MNEMOSYNE
Ritorno nella Bassa Padana
ELEGIA DRAMMATICA PER UN PAESE CHE NON C’È PIÙ
Una spiaggia sul Po, sul fondo il ponte tra la riva emiliana e quella lombarda, tra Boretto e Viadana. Siamo sulla riva emiliana. A sinistra la foce del fiume Enza. Quanttro persone, un uomo e una donna, non più giovani, che indossano una giacca a vento, e si soffiamo spesso sulle mani, guardano, preoccupati, il fiume che scorre; con loro un Giovane e una Giovane, vestono un maglione girocollo, saltellano, fanno esercizi di ginnastica. Alle loro spalle boschi di pioppi. Tira vento, i capelli delle due donne, lunghissimi quelli della Giovane, tremano nell’aria.
L’UOMO VECCHIO Non è tempo, non è più tempo, questo,
di abbandonarsi all’elegia, quando anche
di conforto mi fosse ricordare
il mio tempo di lacrime. Fuggita
la mia felicità di starci, quale
felicità promette ora il ritorno
a questa terra amata che non posso
quasi più riconoscere mia terra,
che non ravviso più come mio mondo,
o, come mi credevo, mio pensiero
del mondo. La campagna tutto intorno
è solo affastellarsi di officine,
capanne abbandonate, ischeletriti
fantasmi di un’industria più sognata
che reale. Qui vedo le macerie
di un paese che lo pensava tutto
metallurgico il suo futuro: guardo
le fattorie abbandonate, piana
di terra brulla, uno spiazzo deserto
che lasciano i vigneti sradicati,
i frutteti abbattuti: eccolo, guarda,
ecco il paese senza più memorie,
che non ricorda la sua terra viva,
le sue feste di mietitura, il vino
rosso a fiotti su tavole imbandite,
come sagra, che dai contadini
è celebrata per la trebbiatura,
e in autunno i canti di vendemmia,
mentre sopra le teste rossi e bianchi
grossi grappoli d’uva sui capelli
richiamano gli uccelli, e dal ronzio
li senti visitati delle vespe.
Attento che non pungano la faccia!
LA DONNA GIOVANE Eccolo il Bel Paese, qui davanti,
Hai ragione. Ricordo da bambina.
Era diverso, devastato, certo,
già devastato, ma diverso. Sono
spariti i pesci, qui nel Po, mangiati
da un ospite improvviso, un pescecane
d’acqua dolce che chiamano siluro.
I romeni lo pescano, lo danno
per storione. Ma sì, era diverso.
Eccolo rispecchiarsi in questi vuoti
capannoni di fabbriche dismesse,
montagne di cemento abbandonate,
tettoie arrugginite tra terreni
che ignorano il passaggio dell’aratro,
eccolo rispecchiarsi senza inganni
un paese che lacera sé stesso,
che non ricorda più il suo passato.
Ma che ne avete fatto del futuro?
Che ne avete voi fatto, settantenni,
del futuro che ci si chiude addosso?
LA DONNA VECCHIA Qui c’erano vigneti, non ricordi?
Lo dico a te che c’eri, e non vedevi
a giugno verdeggiare tra le viti
l’erba medica, colorarsi i campi
di frutteti, di sorbi, di albicocchi,
di peri, e meli, e noci; e granoturco,
e girasoli indorare la vista?
Non li vedevi, di’, non li vedevi?
L’UOMO VECCHIO Nei canali fluiva un’acqua bruna
e trasparente, in cui ci si bagnava
nudi, e nudi ci si stendeva in mezzo
all’erba, che odorava di trifoglio
e di menta, si udivano le rane
gracidare nei fossi, e sotto i piedi,
nell’acqua del canale, un pescegatto
faceva acrobazie, guizzava lesto
senza paura a destra e a manca. Mai
nessuno si scorgeva che passasse
di là. E se passava, sorrideva,
scendeva e si spogliava e si stendeva
accanto a te nudo anche lui, sull’erba,,
ti guardava ridendo e con un tuffo
poi t’invitava a inseguirlo nell’acqua.
LA DONNA GIOVANE Un gioco di ragazzi che mi sembra
divertire. Ora l’acqua ti respinge.
L’UOMO VECCHIO Non era solo un gioco di ragazzi.
E si accende il ricordo, io ci vedo
anche dell’altro: un malizioso gioco
di seduzione. Anzi di giovanile
seduzione. Quel gioco, allora, è vero,
si faceva più scaltro, e aveva insieme
quella lieve, e vaporosa grazia
che tra ragazzi ha il gioco di un amore.
