DINO VILLATICO
LAMENTO DI UN EMIGRANTE PALEOLITICO DELL’AFRICA
Il nudo palcoscenico. Luce bianca. Visibili interruttori, corde, attrezzi sui muri. Silenzio assoluto. Si ode, dietro le quinte, una canzone alla moda. Suono gracidante, come da radiolina o lettore mp3, o ciò che sia, che funziona male. Una voce maschile: “Ma speggni ‘sto coso!” (l’inflessione dialettale va adattata al luogo della rappresentazione, qui uso un romanesco italianizzato, ma che deve diventare bolognese, veneziano, torinese, napoletano, milanese, a secondo della piazza). Di nuovo silenzio. La voce di prima: “E bùttate, no? Che aspetti?” Esce, imbarazzato, esitante, un giovane attore, jeans e maglietta, macchie di unto, qualche buco. L’attore può essere anche un uomo maturo o addirittura vecchio. Nel qual caso al posto della maglietta indosserà una camicia logorata, e aperta sul petto nudo. Sia l’attore giovane sia l’attore maturo o vecchio non si sarà rasato, o avrà addirittura la barba. Di nuovo la voce, da fuori: “A scemo! Ma che, nun te sei cambiato? Torna indietro!” L’attore guarda verso la voce, alza la spalle. La voce: “Vabbe’, fa’ come cazzo te pare. La figura del zozzone ce ‘a fai te”. L’attore alza gli occhi al cielo, come a dire “sono un zozzone?”. Anzi bisbiglia le parole della domanda. Guarda il pavimento. Alza gli occhi, si accorge del pubblico. Fa un ghigno di sorpresa, quasi un lamento, come ingoiasse il fiato. La voce, da fuori: “Ma che, nun ce ‘o sapevi che oggi c’è ggente? E’ prova aperta, oggi, a pischellé (o “a stordito” “a mummia”)! E daje, attacca!” L’attore si compone, si pulisce la mani sulla maglietta. Il vecchio si abbottona la camicia. S’inchina al pubblico. Sorride. Allarga le braccia in segno di rassegnazione e dà uno sguardo tra le quinte. Poi, piano, che quasi il pubblico non lo sente:
L’ATTORE Boh! Che cazzo. M’immaginavo un’altra
scena, un altro teatro, che stronzata.
Mi tocca. Sempre l’ultimo, che palle,
mai che qua mi si avverta, porca troia.
LA VOCE da fuori: Ma che bisbigli, a frocio? Statte carmo,
e nun dì parolacce che ce fai
‘na figura de mmerda. Daje, attacca,
che qua nessuno sta cor cazzo ‘n mano.
L’attore guarda fuori, tra le quinte. Resta perplesso. Guarda il pubblico. Sta zitto. Si ficca le mani in tasca.
LA VOCE urlando: A stronzo! E te voj dà ‘na mossa? Attacca!
L’ATTORE a voce piena, quasi urlando:
Ci avete fatto caso che un attore…
subito normale:
Ci avete fatto caso che un attore,
quando comincia sembra che comincia
sempre per caso? Forse era per caso
che anche il disgraziato che vi parla
oggi con la mia voce, il personaggio
che rappresento, qui, su questa scena,
un povero pezzente, un nostro antico
progenitore, capitato, come
tanti altri, come tanti sventurati
di sempre, dal paese dov’è nato,
giù nel sud, anzi no, nel sud del sud,
in Africa - là dove solo fame
c’è, guerra, pestilenza - capitato,
o piuttosto catapultato, come
un sacco d’immondizia, qua da noi,
nelle terre felici, nelle terre
che pensava felici, e dove trova
invece ancora fame, ancora guerra,
e altre pestilenze, era per caso,
dico, che anche lui, quel disgraziato,
quel figlio di nessuno, tutto nudo,
da incutere vergogna, quel suo corpo
pieno di piaghe, sporco, puzzolente,
quasi un po’ come me …
Ride.
Guardate questa
cosa che porto addosso. Una maglietta1?
Chi sa. Lo era. Ma da qualche tempo
ha smesso la funzione di maglietta.
