafis, nelle sue postume Σημειώτατα
ποιητικής και ηθικής (note
di poetica e di morale, Atene, Aiora, 2016), sorta di mon coeur mis à
nu d’un baudelairiano poeta greco moderno, scrive (traduco dal
greco): “Verità e Menzogna esistono? O non esiste che il Nuovo e
il Vecchio? La menzogna non è semplicemente la vecchiaia della
verità?” (III, 16.09.1902). Siamo quasi
all’epoca dei due amanti parigini raccontati da Colombo. Ora,
questo entrare e uscire dalla propria vita, rappresentato
dall’entrare e uscire dal laboratorio della scrittura, questo
navigare, come Ulisse, sfiorando gli scogli delle Sirene, ma non
lasciadosene
distruggere perché legati, appunto, dall’atto di raccontare
(Ulisse ai Feaci) o di scrivere (Colombo a sé stesso, prima che alla
pagina, e dunque al lettore), non è l’essenza stessa del romanzo?
E, in generale, della poesia? Ripeto, l’esperimento di Colombo non
è nuovo. E’ nuovo il modo di scriverlo. Che forse potrà urtare
chi del romanzo abbia un’idea più convenzionale di racconto
stretto ai fatti che si narrano. Ma è per caso che Thomas Mann,
accingendosi a narrare come sia nata in lui l’idea del Doktor
Faustus e come sia proceduta la sua
scrittura, non intitoli lo scritto Racconto
di com’è nato il Doktor Faustus, ma
Romanzo di un romanzo?
E prima ancora, Laurence Sterne, quando
scrive The Life and Opinions of Tristram
Shandy, Gentleman,
1767, oppure A
Sentimental Journey through France and Italy and Continuation of the
Bramine's Journal,
1768, non esce, anche lui, fuori dal racconto e racconta come e
perché racconti ciò che racconta? E prima ancora, l’immenso
Cervantes, padre di ogni narratore moderno, non fa lo stesso? Se
volessimo, potremmo indietreggiare perfino fino al Satyricon di
Petronio. Ciò che distingue un vero scrittore da chi semplicemente
scrive per intrattenere, è proprio la consapevolezza dell’atto
della scrittura. Si potrebbe citare perfino la Divina
Commedia
(ma già prima, la Vita Nuova).
Il personaggio
Dante
del viaggio non è affatto il Dante che scrive il viaggio del
personaggio
Dante. Ma non andiamo troppo oltre. E
non misuriamoci con queste stratosferiche altezze, potremmo essere
colti da vertigini. La
grande letteratura, comunque,
è sempre, anche, riflessione sulla letteratura. Scendiamo
all’oggi, e torniamo al romanzo di Francesco Maria Colombo, Il
tuo sguardo nero
(Milano, Ponte alle grazie, 2018).
Questo
è il suo primo romanzo. Ma Colombo non è solo uno scrittore (e,
vedremo, uno scrittore notevole). E’ anche musicista, direttore
d’orchestra. E’ stato critico musicale del Corriere della Sera,
il più intelligente, competente, colto, raffinato, tra i pochissimi
che in Italia meritino
di essere chiamati critici musicali. Ma è anche fotografo. Anzi la
fotografia è una sua grande passione. Che meraviglia dunque se si
sia innamorato di uno scrittore che
è anche
fotografo (e fotografo pornografico!), Pierre Louÿs
e della sua amante, Marie de Hérédia,
poi Marie de Régnier,
perché fotografata, nuda, dallo stesso suo amante e scrittore
fotografo? Se
in ogni racconto uno scrittore racconta più volte sé stesso, qui
Colombo scopre le carte, e lo confessa: sto raccontando me stesso
perché racconto Pierre Louÿs
e Marie de Régnier, la Parigi dei simbolisti e dei parnassiani. Di
Renoir e Fantin Latour.
Di Debussy e Chausson. Tra l’altro, proprio a un ciclo, immaginato
tradotto dal greco, di Pierre Louÿs,
Chansons de Bilitis, Debussy ricorre per due diverse partiture, una
di chansons, l’altra di divagazioni pianistiche che accompagnano la
lettura del testo. Rende bene la cultura del tempo che il cognome
fosse Louis, ma che a Pierre sembrasse banale, e pertanto lo
riscrivesse
Louÿs.
Debussy non fu da meno. A scuola si faceva chiamare e si firmava De
Bussy, vantando una noblesse inesistente. La simulazione crollò
quando un compagno gli chiese: “Bussy? Non conosco questo feudo”.
Si vendicò con una prodezza romana, quando fu pensionnaire a Villa
Médicis. S’infatuò di un vaso cinese sbirciato nella
vetrina
di un antiquario di Via Condotti. Implorò i compagni del Prix de
Rome, residenti nella Villa, di prestargli del denaro, adducendo che
era rimasto a secco, e che aspettava soldi da Parigi. Glieli
prestarono. Ma quando Debussy mostrò loro l’acquisto, in camera
sua, vantandone la finezza, capirono tutto. Ma lo perdonarono, perché
anche a loro l’arte cinese sembrava il massimo della raffinatezza.