LA DONNA VECCHIA Non me lo avevi detto mai, canaglia,
che ci venivi a fare questi giochi.
Magari di nascosto hai continuato
a farli anche quando ti sei sposato,
quando sei diventato padre. Forse
perfino con tuo figlio, o glielo hai
insegnato, mostrato, dove, come
si fa. Che schifo! Non me lo hai mai detto.
L’UOMO VECCHIO Perché, voi donne non lo facevate?
Avevate anche voi sul fiume i vostri
nascondigli, avevate nei canali
i vostri appuntamenti, le segrete
vostre adunanze per segrete intese.
L’UOMO GIOVANE Ma che male facevano? Io non vedo
niente di male se amavano i giochi.
Chi non li ama? In segreto può darsi
li condanna chi più li ha fatti, oppure
desiderava farli. Sorvoliamo.
LA DONNA VECCHIA Sorvolare? No, me la paghi, giuro.
E tu, mio smerdocchello, ma che dici?
Se lo approvi, vuol dire che ti piace
anche te, svergognato, divertirti
con questo tipo di giochetti. Porco!
L’UOMO GIOVANE E a chi non piace? Ma parliamo d’altro.
L’UOMO VECCHIO Oh! stava qua l’industria, stava in questa
terra di vigne, terra di frutteti,
nei campi di frumento e granoturco,
di girasoli, stava in questa vita
l’ansia, la frenesia di cambiare
la vita, di scrollarsi dalla schiena
i fagotti dei sacchi di frumento,
di spazzare la paglia dalle stalle,
e scaricare le palate piene
di letame sul grande letamaio,
accanto all’aia, sotto gli alti pioppi -
ma dove sono finite le aie,
e dove i pioppi che dai tetti rossi
svettano sulle case e sui frutteti?
Assidue nevi, e più selvaggi venti
li hanno abbattuti del costante soffio
del tempo che appiattisce la memoria.
LA DONNA VECCHIA Non sospettavo in te la nostalgia
di questa inesistente, immaginaria
Arcadia. Dimmi quando un contadino
è stato mai felice della sua
condizione di contadino. Sogni
di esteta. Quando mai l’hai vista, idiota,
la fatica dei campi, la stanchezza
di un’aratura, e quello sfinimento
incessante, perenne, del lavoro
nelle stalle? Sei solo un sognatore.
L’UOMO VECCHIO Oh stava qui quel sogno naufragato
di moderno: sottrarre la fatica
al lavoro dei campi, convertirlo
nell’allegro lavoro degli automi,
e compensarlo con altra l’allegria:
di coglierne felici quel compenso
che merita il lavoro del cervello,
senza lo sfinimento delle braccia,
senza quel lento logorio degli anni
che la fatica scava sulla faccia,
e godersi la vista dei covoni,
dei cesti pieni d’uva, delle forme
rotonde di formaggio che un puntello
incide per l’assaggio, e finalmente
sprofondare nell’acqua dei canali
limpidi e bruni, rallegrarsi al tocco
dei pesci, alla frescura che sorprende
la pelle nel contatto, quando il corpo
s’immerge all’improvviso dentro l’acqua,
e sentirsi lavati, liberati
dalla stanchezza uggiosa del lavoro,
annusare nell’intimo l’odore
di letame che arriva dalla terra,
e poi tornati a casa, fiutare
come segugi il tiepido profumo
di latte appena munto, ed ascoltare
la sera, lungo il fiume, il gracidare
costante delle rane, percepire
l’ululato di gufi e di civette,
sorprendere tra siepi il luccichio
delle lucciole, e poi sdraiarsi a terra,
guardare il cielo, e non pensare a niente.
IL GIOVANE Che abbiamo fatto, invece? abbiamo quasi
demolito i ricordi, cancellato
una storia: inquinato, fiumi, laghi,
torrenti, prosciugata nei fossati
e nei canali l’acqua, smantellati
gli argini, e siccità, allagamenti
sconvolgono la terra; l’inseguita
modernità ci è scivolata via
dalle mani così come ci sfugge
dalla rete un’anguilla. Sempre fisso
il pensiero dell’oggi, del domani
si rinvia il progetto, perché l’oggi
ci chiama, ma non ci si fida, invece,
del domani, e si cerca quell’istante
che abolisca il futuro, lo preceda,
lo compia in un adesso ed abolisca
il passato. Disposti a rapinare
l’occasione immediata, e a lavorare
d’astuzia, ci spaventa quel domani
che vogliamo attuato nel presente.