E forse lui, nemmeno questa cosa
portava addosso, lui nemmeno questo
cencio logoro e sporco aveva indosso.
In Africa, da dove viene questo
pastore errante, questo migratore,
questo infelice nomade irrequieto,
in Africa giravano, e può darsi
vanno per la savana nudi, nudi
ancora come un tempo, e nudi tutti
anche nelle foreste, come appena
usciti gocciolanti dalla pancia
di mamma. Ma nessuno ci faceva
caso. Nessuno ci fa caso ancora
adesso in quelle selve, nei deserti,
nella savana. Ma perché non sono
che selvaggi, che vagabondi, senza
morale e senza legge, senza niente
di umano, sono scarti, sono bestie.
Si arresta. Riflette. Ridendo:
Proprio come gli attori. Nudi e sporchi.
Che vagano di piazza in altra piazza.
Un tempo a noi nemmeno ci era data
una tomba. Straccioni, vagabondi,
animali. Da vendere e comprare
per il gusto di un’ora, e poi buttare
via. Passarci magari anche una notte.
Al mattino, però, via dalla porta.
Proprio come quei negri disgraziati. -
Negri, si negri. Mica neri, mica
uomini, come noi, ma bestie, scarti
della specie dei sapiens, o se mai,
come sarebbe meglio, più preciso,
dire - dove starebbe poi la sua
saggezza? - della specie degli insipiens.
Sì, proprio come noi attori: scemi,
che la scemenza la portiamo in giro,
ce la scriviamo dritta sulla faccia.
Se no, e che, ce lo ficchiamo in testa
che giù ci stanno, e guardano, i più furbi,
quelli che non si vendono per pochi
spiccioli al botteghino, che le mani
se le ficcano in tasca, per sé stessi,
e mica, come noi pezzenti aperte
le sbattono qua sopra a domandare
ai furbi di là sotto che per grazia
ci donino la paga di un applauso.
La dignità, che cazzo, un po’ di sana
dignità. Ma che grazia! Lavoriamo,
e il lavoro si paga. Se non sbaglio,
ce lo dice anche la Costituzione.
Tutto uno scherzo, qualcuno ci dice,
che lavoro si paga. Dove? Quando?
Si fa serio:
Noi, però, noi attori dico, qualche
straccio ce lo mettiamo addosso. Mica
siamo davvero poveri straccioni
tutti quanti. Qualcuno si arricchisce,
anzi, e fa pure vita da signore,
o se è una donna, e s’è per giunta bella,
fa vita da puttana. Loro, invece,
i negri, gli africani, bàntu, zùlu,
no, nudi come scimmie, con il cazzo
e con il culo all’aria. Li chiamiamo
anzi zulù, per dire che non sono
altro che dei selvaggi, e che per questo
sono sfigati, perché sono solo
dei selvaggi che girano col culo
e con il cazzo al vento. Ma nessuno,
da loro, ci fa caso. Riflettete.
Perché lo fanno tutti, culo e cazzo
al vento tutti quanti. Che ficata!
Ma se da noi facessimo lo stesso?
Esci di casa nudo come un verme,
nudo che il cazzo balla sotto gli occhi
di tutti quando passi tra la gente.
Sai che casino. Viene un poliziotto
e ti porta in questura. E lì ci resti.
Oltraggio al senso del pudore. Senso
della vergogna. Ma di chi? Di quello
che lo spiattella, nudo e scappellato,
o del pudico che lo guarda e sbotta:
mamma mia! Se d’orrore o meraviglia,
non si sa. Che magari il manganello
non gli fa senso, ma se mai lo intriga,
e gli ingarbuglia il sangue nelle vene.
E sai, mi viene da pensare: quando
è successo che un cazzo, che una fica,
se dondolati e sparecchiati crudi
e nudi, per la strada, scoperchiati,
aperti, fanno scandalo? Che schifo!
Ma copriti, vergogna! Fanno schifo?
Ma davvero? Di giorno fanno schifo,
e di notte si cercano? Che idea
tortuosa i sapiens hanno maturato
della morale! Quanto conseguente,
poi! Alla luce offende ciò che al buio,
di notte, piace. Occhio non vede, cuore
dunque non duole. Il male è male solo
se si vede. Lezione da imparare.