Anni dopo Debussy chiese a Durand di stampare
una incisione
di Hokusai,
Kanagawa
oki naki
ura,
nel
vortice della grande onda di Kanagawa, sulla
copertina della partitura degli
“schizzi sinfonici” che intitolò
La
Mer.
Parigi
nella seconda metà dell’Ottocento e nel Novecento fino alla prima
guerra mondiale, è la capitale della Modernità nel mondo. Certo,
anche Vienna, Berlino, Londra, e in tono minore Praga e Budapest,
concorrono a costruire quella visione artistica che chiamiamo il
moderno. Nella poesia, il primato francese
è indiscusso. Da Baudelaire a Rimbaud, Verlaine, Mallarmé, Valery e
José-Marie de Hérédia e tutti i parnassiani, la poesia francese è
il modello della nuova poesia in tutte le lingue del
mondo.
Com’era già accaduto cinque secoli prima che Petrarca fosse il
modello di tutta la poesia europea, sia che lo si imitasse sia che lo
si contrastasse (un po’ come accadrà, nella musica dell’Ottocento,
per Wagner). In pittura gli impressionisti fondarono una nuova
pittura, che dopo cinque secoli demoliva i principi costruttivi della
pittura italiana come
s’erano imposti al resto d’Europa dal
Quattrocento in poi. Nel
campo musicale non è diverso. Schoenberg avrà peso dopo la prima
guerra mondiale, ma sempre in una cerchia ristretta: l’esplosione
schoenberghiana,
ma soprattutto di Webern,
avverrà nel secondo dopoguerra. Fino agli anni ‘40 del Novecento,
e anche oltre, il modello è la Francia. Mario Bortolotto vi ha
dedicato un libro imprescindibile: Dopo
una battaglia. Origini francesi del Novecento musicale,
Milano, Adelphi, 1992. Sarebbe
del resto pensabile la musica di Puccini senza l’esempio, allora
trionfante, di Massenet? Ecco: è questo il mondo a cui guarda
Colombo, e di cui, a ragione, si è innamorato. Questo romanzo,
infatti, è un atto d’amore.
“Quando
si tuffano le mani nel pozzo del passato, non per curiosità di
biografi e ricercatori ma perché ogni cosa ritrovata, albero, palo,
lampione. un’insegna di negozio in una foto di Arget, la traccia
dell’inchiostro violetto che Pierre Louÿs
ha depositato sullo stesso
foglio di
carta che è tra le nostre mani oggi, testifica il mistero della sua
presenza su questa terra; allora le cose mute, con la tenacia della
loro persistenza, sono infinitamente più espressive che non la
cognizione dettagliata di una storia. Sono
lì,
nella loro stupida oggettività: le agendine di Maricotte1,
con il minuscolo lapis che lei stessa usava e che ho tra le mie dita;
le matrici dei suoi libretti degli assegni; gli appunti raccolti dal
dottor Fleury, sindaco di Arcachondal 1977 al 1985 e primo biografo
di Marie, presi sul ricettario medico e sullo spazio bianco di una
rivista dove compare la pubblicità del Phosphalugel, da prendere da
due a quattro volte al giorno contro i bruciori di stomaco, le foto
di Fleury, di Goujon e di tutta la banda degli amici postumi di
Pierre Louÿs,
a un convegno su Jean de Tinan sabato 15 ottobre 1993 a
Sauveterre-de-Béarn: dove saranno andati a pranzo? cosa c’era nel
Menù? com’erano seduti a tavola? Come sarà stata vestita la
cameriera? e perché mai dobbiamo assegnare una gerarchia alle cose
che compongono la vita e scegliere che una dichiarazione di guerra
sia più importante dello chignon della cameriera? perché mai, se
tutto è vita,
se
tutto è quello
che si è vissuto
e nessuno saprà mai dirne il perché?; i loro vestiti, le
pettinature, la forma del colletto, il fazzoletto nel taschino del
dottor Fleury: dove sarà finito quel fazzoletto?; tutto ciò che
compone l’immane, inesplicabile deposito di quel che è stato,
l’enciclopedia di ciò che ha avuto un’esistenza o ha
accompagnato le esistenze. Ed è questo che mi tocca e mi ferisce
molto più delle narrazioni ben scritte. Per questo sono venuto
all’Arsenal: non per cercare una verità nuova, ma per toccare la
carta, per vedere coi miei occhi le lastre fotografiche. E per
questo, davanti alla pagina dell’Écho
de Paris
dove leggo, finalmente, il codice H.M.L. e vedo la traccia sbavata
del piombo, il carattere tipografico, la posizione nel menabò dello
stesso annuncio che hanno letto gli “innumerevoli occhi” di Marie
de Régnier, mi prende una vertigine. Di ciò ch’è stata la sua
vita fisica,
il
mistero del passaggio di tutti noi dall’idea eterna, se mai una vi
sia stata, al corpo sensibile, qualcosa è certamente rimasto qui, su
questi fogli che lei stessa ha toccato: l’impronta digitale, la
saliva disseccata sul retro di una busta; e questa persistenza,
sempre più fragile di giorno in giorno eppure tale che ancora
possiamo, a nostro turno e in qualche modo, partecipare di quello
stesso corpo sensibile, è il nostro patrimonio comune, la
verificazione che abbiamo vissuto, più di quanto non lo sia alcun
pensiero, alcuna idea”.