Di parole colmiamo soddisfatti
sempre la bocca, ma di azioni, fatti,
mai riempiamo le mani. Andiamo bene,
ci diciamo, lo ripetiamo ad ogni
piè sospinto. Per questo poi restiamo
fermi. No, non va bene, non va bene
per niente. Quel domani cancellato
eccolo qui: ci guarda con spavento,
è quest’oggi che abbiamo inaridito.
LA VECCHIA Ma non è vero, protesta qualcuno.
E’ un male immaginario. Vi sbagliate.
Anzi, tutto andrà bene. E così sia.
Non dite questo, non lo proclamate
a destra e a manca, tutti quanti siete,
voi giovani? Che avete fatto, voi,
per cambiare le cose, per fermare
il disastro? Be’, te lo dico: niente!
IL GIOVANE E dovevamo noi cambiarlo, il mondo?
Noi riparare il disastro che voi,
solo voi, con ostinazione avete
pezzo per pezzo fatto così bene
fino a quest’oggi cupo e desolato?
IL VECCHIO No, non è tempo, non è tempo, questo,
per l’elegia. Ma i versi, non so come,
non so se maledetti o benedetti,
sembrano reclamarla. Oh questi versi!
Se ne scrivono ancora. E, come sempre,
sanguina il cuore! Corre dai nostri occhi,
sotto forma di stille, una poltiglia
che ingombra il bulbo e preme dentro l’occhio
le palpebre più spessa di una pasta,
si raggruma e di lacrime un intralcio
ottenebra la vista del presente.
Ma guardate che cosa abbiamo fatto
di questo nostro fragile paese!
LA VECCHIA Ha parlato il poeta! Mi portasse
a casa qualche soldo la poesia.
Maiale e sognatore. Questo sei.
Fandonie e porcherie sono materia
della tua vita e della tua poesia.
Ma gli dai pure ragione a codesto
sbarbatello?
IL GIOVANE Lo sbarbatello forse
ha veduto più cose, fino adesso,
di quante ne figura la sua mente
di vecchia incattivita.
LA VECCHIA Taci, taci,
non parlarmi di cose, non parlarmi
di vita. Che ne sai, tu, smerdocchello,
della vita? Ma vivila, sprecata,
sprecata l’hai, la vita, fino adesso.
Ti mantiene tua madre. Ma sta’ zitto!
IL VECCHIO Non vedo tutto intorno che macerie,
del passato non scorgo che le scorie,
gli scarti che ostruiscono la vista
del ricordo, materia di seconda
mano, che la scomparsa silenziosa
ci presenta di ciò che avvenne. E sia.
Ma l’informe del tempo non assume
una forma per questo suo sparire.
L’accaduto, succede che ti sfugge
dalle mani, lo senti come un nulla
che ti grava sul cuore, che ti pesa
come un granito sul cervello. Toglie
voce, toglie respiro, toglie il canto.
IL GIOVANE Ci vorrebbe, chi sa, una poesia
senza canto, parole scaricate
dalla bocca per caso, senza fuoco,
a dire le parole di quest’oggi
senza parole, a raccontare questo
tempo senza passato, questo tempo
senza domani.
IL VECCHIO Come posso, dunque,
ancora figurarmi un’elegia
e anche figurarmela attuale?
LA GIOVANE Ma perché pensa che abbia bisogno
il mondo di elegia? Ce n’è perfino
troppa. Ce n’è perfino negli annunci
pubblicitari. La smetta con questa
lagna dell’elegia che non è tempo
di scriverla, cantarla. Ma da quanto
si dice e si ripete che per sempre
è morta la poesia? I morti siete
voi. Voi che non sapete più ridirla.
IL VECCHIO Non è più tempo di elegia. Ci resta,
anche dell’elegia, solo il ricordo,
in questo tempo che non ha ricordi,
ma nemmeno speranze, ch’è la forma
del ricordo se guarda nel futuro.
Povero Eliot! Non c’è più nemmeno
quel tuo presente che contiene
il passato e il futuro in uno stesso
tempo. C’è solo la desolazione
di un tempo che non è più tempo, un tempo
che ha ingoiato il tempo. Come posso,
dunque, cantare ancora un’elegia,
che altro non è se non la voce stessa
del tempo che ritorna, che s’insedia
nel presente, lo colma fino all’orlo
di tutto il suo passato, e lo prepara,
scardinate per sempre le parole
che dicono il passato, a pronunciare
le parole che dicono il futuro?