Lezione che il selvaggio, soprattutto
se negro, se africano, dovrà sempre
tenere a mente, quando viene al Nord,
quando oltrepassa il mare, e ci contatta,
noi gente della storia, lui che viene
dalla preistoria. La separazione
dei mondi è netta. La separazione
tra il mondo che sta sotto, l’incivile,
il preistorico, l’arretrato, e il mondo
che sta sopra, il civile, l’aggiornato,
il dominante. L’incivile deve
adeguarsi, ubbidire, sottomesso.
Selvaggio è chi le cose le realizza
alla luce del sole, anche le cose
che ci sembrano, e sono, sono brutte.
Ma civile è chi poi le cose brutte
le fa solo di notte o di nascosto,
quando nessuno vede, e sono cose
perciò che non esistono, che nessuno
potrà testimoniare, confermare.
Chi sa, però, tra questi, chi del mondo
di sotto, chi di sopra, sarà il mondo
degli attori? Selvaggi, imbarbariti,
ritardati, intrattabili, incivili?
Né démoni né dei, che cosa, dunque?
Un mondo ch’è nel mezzo, né di sopra
né di sotto? Di mendicanti, quasi
selvaggi, quasi negri, ma non fanno
paura? O la paura è dappertutto,
nel mondo ch’è di sotto e ch’è di sopra?
E questo accapigliarci, questo buio
che gli occhi ce li strappa dalla testa,
è la paura di lasciare il mondo
dove si vive bene per andare
nel mondo dove tutti si sta male?
Si ferma. Riflette. Poi, d’un tratto:
Qui, però, ci s’impone una domanda.
Ma se i selvaggi fossimo noi altri,
che ci fa senso un cazzo? Non, invece,
chi gira tutto nudo, tutto il giorno,
come dicono che da quelle parti,
sembra, ma non so dove, fanno tutti,
e perfino s’intubano il pisello
dentro un astuccio. Ma che stramba idea!
Una guaìna per il cazzo. Forma,
che so, di protezione o esibizione
di potenza. L’ha sempre avuta, il maschio,
questa smania di sbandierarlo in faccia
a tutti il suo stendardo, il suo vessillo,
il cazzo, oh lui ce l’ha: prudenti, guai
a stuzzicarlo, a sminuirlo, a farne
un oggetto di beffa, che s’incazza.
Perché, chi non lo sa, in ogni maschio
smisurato è l’orgoglio che ha del cazzo.
Ci ha costruito, non a caso, sopra,
la giustificazione del dominio:
sulle donne, sui popoli, su tutto.
Entro dunque nel ruolo, e anch’io mi svesto.
Si toglie la maglietta, o la camicia. Resta a torso nudo. Si strofina il petto.
Ecco, così. Per ora, basta. Dopo,
dipende dalla recita. Da quanti
apprezzano la mia recitazione.
A quella, la recitazione, deve
il pubblico rispetto. Se il mio corpo
gli garba o non gli garba, è un altro conto.
E qui non c’entra. Sono quasi nudo.
Non è questione di guardarmi, adesso,
quanto di tollerarmi. Il nudo scopre
non solo un corpo. Ma se sei capace
di sopportare la sua nudità,
di non lasciarti offendere dal senso
che sentirai di repulsione, oppure,
vergognandoti, di fascinazione.
Si ferma, guarda il pubblico:
Non applaudite?
Aspetta l’applauso, se arriva, si batte il petto:
Ah! Ecco. Dicevo.
Vuol dire che vi garbo. Mi sta bene.
Il garbo è già un principio di consenso.
A che cosa, lo si vedrà più tardi.
Se il pubblico non applaude:
Non una risatina, un mormorio?
Ma non vi garbo a torso nudo? Strano.
C’è chi mi pagherebbe per vedermi.
Se il pubblico a questo punto applaude:
Lo dicevo. Sapete valutare
chi è fico e chi scamorza. Ma non c’entra.
Se il pubblico non applaude:
Lo dicevo. Tra quelli da scartare,
è questo che di me tutti pensate.