La
citazione è lunga, ma necessaria. Spiega il senso del romanzo, la
compartecipazione della vita di ieri a quella di oggi, la simbiosi,
anzi, del passato nel presente: ciò che resta, il particolare
insignificante, di quella vita estinta, è quanto resta per noi,
dentro di noi, perché lo vediamo, lo tocchiamo, lo leggiamo: “è
il nostro patrimonio comune, la verificazione che abbiamo vissuto”.
Qui il fotografo e lo scrittore si associano in un unico sguardo, lo
sguardo dello scrittore è anche lo sguardo della fotografia, la
parola si fa segno di qualcosa che non c’è più, come la
fotografia coglie la vita, l’attimo di vita, e
lo blocca, ma nel bloccarlo ci mostra anche la sua attuale
inesistenza. “Quelle foto non ci dicono chi fosse Marie de Régnier,
ci dicono che cos’è la fotografia”. Sono
“l’incorruttibile splendore dell’istante”.
Pagina
dietro pagina Colombo ricostruisce l’incontro, la seduzione,
l’attrazione dei due amanti, la complicità del marito, Henri de
Régnier, grande
poeta parnassiano, che esalta nel cesello dei suoi alessandrini la
distanza da una realtà che potrebbe
offenderlo, ma che invece, più semplicemente, lo
esclude. E
di questa esclusione, o forse alterità, Régnier fa la propria cifra
poetica. A mano a mano che ci si avventura nel vortice di queste
partecipatissime pagine, che però non perdono mai il controllo dello
stile, della proprietà lessicale e grammaticale (finalmente uno
scrittore che non cede alla vulgata di segnare la mezz’ora con
“mezza”, le otto e mezza, ma scrive, correttamente, le otto e
mezzo), si scopre il filo che unisce la storia evocata all’evocazione
scritta e la scrittura all’esperienza individuale di chi scrive,
ricordi, ossessioni, fissazioni, in un perpetuo gioco di specchi, ma
un gioco furioso, incandescente, che tocca nodi vitali, li sollecita,
li spezza, li martirizza.
Sorprendentemente il romanzo si conclude con il racconto della morte
del padre. Ma non di Marie e nemmeno di Pierre o di Henri. Del padre
dello scrittore, che in quel punto cessa, sembra, di essere
scrittore, e diventa un testimonio del proprio dolore, del dolore del
distacco, della disperazione di una irreversibile assenza.
“Poi
mio padre morì, all’inizio dell’autunno. Per anni io non riuscii
ad aprire di nuovo quelle fotografie, ne avevo paura. La parte
razionale di me tentava, e tanta ancora, di riassorbire l’evento
della morte nel cerchio naturale della vita, si convinceva che ‘era
meglio così’, che era uscito dalla stretta della sofferenza; ma in
quelle foto non c’era la mia parte razionale: per niente. C’era
tutta la passione dell’essere un padre e un figlio: conoscevo la
letteratura greca, e lì la passione è un’ascia folgorante,
brandita insieme dalle mani di morte, amore e carità”.
Riandate
alla pagina citata sopra. E’ lo stesso scrittore che parla. E parla
della stessa cosa. Dell’inafferabilità della vita, la vita ci
sfugge, non possiamo prenderla mentre viviamo, ma la possiamo
cogliere solo nell’illuminazione di un istante, di un’immagine,
anzi, fermata nell’istante, ma
non
nel ricordo, bensì
nell’esperienza
che di quell’istante l’immagine ci restituisce.
C’è
naturalmente molto altro, in questo bel romanzo, un romanzo anomalo –
per fortuna – nel panorama abbastanza piatto, salvo eccezioni,
della letteratura italiana di oggi. Anomalo proprio per la sua
libertà strutturale di apparente divagazione, di avanti e indietro
nel tempo tra vicende narrate e ricerca delle vicende da narrare, tra
l’obiettività del racconto e l’individualità della scrittura.
Insomma, un lavoro complesso, capillare, che si permette anche
divagazioni “meste” su certo provincialismo persistente nella
cultura italiana, che disconosce quasi sempre le figure italiane che
escono dal coro, che assomigliano di più alle figure europee e poco
o molto poco alla maggior parte delle figure italiane. Tra queste,
per esempio, Ugo Ojetti. Amico, tra l’altro, di Henri e Marie de
Régnier. Ma fermiamoci qui. Lasciamo al lettore di scoprire i
labirinti dentro cui ci trascina la scrittura di Colombo. Spero, per
il lettore, lieto
di esservi stato trascinato.
Fiano
Romano, 24 luglio 2018
1Marie
de Régnier.
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