IL GIOVANE Non ho la voce giusta. O non è questo
il tempo giusto. No, non è più tempo
per l’elegia. Ma, forse, non è tempo,
ormai, per nessun canto. Fuori moda.
Il nostro tempo è un tempo che non canta.
Un tempo di parole senza ritmo.
E dunque un tempo che non ha parole.
Ma sì, lei ha ragione. Questa strana
sintonia tra le sue e mie parole
sembra la sintonia inosservata
dai più del mondo ch’è scomparso e quello
che non appare. Tutti e due diciamo
quasi la stessa cosa. Lamentiamo
un mondo che non c’è, ma che vorremmo
vedere vivo e nuovo intorno a noi.
IL VECCHIO Taci, per sempre, voglia di elegia.
Sei venuta in un tempo che t’ignora,
non ha bisogno di te, non ti vuole.
Appenderò la partitura al ramo
di una quercia. Bambino a questa quercia
altissima, davanti la mia casa,
gli uccelli che cantavano credevo
che fossero divini. Io gli parlavo.
Chi sa che un dio – sbirciando lo spartito -
non se ne appropri, e ricantando nota
per nota il canto, ne diffonda il suono,
e questo tempo che non sa cantare
ricanti insieme al dio quei vecchi canti,
e il tempo tornerà di nuovo tempo
di parole, di nuovo ancora tempo.
LA VECCHIA Chi sa! Nei labirinti del ricordo
il tempo non è tempo, ma miscuglio
di spezzoni del tempo. Sovrapposte
figure riavvicinano lontane
separazioni, e gioie immaginate
perenni le si sente svaporare
all’improvviso come schizzi d’acqua
su lamine roventi. Ma rovente,
sembra, è soltanto l’affollarsi fitto
dei desideri inattuati oppure
solo per un istante attinti e presto,
più che rimpianto, immedicata voglia
di una ripetizione inutilmente
eppure furiosamente attesa,
defraudati alla fine dello stesso
desiderarla. Perdere chi si ama
devasta più che non essere amati.
Quando è avvenuto, amico, che dai nostri
pensieri uno di noi s’è allontanato?
IL VECCHIO La fatica non è che sulle spalle
gravano gli anni, il peso dei ricordi,
ma misurarli, quando del segmento
di tempo che ti tocca, la Ragione
prevede presto che verrà la fine,
il Sentimento si smarrisce, cede
all’improvviso scollamento, al buco
tra cuore e cosa, vede quanto fioca
illumini la luce del pensiero
anche la poca quantità di vero
che supponevi inossidata, in mezzo
alle incertezze mai più scardinate
dei tuoi scarsi contatti con il mondo.
LA VECCHIA Ragione, sentimento, che diffusa
sensazione di controllare questa
nostra sopravvivenza! e tocca invece
la tua pelle l’insidia di un nemico
inavvertito della vita, anch’esso,
però parte ma che vorresti fuori,
della vita, invisibile da dentro
ti penetra le vene di quel falso
paradiso che ingenuo tu chiamavi
Natura: oh niente è naturale, tranne
la tua disperazione. Sentimento,
ragione, le tue maschere di fuga,
il buco in cui nascondere la tua
questa sì senza scampo inossidata,
immutabile inadeguatezza.
LA GIOVANE Ragione e sentimento li racchiudi
in un gioco che trucca le tue carte,
ma poi li espelli con un solo fiato
di paura – la vita, che ti giochi
come se fosse tua e con quel fiato
potessi pronunciarla – ma qualcuno
la chiama poesia. Tu sai che invece
nemmeno la poesia può addolcire
il mondo, il mondo si avvelena, e crepa,
anche senza la tua poesia. Noi siamo
- dice qualcuno – della stessa pasta
dei sogni, ma chi dice che anche un sogno,
volatile com’è, non possa dentro
racchiudere un inferno? Vedi, dunque,
se ancora ti è possibile cantare
un’elegia. Chi sa, più che i ricordi,
a scomparire sembrano le cose.
IL VECCHIO Casali, fattorie, nella pianura
e lungo il Po, fin dentro l’acqua, rive
di terriccio sassoso, o bianche spiagge
che mutano dimora col mutare
delle correnti, travolgono muri
di mulini, steccati di giardini,
vecchi ponti di barche, folti boschi
di pioppi, il pianto languido sull’acqua
di sospiranti salici, caduta
lieve di foglie come un lungo addio
che il fiume si trascina via lontano.