Anche lui solo un negro. Solo un negro
di attore che si sforza di sembrare
uno che non è negro, non attore.
Pausa, poi riprende, sia che ci sia stato l’applauso, sia che no:
Andiamo avanti. L’Africa l’abbiamo
superata, lasciata. Sono un altro
che scappa, che non trova pace. Nudo,
nella mia terra, denudato, quando
vado tra gente che si veste. Nudo,
nella savana, nelle selve, nudo
tra la mia gente. Qui mi vesto. Devo
farlo, tra gente che si veste. Sanno
che in realtà mi travesto, non mi vesto.
Ma non importa. Fingere un vestito
farà sembrare che lo indosso. Questo,
è del resto il teatro. Che vestito,
o nudo, mi presento con indosso
un vestito, la stoffa dei miei jeans,
o la mia nudità. Fossero solo
a coprirmi gli slip, un tanga, i boxer.
L’etichetta incollata sulla pelle.
Se no, non solo vengo imprigionato,
ma mi sputano addosso, sono morto.
Mi ficco un paio di jeans e una maglietta2.
Indosso un ruolo. Di emigrante, attore,
la differenza è minima. Il pudore
di non essere chi si è. Pensate.
E se l’attore è anche lui, scappato
non si sa più da dove, un emigrante,
uno che scappa da quando è venuto
al mondo, che scappava già suo padre,
e scappava suo nonno, il suo bisnonno,
che scappavano tutti non sapeva
da quanto tempo, forse già dal primo
sapiens, dalle foreste, dalle grotte.
Ma lui, quando scappava, quando aveva
paura sempre di qualcuno dietro
che lo inseguiva, che voleva farlo
fuori, ma lui, chi glieli dava i soldi
per un vestito? Dite che mi sbaglio,
che me l’invento, dite che a quel tempo
non c’erano vestiti. Ma sì, certo
che c’erano. Magari pelli, stracci
di lana che pungevano la pelle.
Nudo, sporco, fetente che faceva
schifo più che pietà. Del resto tutti
i poveri del mondo fanno schifo.
Fanno più schifo che pietà. Non sembro
anch’io uno di loro? Ma, vedete,
il fatto è che lo sono. Non lo schifo,
ma povero. L’attore fa la fame,
che credete, non sono tutti divi
che hanno una piscina sotto casa.
Per un divo che sguazza nella grassa,
per uno che ha venduto il culo - mica
tutti, ma ce ne sono che lo fanno -
per una che l’ha data - e ce ne sono -
prima che un culo, un’altra fica, o tutto
il cucuzzaro, e fica e culo, e quanto
vuoi, potessero a peso, a fette, a sniffi,
pagarselo e pagarsela, milioni
di guitti, commedianti, attori, attrici,
fanno la fame, tirano la cinghia.
Adesso ve lo spiego. Per esempio.
Viene la peste, e che si fa? A Londra,
a Parigi, a Venezia, in tutta Europa,
si chiudono i teatri. Shakespeare diede
gratis il culo al conte di Southampton.
O il conte a lui, chi sa: per uno come
Henry, appena ventenne, che è più donna,
che uomo, master mistress of my passion,
come lo chiama in un sonetto il bardo,
allora già sui trenta, o l'uno e l'altro,
a ruoli alterni, il culo e il cazzo, e l'arte
ficcati con finezza in ogni parte
e ci aggiunse l’Adone e la Lucrezia -
lo stupro, sì, lo stupro di Lucrezia,
The Rape of Lucrece, mica il ratto, come
straparlano i poetastri che non sanno
l’inglese ma si piccano a tradurlo -
e gli regala anche i sonetti, mette
una dark Lady a complicare il gruppo,
ma guarda tu che cosa deve fare
un attore, un poeta, un drammaturgo,
si chiami pure Shakespeare, se non nasce
dai lombi giusti, e i lombi deve usarli,
per arrivare con la pancia piena
alla fine del mese. E gli andò bene,
perché il giovane conte Wriothesley3, il biondo,
il bellissmo Henry, ricambiava
la scelta e in più gradiva l’alternanza,
e perciò lo protesse dall’invidia
dei rivali a teatro e nella vita.
Oggi non è cambiato niente. Arriva
un’infezione dall’Oriente, un’altra
forma di peste, un virus con le corna,
nasce una pandemia, e che si pensa
come primo provvedimento, come
prima difesa generale? O via!
Si chiudono i teatri. Elementare,
Watson! Elementare un cazzo, cazzo!
Le chiese no e i teatri sì?
Supermercati no, ma i teatri
sì? Che logica paracula! Dio,
e finocchi, carote, agnelli, polli
sconfiggono per uno a zero tutti
gli attori e se ne fottono alla grande
se chiudono le porte dei teatri.
Porca puttana, mondo di scartoffie,
come il diavolo fa nel Faust di Goethe,
oh! se mi piacerebbe presentarmi
davanti al trono e dirglielo sul naso:
fai schifo! Altro che i cenci di un pagliaccio,
gli stracci di un attore, la mia biacca
da quattro soldi, questi miei vestiti
sporchi per la miseria, lerci, lisi,
sbrindellati dagli anni, stropicciati,
unti, bisunti, dallo sfregolio
delle nottate insonni, dallo struscio
di puttane e mignotte, di marchette
più lacere di me, che c’impazzisco
per tutte le occasioni andate a vuoto. -
Ammutolisce. Si guarda le mani. Guarda in alto. Guarda dietro le quinte. Guarda il pubblico.
Ma sto perdendo il filo.
Si ode la solita voce, fuori: “E meno male che te ne accorgi puro te!”
L’ATTORE (urlando, verso la voce) Ma che vuoi,
testa di rapa, minchia moscia, frocio?
Non era questo il patto? “Alza le chiappe!
Bùttati! Salta sulla scena, parla,
di’ quello che ti pare, la cazzata
che t’esce dalla bocca, e improvvisa,
come nell’Arte, è il tuo mestiere, avanti!
il soggetto lo sai, come conosci
il personaggio, un povero selvaggio,
un marocchino, un negro, un disperato,
un lercio, un clandestino, un immigrato,
uno scarto del mondo ch’è scappato
dalla miseria, dalla guerra, un morto
di fame che non sa nemmeno dove
è arrivato, da dove, e per che cosa”.
Si ode di nuovo la voce da fuori: “Avanti! E smettila. Nun fa’ tante storie.”
L’ATTORE guarda fuori, verso la voce, fa cenno di sì con il capo, poi guarda il pubblico, e riattacca:
Tutte le storie hanno un inizio, tutte
una fine. Soltanto questa sembra
non volere nemmeno cominciare.
D’accordo: riprendiamo il filo. Sempre
botte, insulti: funesto il dì natale
per il povero attore. Ricomincio.
Dicevamo. Ma dove ero rimasto?
La voce, da fuori: “E daje! Fatte sotto. Nun svicolà, come sempre. Che razza d’imbranato!”
L’ATTORE tutto a un tratto serio, si carezza il petto nudo, se lo gratta, guarda in alto, poi fuori la scena, e infine il pubblico. Attacca con la voce sopra le righe, acuta:
Sempre per caso l’infelice uscito
dalla sua tana, capita e si perde …
(con voce normale:)
Sempre per caso l’infelice uscito
dalla sua tana, capita e si perde
nella foresta, in un deserto, come
anch’io adesso mi sono perduto
su questa scena, in mezzo a voi, sospinto,
più che dalla paura di sbagliare -
come tutti, del resto, come tutti,
qual è l’attore che non ha paura
di cominciare quando invece deve
cominciare? Comincio. Mezzo nudo,
non sono più quell’io, l’attore, morto
di paura, perché non sa di quale
altra paura, o meglio, con che voce,
con che parole dire la paura
che il sapiens ha da quando è nato, immensa,
incontrollata, di delucidare,
come una cosa ignota, agli altri, proprio
quella stessa paura che hanno gli altri,
anche gli altri, e di lui. Voi, ce l’avete?