Adoravo nuotare sotto i rami,
abbandonarmi nudo alla carezza
di quei rami cadenti. Era, può darsi,
come un bacio segreto delle piante,
forse l’impercepibile venuta
di una ninfa, e la mia estenuata
ansia di unione si placava in una
sorta di nuova, di avvolgente, acuta
trafittura, in una eiaculazione.
LA VECCHIA La trafittura, oggi, è la scomparsa
dei salici. Ma fossero scomparsi
solo dal campo antico di quegli anni
sulle rive dei fiumi e dei torrenti
i salici piangenti che un sorriso
destavano nel cuore: senz’avviso,
inaspettatamente, crudelmente
il vortice del tempo ingoia e annienta
gl’inabitati sguardi, le perdute
carezze dell’amato e lascia, dove
ci si ricorda un bacio, nello stesso
punto, l’inappagato desiderio.
IL GIOVANE L’inappagarsi della vita sembra,
se proprio se ne cerca un senso, tutto
il senso della vita. E in quest’assenza,
l’impulso, dall’interno della vita,
o può darsi la giustificazione
mossa dal sangue stesso nelle vene,
che genera, che quasi ci costringe,
e ci autorizza l’elegia. Ma quale
consolazione avremo noi dal canto
che ci mostra le perdite, i delitti,
le disfatte del fiato che pronuncia
un amore, o che implora un aiuto?
IL VECCHIO Appendo al gancio la mia lira. Solo
se mi appaga il silenzio. E nel silenzio
vorrei che risuonasse l’elegia.
Ma quanto siamo venuti dicendo
fino a questo momento, amica troppo
forse da me sottratta ai miei pensieri -
ma includerti come potevo, amica,
se non c’eri? - di’, quanto abbiamo detto
finora, non è forse un’elegia?
IL GIOVANE Come ti sento a me fratello, vecchio!
Le inesaurite, inesaudite stille
se avrò contate della sofferenza
che spegne il fiato, ripigliarmi come
saprò dei giorni estinti la perduta
mia voce? come della consumata
gioia la ormai fuggita tenerezza
potrò senza rimpianto ricordare?
Ecco che mi rispunta dalla pelle
questo pianto che cerca le parole.
Come se le parole una segreta
consolazione dessero al dolore.
Che invece resta, e morde più vorace
il cuore. La poesia non consola:
guarda, ragguaglia, esamina, racconta.
E a un mondo senza senso dona il senso
di figurarne il torbido groviglio.
La distanza degli anni non confonde
la memoria. Anche di un solo momento,
di una sola perduta voce, un solo
contatto che non si è trattenuto, scava
deserto di millenni dentro il cuore.
LA VECCHIA Visitarlo, conoscerlo vorrei,
senza pentirmi, un mondo confortato,
ma non ho che disordinati spazi
dentro cui soffre ogni vivente forma.
L’elegia, oggi, non è più rimpianto,
non ha maschera che nasconda il volto,
né morso in bocca che freni la lingua,
l’orrore è denudato, la miseria
denunciata. Bellezza, se si cerca,
è questa libertà che osserva e parla.
LA GIOVANE Il nostro è il tempo non più del lamento,
di un’elegia che pianga. Il nostro è tempo
dello sguardo che sveste, della bocca
che dice l’indicibile, dà nome
al male che si vede, ma nessuno,
o per paura, o perché ne fa parte,
ha voglia di additare. Il nostro è tempo
del solitario che denuncia, tempo
del pazzo che osa dire ciò che dire
sembra proibito, inopportuno, cosa
che fa vergogna o, peggio, compromette.
IL GIOVANE Il nostro è il tempo di chi è contro, il tempo
di chi rifiuta. Tempo di tiranni -
uno o molti che siano – richiede
voce di libertà, di opposizione,
l’elegia del futuro è questo canto
che non piange, che guarda, alza la voce,
e invece di nasconderle, le crepe
della vita le mostra, le risana,
se può una poesia risanare
il male che da secoli, millenni,
offusca, tramortisce, uccide il mondo.
Quest’elegia che non è elegia,
oggi dobbiamo a chi vive: lamento
forse, ma che non muore finché il sole
risplenderà sulle miserie umane.
Brescello, 26 agosto – Fiano Romano, 12 settembre 2020
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