Guarda il pubblico, come se aspettasse una risposta, aspetta un po’, se qualcuno del pubblico risponde, sorride, se non risponde nessuno, scrolla le spalle, e in ogni caso riattacca:
Ecco, quel disgraziato non sa niente
di sé, degli altri che non trova, o trova,
del mondo in cui è capitato, e chiede,
con gli occhi al cielo, con gli occhi alla terra.
Ma chiedere che cosa al mondo, al cielo?
Invocare da chi, un’assistenza?
Dalla Luna, dal Sole? Dal mio Totem?
Alle mie spalle resta la savana,
cedo all’azzurro di quest’altro lago
l’ocra della sua terra screpolata,
lascio la mia foresta alle mie spalle,
e gli altri fiumi, gli altri laghi, dove
nuotavo da bambino, e lascio dietro
le spalle le pozzanghere fangose
dove sguazzavo con i piedi nudi,
e schizzavo sui corpi dei bambini
che giocavano insieme a me gli spruzzi
del pantano e gli sputi delle nostre
risate, poi ruzzolavamo insieme,
scivolavamo allegri nella guazza,
e lascio alle mie spalle le frustate
di mio padre, gli strilli di mia madre.
Guarda il pubblico, si siede per terra:
Nella vita di ognuno c’è qualcosa
sempre, qualcuno, che si lascia indietro,
o che ci lascia. E dietro, si fa il vuoto.
Davanti si spalanca un altro vuoto.
Succede a tutti. E succedeva all’uomo,
quell’altro che io sono adesso, un uomo
venuto via dall’Africa, e si perde
in questa nuova terra, in questo nuovo
deserto, fosse pure una foresta,
la selva in cui si perde ogni uomo, quando
v’inoltra per la prima volta il piede.
Ecco. Ritorno a fare il disgraziato.
Si alza, guarda davanti a sé, i due lati della scena, fa il gesto di scrutare l’orizzonte con la mano sugli occhi:
Il confine dell’ultimo orizzonte
mi si stende davanti e io non vedo
ancora tramontare il sole, prima
che sullo stesso limite poi scorga
emergere la luna, come un disco
che si sporga dall’acqua e faccia chiaro
lo spazio che attraversa; non avevo
nel giorno altro veduto che deserti,
davanti a me, e lande desolate,
immensi spazi, sabbie arroventate,
mai un albero, un filo d’acqua, un occhio
di vivente che guardi nel mio occhio.
Si porta la mano alla bocca, la bacia, incrocia le braccia, afferrandosi a lati, come se si abbracciasse. China il capo in mezzo alle braccia. Si scioglie dall’abbraccio. Alza la testa e guarda davanti a sé:
Il limite, il confine della terra,
quello che immaginavo collocato
dopo l’ultimo passo nel deserto,
solo l’ultimo di un seguente, il primo
di una non avvistata muova terra,
è non trovarli, un limite, un confine,
ma il solo dentro il quale m’è concesso
di muovermi, partire, ritornare,
e se ripenso al mio cammino, vedo
le orme sulla sabbia, ma non vedo
il piede che le scava, il corpo stanco
che vi affonda e stramazza. Sono solo,
in una landa sterminata, vedo
pianure sconfinate, vedo in fondo
montagne irraggiungibili. Spuntate
come mostri dal ventre della Terra.
Un’anima che soffre, una feconda
vulva di tutte le cose che vedo,
è l’anima del mondo, il territorio
di chi vive e di chi la vita soffre
come una propria colpa, una sentenza
di condanna, conoscere è soffrire.
La fossa, questa vulva della terra
che ci espelle, ma che non ci sostiene,
sta sempre spalancata sotto i piedi.
Vedo me stesso immerso nella fossa
delle cose, nel brulichio convulso
d’infinite creature scorticate.
Il più nudo, il più spoglio e scorticato
di tutte le creature. Dove vado
si spostano i confini, stanno sempre
più in là, oltre la vista che misura,
i limiti e i confini, l’orizzonte
che supponevi di toccare, l’orlo
del Mondo, che bramavi, il filo
che separa questo quaggiù dal cielo.
Volta le spalle al pubblico, va verso il fondale – o verso il punto della scena dove c’è un interruttore – spegne la luce, la scena piomba nel buio, e si sente l’attore che scoppia a ridere. Ma presto il riso si converte in pianto, l’attore singhiozza, riesplode la luce, l’attore ha la mano sull’interruttore:
Ma conficcato, invece, sta, può darsi,
dentro il cervello, il limite inseguito,
s’innalza e si consuma, sbriciolato,
dentro la mente di ciascuno, dentro
la mente stessa della sua famiglia,
dentro il corpo del suo villaggio, dentro
la nebbia degli estinti, dentro il fuoco
che si brucia per gli antenati, dentro
il fumo degli spiedi che si rizza
come un serpente, o come l’asta
di un cavallo che cerca la giumenta,
e sale in alto fino al tetto scuro
della capanna, al ruvido soffitto
della grotta, su in alto fino al niente,
ogni confine, il limite che costringe,
insieme ai nostri corpi, anche la testa,
ci comprime il cervello, ci consuma,
ci fa tenere bassa sopra i piedi
la testa, e misurare cauti il passo,
attenti che il seguente non ci butti
nel precipizio di una bocca aperta.
Lascia la parete del fondale e ritorna al centro della scena:
Dentro la grotta di una stessa gente
alzarsi ho visto limiti, confini:
qui s’arresta il tuo piede, qui non passa
la tua mano, ti dicono decisi.
Non guarderai la faccia – non provarci! -
di mia sorella. La passiamo insieme,
ancora insieme, questa notte, amico,
ma da domani noi cammineremo
divisi. E quando arriveremo dove
penseremo che finalmente stiamo
bene, forse qualcuno troveremo
che lì ci aspetta. Avremo attraversato
e fiumi, e laghi, avremo camminato
per i deserti, avremo conosciuto
foreste che non sono le foreste
che abbiamo abbandonate e che, lasciate
alle spalle, ci ricordiamo ancora,
ancora ci tormentano nei sogni,
ancora le desideriamo, e fanno
di giorno gli occhi rivoltarsi indietro,
di lacrime addensarsi le pupille,
ma saranno, queste altre che vedremo,
altre foreste, fusti mai veduti
di alberi strani, e fiori sconosciuti.
L’abitatore di quei luoghi forse
ci piacerà, gli baceremo allora
la sua bocca. Ma se sorprenderemo
un occhio torvo, un gesto ostile, oppure
solo se non ci piacerà il suo viso,
lo uccideremo, lo faremo a pezzi,
ci sarà nutrimento per quel giorno.
Si toglie lentamente i pantaloni. Li butta per terra. Resta con le sole mutande, preferibilmente dei boxer. Muove le gambe come in un esercizio per scaldare i muscoli. Si stanca. Si siede per terra:
Ma dove vaga, pazza, la mia mente?
Intanto, mentre penso, mentre parlo,
ecco, s’è fatta notte. Ecco che spunta,
come ogni notte, nel cielo, la luna.
Eccola! Già la vedo: su quel filo
di luce bianca, a poco a poco sorge
la sua faccia, che sembra, quasi, oddio!
la faccia di un cadavere, la smorfia,
la maschera di un morto, coricata
sulla lama laggiù dell’orizzonte.
E mi ricordo quando in questo modo
nella terra lontana che ho lasciato,
io bianca come questa la guardavo
sorgere all’orizzonte, la vedevo
spaurito, come avviso di sventura.
La faccia di una maga, di una strega,
la fattucchiera che succhiava i feti
delle ragazze: vile, lo sciamano
le possedeva e, dopo qualche mese,
squarciava il loro ventre, ne strappava
quei pupazzi maligni. Li gettava
alle bocche fameliche di donne
invelenite, di ragazzi ancora
imberbi, ma furenti e imbestialiti.
La luna mi ricorda questi riti.
Io la guardavo pazzo di paura,
tremavo nel midollo dentro l’osso
che sentivo nel cranio scricchiolarmi.
Anche adesso la guardo spaventato.
Risorge dal profondo e nero abisso
dell’Oceano, mostra la sua faccia,
per farmi male, viene ad annientarmi.
Dalla bocca vedrò sputare il sangue,
tutto il sangue di tutte le ragazze
violentate, sacrificate, fatte
a pezzi, e poi distribuite, date
a tutti come pasto di fortuna.
Ti porterà fortuna. Questo sangue,
giovinetto, ti porterà fortuna.
Bevi, e serbane in bocca la sua traccia.
A te e alle tue donne si offriranno
da questa morte vite nuove, nuova
risurrezione dalla vostra morte.
Il sapore del sangue guarirebbe,
dice, qualunque malattia, qualunque
maledizione. La maledizione,
dice, e la malattia sono la stessa
cosa. Ma tu ne guarirai. Se bevi
questo sangue. Ho bevuto, disperato,
il sangue delle vittime. Ma resto
disperato. Mi sento in corpo, sempre,
la stessa malattia. Sorgi, luna, sorgi.
Sorgi, e tramonta. Io dormirò sfinito
da questa mia paura. Ma tranquillo.
Nel sangue di ogni ucciso, in ogni morte,
io riconoscerò, spaurito, il sangue
che mi palpita in bocca, la mia morte
io riconoscerò nel suo morire.
Ecco l’erba. Ecco là un ruscello. Dormo,
nessuna luna mi potrà cacciare
nelle vene il veleno del suo ghigno
di fattucchiera. E sognerò beato
lo straniero che accolga la mia fuga,
io non lo ucciderò, sulla sua bocca
poserò la mia bocca, e con il bacio
sigilleremo il patto di amicizia.
Sposerò sua sorella. Chi sa che una
nuova vita vivremo insieme tutti,
un nuovo patto, in una nuova terra,
una tribù di sangue misto. Sangue
forte che avrà dominio sulle terre
del mondo, fino all’ultimo orizzonte,
alla battigia che lambisce lento
l’Oceano, mi abbraccia in un amplesso
infinito la Terra. Oh, sì, lo sento.
Oh, sì, dormiamo. Cancelliamo il giorno
che mi vide spezzare di un ignoto
insieme al collo la sua vita. Il trivio
di cui sbarrava il passo, non sapevo,
non divideva solo il mio cammino,
ma segnava un confine al mio destino.
Il giorno dopo non sarebbe stato
il giorno dell’incontro, ma sarebbe
stato un giorno diverso. Nella notte,
nella profonda notte dei ricordi
che non si vuole ricordare, il giorno
dell’uccisione seminava i semi
da cui germoglia l’incubo di stare
al mondo. Dai germogli, attorcigliati,
adesso mi si avvinghiano, spinosi,
i rami della mia paura, in ogni
mio risveglio, per ogni notte in cui
dormendo sogno quella mia paura.
Si sdraia, assume una posizione fetale. Si tocca l’inguine. Infila la mano negli slip o nei boxer. Volta le spalle al pubblico. Il corpo si agita. D’un tratto si ode un gemito. Il corpo s’immobilizza. Lentamente si toglie le mutande. Resta completamente nudo. Resta un po’, nudo, sdraiato, con le spalle al pubblico. Infine si alza. Si volta verso il pubblico, lo guarda:
Ma il Sole sgombrerà tutte le nebbie
della Notte che, trasmutando faccia
mentre attraversa il cielo, offusca e opprime
la Ragione. Ma che Ragione, e quando
me la vedrò svelata, in questo cupo
caos dell’Universo, nel trambusto
celeste che scompiglia anche la Terra,
in quest’incubo bieco che mi grava
sulle spalle, mi schiaccia, come il peso
di una montagna che mi sia crollata
addosso, e che mi sento tutta quanta
schiacciarmi come un verme sulla terra?
e troverò mai la ragione, il senso,
di questa imperscrutabile Ragione
che domina e scombina il mio destino?
Tutto mi è oscuro, tranne il mio dolore.
BUIO.
Roma,17 settembre - Fiano Romano, 24 settembre 2018 – riduzione teatrale 22-23 settembre 2021
Revisione, aggiunte, Fiano Romano, 1 – 4 marzo 2022
1Naturalmente, se l’attore indossa una camicia, dirà “camicia”.
2Se maturo o vecchio dice: camicia.
3Per la pronuncia del cognome Wriothesley, cfr. https://www.youtube.com/watch?v=dlIVohfaUbk.
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